12 dicembre 2012

Il Barbiere di Siviglia al Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone

Il Barbiere di Siviglia ovvero lo spettacolo d’arte varia di uno innamorato di te, direbbe il Conte. No, non Paolo Conte ma il Conte di Almaviva. Perché in fondo il capolavoro di Rossini è questo, la messa in scena intricata e cervellotica di un Lindoro che vuole la sua Rosina. Travestimenti, lettere d’amore, trucchi e sotterfugi per strappare la bella giovane alla prigione domestica del vecchio Bartolo, l’avaro e sospettoso tutore.



Arriva a Pordenone il fortunato allestimento del Barbiere di Siviglia di Rossini già accolto trionfalmente al Verdi di Trieste. Opera buffa per eccellenza, spogliata di tutto il dirompente carico di critica sociale dell’originale – infondo nel Beaumarchais in salsa Sterbini la satira polemica e iconoclasta che terrorizzava le corti del Settecento appare decisamente mitigata – e altresì priva di quella straripante umanità che è cifra distintiva della gemella mozartiana, il Barbiere non è che divertimento allo stato puro, colori, risate e ancora risate.

Lo spettacolo di Ruggero Cappuccio si serve di scene semplici e variopinte (curate da Carlo Savi), viste e riviste ma piacevoli all’occhio, la trama è rivisitata come sogno del compositore stesso che interviene in prima persona, burattinaio e spettatore dei suoi personaggi. La regia ricalca tutti i luoghi comuni dell’opera buffa, dalle gags d’avanspettacolo disseminate durante i recitativi alle coreografie stereotipate quali soluzione registica prevalente per risolvere i numeri chiusi, da sempre banco di prova tra i più ardui per chi intenda affrontare il grande repertorio operistico preromantico. Cappuccio conosce il teatro e sa portare a casa la serata, e, se è vero che alcune obiezioni possono essere mosse in merito al gusto, va riconosciuto al regista un solido mestiere nella gestione del ritmo come nella cura dei solisti (mentre le masse sono parse talora abbandonate a sé stesse).

Figaro era il baritono Roberto De Candia, voce né bella né brutta ma garbata, di buona presenza seppur modesta nel volume. L’artista è vivace in scena, vario nel canto e misurato nell’accento, la musicalità impeccabile. Manca ancora quella personalità istrionica che in una parte tanto celebre fa la differenza. Antonino Siragusa è un Conte di grande esperienza; la voce, benché piccola e leggera, suona squillante in acuto e ugualmente sonora nel registro grave. Il tenore si rende protagonista di una prova in crescendo che raggiunge il momento di massimo pregio nell’impervio rondò del secondo atto, applauditissimo dal pubblico. 

Daniela Barcellona è una Rosina di voce ampia e di bel timbro, pienamente convincente sul palcoscenico. Non c’è la freschezza adolescenziale del personaggio, debito ripagato da un’attenta cura del fraseggio e da ottima musicalità. Paolo Bordogna prestava la sua classe e la sua verve scenica ad un Bartolo fresco ed esuberante, ottimamente cantato peraltro. Convincente sia vocalmente che scenicamente lo stralunato Basilio di Marco Vinco. Positive le prove di Rita Cammarano, Berta leggera ma frizzante e di Christian Starinieri nei panni di Fiorello.

Corrado Rovaris, sul podio di un’Orchestra del Verdi di Trieste non particolarmente in forma, reggeva le sorti dello spettacolo con buon senso del teatro, concentrando le attenzioni sulle esigenze del palcoscenico piuttosto che sulla ricerca del preziosismo musicale. È parso in parte sacrificato il brio della musica rossiniana in taluni passaggi gestiti con eccessiva pesantezza o nei crescendo che sarebbe piaciuto ascoltare calibrati con maggiore attenzione, mentre buono è sembrato l’accompagnamento al canto. Positiva la prova del coro del teatro triestino.

A fine spettacolo applausi per tutti con punte di entusiasmo per Bordogna, Siragusa e Barcellona.

Paolo Locatelli
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1 dicembre 2012

Intervista a Cesare Lievi

Incontriamo Cesare Lievi nel suo ufficio presso il Teatro Nuovo Giovanni da Udine dove ricopre il ruolo di sovrintendente dal 2010. Regista, drammaturgo, scrittore, una carriera internazionale costruita nei principali teatri del mondo, dal Metropolitan di New York alla Scala passando per Berlino, Parigi, Zurigo. Ci parla di teatro, di musica, di quanto sia drammatica la situazione culturale nel nostro paese.


Maestro Lievi, come valuta la situazione culturale italiana?

In Italia c’è un grave problema in materia di cultura che ha profonde radici nel passato. Da un lato va considerata la presenza storicamente ingombrante della Chiesa che per secoli ha gestito e influenzato la cultura, dall’altro c’è un problema di volontà politica, non c’è mai stato un disegno strutturato che programmasse la modalità di sviluppo della cultura. Basterebbe guardarci attorno: la Germania si è denazificata grazie alla cultura e lo stesso è successo per l’uscita dal ’68, superato grazie allo spostamento della tensione dal fronte politico a quello culturale. Se si deve uccidere il Re è meglio ucciderlo simbolicamente, in un teatro.

A cosa attribuisce le ragioni di questo ritardo italiano?

Il teatro dovrebbe essere il luogo della discussione, della libertà espressiva, anche della follia. In Italia purtroppo questo non viene capito. Basta guardare la situazione del teatro operistico in cui il divario tra il nostro paese e l’estero è abissale. Non parlo tanto di qualità della realizzazione artistica quanto piuttosto dell’idea della funzione del teatro: in Italia il teatro d’opera è considerato un luogo di ritrovo, quasi un rito mondano, il pubblico non si interroga molto su cosa stia osservando. Spesso si va ancora a teatro per pura vociomania, prestando più attenzione ai minimi dettagli vocali piuttosto che per interrogarsi sul significato drammatico dello spettacolo. C’è questa tradizione fortemente radicata in Italia del teatro inteso come mero divertimento mentre il teatro moderno non è solo questo, è un ripensamento critico della realtà. Un mio maestro diceva che dal pubblico di un teatro si capisce il carattere di un paese, e purtroppo il pubblico italiano ci suggerisce quale sia la situazione culturale del nostro paese. Si tratta di un problema antico, manca la tradizione in questo senso.

Non sembra ottimista per il futuro del teatro in Italia.

Non lo sono. Temo che il teatro in Italia stia vivendo un progressivo ed inarrestabile declino e credo si tratti di un processo irreversibile. I fondi sono sempre più esigui, i teatri stabili – che sono la colonna vertebrale del sistema – sono sull’orlo del fallimento e producono sempre meno, le compagnie private stanno scomparendo. Non è un caso che in Italia si sia sviluppato il teatro narrazione, forma che in altri paesi non ha preso piede. Un artista come Paolini, bravissimo, all’estero probabilmente non avrebbe avuto modo di imporsi con tanta risonanza.
Poi c’è un problema di mancanza di pubblico, il modo di fare italiano non ha creato pubblico. È importante riuscire a coinvolgere i giovani, portarli a teatro, per questo siamo fortemente impegnati con le scuole. Quando ho iniziato a lavorare a Brescia gli abbonamenti-scuola erano 83, dopo 14 anni erano diventati 1400, adesso sono 1600 e sono la salvezza del teatro, presente e soprattutto futura. È meglio perdere abbonati e acquistare pubblico giovane, questo dovrebbero capire i dirigenti dei teatri italiani. L’abbonamento non deve essere l’elemento fondante del teatro, non lo è più. Generalmente gli abbonati sono persone mature che hanno una disponibilità economica e di tempo libero che i giovani, gli studenti – il pubblico di domani insomma – non hanno. Il pubblico giovane sceglie spettacoli mirati piuttosto che l’abbonamento. Inoltre c’è una notevole difficoltà a raggiungere i giovani da un punto di vista “propagandistico”. Il teatro è visto nel nostro paese come una struttura vecchia e polverosa che tende ad allontanare piuttosto che attirare il pubblico nuovo. In questi anni però abbiamo già fatto molti passi avanti nello svecchiamento del pubblico.

Immagino sia difficile lavorare in Italia per un regista

Lo è. Nei paesi di lingua tedesca ci sono 180 teatri stabili che lavorano per sei giorni a settimana 11 mesi l’anno, c’è una varietà di offerta e una ricchezza di opportunità che da noi manca. La struttura del teatro tedesco è completamente diversa: non esiste il consiglio di amministrazione, sono presenti figure a noi completamente sconosciute come ad esempio il dramaturg. Inoltre la professionalità all’estero è nettamente superiore perché diversa è l’educazione alla professione teatrale. Da noi c’è molta volontà che spesso si risolve nell’improvvisazione mentre manca la competenza specifica e la conoscenza di quanto avviene nel resto del mondo. Cosa significhi teatro, recitare, cosa voglia dire “fare cultura” è qualcosa di oscuro in Italia mentre dovrebbe essere terreno comune, il substrato culturale da cui partire.
Spesso ai registi italiani manca la capacità di lavorare sul rapporto tra i soggetti in scena, la legge della reciprocità: a teatro è chi sta zitto che determina chi l’azione di chi parla. Ed è così che il teatro riesce ad essere vivo, vincendo la concorrenza di altre forme di comunicazione più immediate come il cinema o i videoclip.

Il discorso circa il pubblico italiano può essere esteso all’ambiente udinese?

È difficile fare un discorso in generale ma devo ammettere che il primo contatto con la realtà udinese è stato spiazzante. Avevo presentato “Giorni felici” di Samuel Beckett con Adriana Asti e la regia di Bob Wilson, convinto di portare in città un grande evento. La risposta fu tiepida, parte del pubblico abbandonò la sala al primo intervallo e io fui fortemente contestato per la scelta. Ovviamente tra quel pubblico c’era anche chi aveva molto apprezzato la proposta ma non era certo la maggioranza. Il pubblico udinese è molto eterogeneo: ce n’è di raffinato, curioso e colto e c’è una parte che preferisce l’intrattenimento al teatro, un pubblico molto legato all’idea televisiva di spettacolo.

Crede che ciò possa dipendere dal fatto che a Udine non c’è una tradizione antica di teatro in città, lo stesso GdU ha una storia molto recente?

Sì, dipende anche da questo ma soprattutto dal fatto che non c’è tradizione di un teatro stabile. Questo aspetto è molto strano perché la regione Friuli ha sempre investito molti fondi nella cultura. Se dovessimo analizzare l’effettiva resa dell’investimento culturale qui in regione troveremmo un rapporto estremamente sbilanciato tra fondi spesi e risultati.

In tal senso, crede che il suo compito di sovrintendente sia quello di puntare ad assecondare le richieste di questa fetta di pubblico meno esigente o puntare piuttosto alla qualità dell’offerta, a costo di scontentare qualcuno?

Io sono stato chiamato a Udine dall’assessore Reitani e dal sindaco Honsell proprio con il progetto di ampliare il programma puntando sulla qualità e per iniziare a produrre spettacoli. Purtroppo in Italia l’idea di produrre spettacoli è poco diffusa e confinata alle città che ospitano teatri stabili. Nella gran parte delle città il teatro si riduce ad essere un contenitore che ospita produzioni esterne, atteggiamento che per quanto positivo non serve alla crescita culturale della città.

Tornando all’assunto secondo cui dal pubblico di un teatro si può percepire il clima culturale di un paese, il problema della superficialità nella costruzione dei rapporti tra soggetti può essere estesa in generale alla popolazione italiana o è un problema prettamente teatrale?

La mancanza di dialogo è un difetto italiano. Posso parlare dei tedeschi che conosco meglio: loro quando parlano cercano di esprimere un pensiero in modo chiaro, è la costruzione logica della frase che impone questo tipo di approccio. Spesso l’italiano, quando parla, non si preoccupa della chiarezza ma piuttosto di convincere l’interlocutore ed a tale scopo usa tutti gli espedienti possibili, gesticola, si dimena. Dirò che l’eccessiva gesticolazione è un difetto che rimprovero anche a molti attori nostrani. Ad oggi, purtroppo, molti italiani – e mi riferisco soprattutto ai discorsi di certi esponenti della classe dirigente – neppure si preoccupano più di convincere il pubblico quanto piuttosto di fare impressione, ed è una cosa molto triste.

Crede possa dipendere da una deriva culturale collegata ad un assorbimento del modo di comunicare televisivo?

Sì, senz’altro, però su un nucleo già fecondo. Altrove questa preoccupazione di impressionare l’altro non c’è.

Quali progetti porterà in futuro al Giovanni da Udine?

A gennaio curerò la regia di “La Fine dell’Inizio”, testo molto interessante di Sean O’Casey, autore irlandese molto importante ma poco conosciuto in Italia . È apparentemente una farsa, molto comica ma analizzata attentamente parla di cose molto serie e io cercherò di dimostrare come “La fine dell’inizio” sia in realtà una clownerie teologico-filosofica.

Nel teatro tedesco è fondamentale la figura del dramaturg di cui parlava poc’anzi. Ci può brevemente spiegare il ruolo di questa professione?

Tutti i teatri tedeschi hanno un dramaturg che si occupa sia di opera che di prosa. Costui collabora con il sovrintendente nella scelta delle opere da fare in base all’ensemble che si ha a disposizione, fa il casting con il regista in base all’impostazione drammaturgica che si intende perseguire, valuta il konzept e lo relaziona alla storia registica, lavora alla scelta e alla manipolazione del testo (eventuali tagli, quale traduzione adottare), sceglie la letteratura critica. Inoltre il dramaturg segue le prove mediando tra le varie professionalità coinvolte nel progetto. Io avevo tentato di portare a Brescia un dramaturg e ci riuscii, per ben sei anni. Purtroppo il sistema di produzione italiano è refrattario a questo tipo di novità, i registi non lo accettavano e così dovetti rinunciare al progetto.

Quali progetti ha per il futuro Cesare Lievi?

Nell’aprile 2014 farò il Cavaliere della Rosa di Strauss a Manaus in Brasile, nel teatro di Fritzcarraldo, il famoso commerciante melomane ritratto nel film di Herzog che a fine ottocento fece costruire un teatro in mezzo all’Amazzonia. Questo teatro nella primavera di ogni anno ospita un festival operistico.

Parlando di Der Rosenkavalier, chi è la Marescialla secondo lei?

La Marescialla è una donna ritratta nell’attimo in cui si accorge che le vita sta facendo una curva, quando la giovinezza cede il passo alla fase declinante. Il momento più importante dell’opera è quello in cui lei prende consapevolezza di essere invecchiata. Il rapporto con Octavian è indicativo: inizialmente il piacere della Marescialla sta nel fatto che il giovane veda in lei la vita e ciò la fa sentire giovane e viva. Ma quando la vede per la prima volta capisce che tutto è finito, Sophie non è una sua immagine riflessa, è diversa, capisce che la giovinezza per lei è passata e che questa appartiene ormai ad altri. La grandezza della Marescialla sta in questa consapevolezza e nel modo in cui tale presa d’atto si risolve nel congedo finale.

Dopo oltre un’ora di conversazione intensa e piacevole lasciamo Cesare Lievi ai suoi impegni con l’augurio di ritrovarlo alla direzione del teatro dopo la scadenza – ahinoi prossima – del suo mandato.

27 novembre 2012

Ivor Bolton dà il la alla Stagione del Giovanni da Udine

Per uno strano gioco di nomi è l’Ouverture del Don Giovanni di Mozart ad aprire la stagione del Teatro Nuovo Giovanni da Udine. Mozarteumorchester sul palco, Ivor Bolton sul podio, teatro colmo o poco meno. 

Orchestra e direttore hanno la musica del genio salisburghese nel sangue e sanno suonarla con invidiabile disinvoltura e stile inappuntabile. Bolton opta per una lettura illuministica, dagli equilibri apollinei, in cui la dimensione melodrammatica del brano è deliberatamente accantonata in favore della leggerezza e della trasparenza di suono. L’ouverture mozartiana esce dalle mani del direttore come una splendida scultura canoviana in cui il marmo, pur lavorato nel sublime stile neoclassico, non riesce a scansare del tutto quel senso di rigidità e freddezza che ne sono cifra intrinseca. Non ci sono i colori tetri né la tragicità presagita nell’andante iniziale, non l’esuberante vortice dionisiaco dell’allegro ma un’eleganza sinfonica, più versata alla ricerca della qualità del suono che alla restituzione di un significato teatrale – che in simile contesto non avrebbe peraltro alcun senso ricercare.

Ancora Mozart con il concerto 23 per pianoforte e orchestra e sul palco del GdU sale il pianista Fazil Say, autore di una prova di grande spessore. Un Mozart estroverso e brillante quello del musicista turco. Non c’è quell’intimo raccoglimento a cui hanno abituato taluni grandi ma un’urgenza espressiva che si tramuta in immediatezza, freschezza d’animo. Il suono, di perlaceo splendore, si innalza spavaldo su quel cuscino di velluto che Bolton sa cavare dall’orchestra, il temperamento del pianista è convogliato in forza espressiva, mai in forzature o cadute di gusto. L’allegro è affrontato con esuberanza creando un piacevole effetto di contrasto sulle tinte pastello scelte da Bolton, l’adagio, teso ma raccolto, si stempera nella funambolica conclusione con un crescendo di tensione. Qualche minimo inciampo nell’allegro finale non rovina una prestazione maiuscola, applauditissima dal pubblico (a sua volta ricambiato con due preziosi bis).

Se già nella prima parte di concerto Bolton era piaciuto, con la terza di Brahms il direttore inglese conquista il pubblico. L’orchestra, rimpolpata nell’organico, trova una straordinaria compattezza di suono pur senza perdere di leggerezza e precisione. L’ispirazione compositiva del tedesco, che nella terza sinfonia raggiunge vertici assoluti sia nella costruzione e manipolazione della linea melodica ed armonica che nella caleidoscopica varietà di colori, è restituita dall’Orchestra Mozarteum fino all’ultima delle sfumature. Non è cosa di tutti i giorni un Brahms tanto sobrio nel gusto, liberato dalle incrostazioni post-romantiche di tradizione, eppure intenso, poetico ma garbato. Nella lettura di Bolton non c’è spazio per l’effetto facile né per ruffianerie di sorta, la musica è linguaggio comune, un discorso in divenire che il maestro sa rendere scorrevole forte di una sottile gestione del ritmo, evitando al pari dell’eccessiva rigidità l’utilizzo dozzinale del rubato che spesso affossa le esecuzioni della musica brahmsiana. Le sezioni orchestrali si inseguono ed abbracciano in un gioco ad incastro perfettamente calibrato in cui trovano posto le mille suggestioni della partitura con coerenza e straordinario senso di unità, senza cedimenti o cali di tensione.

Boreyko e Suwanai al Teatro Nuovo Giovanni da Udine

L’artista che devastato da una passione infernale cerca la morte nell’oppio trovandovi una realtà allucinata in cui l’amata diviene melodia e il mondo dapprima visione, figurazione, infine delirio. Cos’è la Symphonie fantastique se non uno straordinario collage di ritagli di vita intriso di romanticismo fino all’ultima delle note, un lavoro di splendida incoerenza concettuale travestita di finti significati – o meglio, di fantasia – appiccicati l’uno con l’altro a formare un capolavoro, né più né meno? Se non è un unicum nella storia della musica, senz’altro è una chiave di volta, un punto di ripartenza. In un groviglio confuso di idee e fantasie, episodi di esistenza e sogni, il compositore francese fonde vita vissuta ed immaginata, realtà ed ideali in un racconto musicale più onirico che autobiografico. Se l’amore per l’attrice Harriett Smithson e la forzata aderenza al “programma” di vita d’artista restano ad oggi un tentativo poeticamente forse non memorabile di dare al materiale un senso di unicità e coerenza (dai contenuti di stampo forzosamente romantico), la musica invece è rivoluzionaria nel vero senso della parola. Lo è nell’utilizzo dell’alchimia, degli impasti strumentali, del timbro orchestrale, nella concezione coreografica del suono. Né va negata la strabiliante adesione al dettato musicale dell’immagine evocata, secondo quel concetto di musica a programma che è cifra basilare del poema sinfonico che con Berlioz nasce e che dominerà l’ideale artistico di musicisti tra i più importanti della seconda metà del secolo e del primo novecento.

Sul palco del Teatro Nuovo Giovanni da Udine l’Orchestre National de Belgique guidata da Andrey Boreyko offriva una prova del capolavoro di Berlioz che chi abbia avuto fortuna di ascoltare, non dimenticherà facilmente. La formazione belga ha dimostrato di possedere lo spessore tecnico delle compagini sinfoniche di primo livello assecondando al meglio il disegno interpretativo, dal gusto più russo che francese, del direttore. Una sinfonia fantastica in cui Boreyko ha potuto dare sfogo a tutto il suo temperamento in una lettura vibrante, energica, emozionante. Un profluvio di sapori e colori, di alchimie, perfettamente restituite da un’orchestra impeccabile, densa e brillante, capace di sostenere al meglio i cinque tempi dell’opera sia nei passi più elegiaci (un valzer di beethoveniana poesia) che nei momenti apertamente infuocati (un Sabba teso e delirante di diabolica furia).

Non solo Berlioz al GdU, tutt’altro. La prima parte di concerto ha visto la talentuosa Akiko Suwanai e il suo Stradivari impegnati nel concerto per violino e orchestra op.77 di Brahms. Virtuosismo ed ottimo gusto al servizio della musica del compositore tedesco, protagonista dei primi impegni stagionali del teatro udinese. Esecuzione di gran classe ed eleganza quella della violinista giapponese, tecnicamente ineccepibile e molto curata nel suono (aiutata dall’ampia cavata e dalla pienezza di suono dello strumento) pur senza pagare dazio all’espressività, anzi, cogliendo appieno il gusto romantico del concerto. Chi invece ha convinto meno in Brahms è stato il direttore che è parso ingessato, forse imbrigliato dall’obbligato rapporto con la solista, che non è riuscito a trovare quella coerenza di intenzioni e quella spontaneità che hanno caratterizzato il suo Berlioz. Se è vero che l’orchestra è suonata diafana e morbida nei passi più soffusi, Boreyko non è riuscito ad evitare un certo senso di pesantezza e rigidità, quasi metronomica, nei momenti di forte orchestrale, soprattutto nella prima parte di concerto.

Vivica Genaux al Teatro Nuovo Giovanni da Udine

Vivica Genaux è raffinata, elegante, bella di una bellezza affatto appariscente così come la sua voce. Stella internazionale della musica barocca si presenta al Giovanni da Udine con un programma novecentesco, di quelli da tenere il pubblico mille miglia lontano. Invece il pubblico c’era ed ha applaudito entusiasta un’artista e un repertorio che in Italia non hanno la risonanza che meriterebbero di avere. Philipp von Steinaecker sul podio della buona FVG Mitteleuropa Orchestra, compagine affidabile anche nelle insidiose pagine da XX secolo, accompagnava con garbo e buon senso la cantante, vera trionfatrice della serata.

Le variazioni su un tema di Frank Bridge op.10 e le variazioni e fuga su un tema di Purcell op. 34 di Benjamin Britten scorrono via lisce, senza infamia e senza lode, suonate con precisione e correttezza da un’orchestra che non può certo definirsi specialista del repertorio (e quale orchestra lo sarebbe?) ma che pure convince. Mancano quella disinvoltura e quella brillantezza di suono che porterebbero al salto di qualità ma, anche per merito di una direzione attenta e sensibile, la prova non dispiace.

Quando entra lei, Vivica Genaux, la musica cambia; non cambia il compositore invece, non subito, con le Folk Songs di Britten, forse la parte meno esaltante del suo concerto. Con le Siete canciones populares españolas di Manuel de Falla e le Folk Songs di Luciano Berio soprattutto, la Genaux raggiunge vertici di intensità interpretativa rari. L’artista francese sceglie una linea essenziale, composta, lavora di sottrazione. La sua voce è nuda, scoperta, rinuncia alla proiezione strumentale di memoria belcantistica in favore di un’intimità quasi confidenziale. Sembra parlare ad ogni singolo ascoltatore quella voce, come se ci fossero solo loro due, lei e lui. Mille colori ed inflessioni in un canto aperto il giusto, dal retrogusto jazzistico (quasi crossover verrebbe da dire, se l’appellativo non suonasse offensivo), novecentesco in sostanza, perfetto per la scrittura di Berio. Sono le sue Folk Songs la parte migliore della serata, ricordi da affidare a una memoria gelosa, momenti di tale intensità da commuovere il più arido dei cuori. La Genaux è un’artista che respira la contemporaneità e sa restituirla come pochi altri, non c’è retorica nel suo canto né compiacimento, non c’è voglia di impressionare, nessun esibizionismo. C’è tanta verità invece, c’è la ricerca del sapore più adatto per ogni parola, per ogni frase musicale e c’è la personalità della grande cantante. Fortunato chi c’era.

Otello e Tristan und Isolde al Teatro La Fenice

Il Teatro La Fenice fa le cose in grande, con una doppia inaugurazione affidata al maestro Chung. I titoli prescelti sono l'Otello verdiano e Tristan und Isolde di Wagner. Di seguito riporto le recensioni dei due spettacoli pubblicate su IlDiscorso.



Recensione – Otello è il precipizio di un uomo saldo e forte corrotto nell’intimo dall’ingiuria più atroce di tutte, il sospetto dell’ingiuria stessa. Una storia di drammi potenziali, evocati, vagamente immaginati ma irreali, di situazioni nascoste dalle lenzuola di un letto che prendono via via corpo e sostanza, trascinando nel baratro il Moro e con lui tutti gli altri.

Si direbbe che non sia la gelosia la protagonista invisibile di questo Otello quanto piuttosto l’invidia, abominevole estrinsecazione di un animo sordido, l’animo di Jago. Jago come simbolo del male assoluto dunque, alfiere di una perfidia incomprensibile, folle e gratuita, che possiamo intuire ma non capire benché palesata appieno nel Credo, massima presa di distanza dall’originale shakespeariano.

Ci sono le stelle ad avvolgere e guidare la storia di Otello, un cielo che osserva da lontano le miserie umane, cornice inconsapevole e lontana, astri ed oroscopi – sovente chiamati in causa nel libretto di Boito – che sono parte fondamentale della scenografia di questo spettacolo d’inizio stagione al teatro veneziano, degna commemorazione del duecentesimo anniversario del massimo operista (e forse massimo uomo di teatro) della storia italiana. La scena si serve di pannelli raffiguranti costellazioni e di un cubo centrale che diviene fulcro e cuore cangiante della vicenda. Un Otello dal gusto tradizionale in fin dei conti, piacevole all’occhio tra stucchi dorati, processioni ed esotismi raffinati ma debole in alcune soluzioni che talvolta sanno di déjà vu o che, seppur indovinate, non riescono a realizzarsi in unitarietà e coerenza (i fantasmi che tormentano Otello, le barche-reliquie agitate dai ciprioti in trionfo durante l’uragano e verso gli abissi del mare nel concertato finale del terzo atto, a rappresentare il naufragio definitivo del condottiero roso dall’ingiuria che diviene sempre più tangibile, l’ascesa di Otello e Desdemona nel finale quarto verso quella Pleiade ardente che nel primo atto contemplavano innamorati). Va in ogni caso reso il merito al regista Francesco Micheli di aver lavorato con perizia su masse e solisti rendendo lo spettacolo teso e scorrevole.

Gregory Kunde è l’Otello che aspettavamo da anni. Non c’è traccia dell’impostura tradizionale che vorrebbe il Moro affidato a vocalità drammatiche dal colore baritonale ma una voce schiettamente contraltina in zona acuta che pure suona ampia anche nelle parti più basse del pentagramma (com’è lecito pensare risultasse il primo interprete Tamagno). La parte risolta nel canto anche dove sarebbe comodo scivolare in un declamato affatto consono al dettato verdiano. Ci sono tutte le sfumature e gli alleggerimenti che piace – e che è pure tanto raro – ascoltare in Otello al pari delle esplosioni violente che dal tono autoritario del primo atto passano via via all’indomabile furia del secondo, fino all’ira cieca del terzo. I momenti di raccoglimento (Dio, mi potevi scagliar o l’impervio finale quarto) così come il duettone del primo atto sono risolti in un canto a fior di labbra morbido e sfumato di commovente intensità.

Leah Crocetto è una Desdemona che guarda Otello dritto negli occhi, per nulla remissiva. Le manca la disinvoltura dell’interprete esperta, soprattutto sul versante musicale troppo ingessato al solfeggio, la voce è tuttavia bella e sonora nei centri e corre come meglio non potrebbe in ogni angolo della sala mentre soffre un po’ il registro grave. L’attrice è impacciata e talora cede alla tentazione di concedersi a pose da divastra.

Lucio Gallo sembra cercare per Jago una vocalità che non gli appartiene scurendo la voce che rimane inevitabilmente bloccata in gola. L’intonazione è spesso imprecisa, soprattutto nel brindisi, mentre sa regalare momenti indovinati (un sogno tutto a fior di labbro, forse in odore di falsetto ma particolarmente suggestivo). Fallisce nei numerosi passaggi di canto di conversazione dove fatica a trovare la giusta misura, scivolando spesso nel parlato o caricando eccessivamente l’accento. Compensa un canto non sempre pregevole con discreta presenza scenica. Buona la prova di Francesco Marsiglia, Cassio squillante e partecipe, di Elisabetta Martorana, Emilia di bella voce, all’altezza tutti gli altri.



Sul podio di un’ottima orchestra della Fenice, il maestro Myung-Whun Chung fa dell’opera verdiana un dramma infuocato, una corsa inarrestabile verso la tragedia. Forte di una sottile gestione dell’agogica e di un lavoro millimetrico sul ritmo come sugli impasti orchestrali, il direttore coreano scansa sistematicamente ogni sorta di sentimentalismo, puntando dritto verso una teatralità immediata, epidermica. Otello esce dalle mani di Chung come narrazione emotiva, l’orchestra è la vera protagonista, la voce del non detto, del pensiero o del sottinteso. Se è vero che si è sentita la mancanza di un abbandono maggiore nei momenti squisitamente lirici dell’opera (il duetto d’amore su tutti), perfetti sono parsi il mobilissimo uragano iniziale, l’accompagnamento ditirambico al brindisi, il concertato del terzo atto, abilmente equilibrato nei volumi e gestito in un crescendo emotivo travolgente. Eccellente la prova del coro della Fenice preparato da Claudio Marino Moretti.


Recensione – Pare che Wagner intendesse, con Tristan und Isolde, erigere un monumento a quell’amore totalizzante di cui mai aveva avuto esperienza e che pure viveva in lui come il più bello dei sogni. Un amore giusto – o forse sbagliato – a tal punto da annientare ogni cosa eccetto se stesso, amore che chiede eternità, quella della notte e della morte, che vede nella luce esecrata del giorno l’ordine etico e morale degli uomini, troppo piccolo e povero per comprendere la dimensione di un sentimento tanto grande. E forse tutto sommato aveva ragione Nietzsche quando scrisse che se è vero che ogni gioia vuole eternità, in fondo l’epilogo del Tristano non è poi tanto tragico.



L’amore tra Tristano e Isotta c’è da sempre, dal primo incontro, il filtro d’amore probabilmente neppure esiste, esso è – nel malinteso che si tratti di un veleno mortale – il nullaosta alla definitiva esplosione della passione. Loro, due anime sole che si riconoscono l’una nell’altra, che unite sono tutto e sole meno di niente, il resto del mondo diventa indifferente, potrebbe non esistere che sarebbe lo stesso.

Paul Curran sceglie di spogliare la scena d’ogni eccesso lasciando sul palco i personaggi e poco più, il delicato gioco di luci sulle scenografie grigiastre disegna un’atmosfera delicata e poetica. Il buon lavoro sui solisti rende la regia – benché statica – efficace soprattutto quando i cantanti siano capaci di reggere la tensione teatrale che una simile impostazione richiede. Il primo atto è un gioco di distanze ed incomunicabilità che diventano via via sempre più sottili fino al contatto fisico, erotico, il secondo un dolce abbandono alla tenerezza – piuttosto che all’eros – tra i due amanti protetti dalla notte. Il terzo si giova di uno straordinario protagonista capace di catalizzare l’attenzione su di sé, forte di una consapevolezza interpretativa da artista di razza. Un Tristan lacerato dal peso dell’assenza, tenacemente aggrappato alla spalla di Kurwenal in un delirio di solitudine reso in un canto scavato fino all’ultima delle sillabe.

Il maestro Myung-Whun Chung dà del capolavoro wagneriano una lettura vibrante, mobilissima, lontana mille miglia dai misticismi e dai languori di certa tradizione ma versata piuttosto ad un’analisi vivisettoria della partitura, restituita da un’orchestra al di sopra di ogni lode. La musica è narrazione intima, abbandono all’emozione (talora incontrollato, soprattutto nei volumi), quella della passione travolgente ed irrefrenabile degli amanti che sa trovare ripieghi di sofferta intensità, senza inciampare in cali di tensione. L’orchestra del teatro veneziano suona con precisione e pienezza, di un colore cupo, riflesso di quella notte che nel dramma wagneriano ha i colori della verità.

Brigitte Pinter è per voce e personalità impari alla parte. Lo strumento ha poco di bello ed è impiegato con alterne fortune in un canto faticoso ed opaco, l’intonazione spesso perfettibile, il peso vocale insufficiente a vincere l’orchestra laddove la voce di un’Isolde dovrebbe tuonare con lei. Il primo atto è discreto, il secondo risolto non senza fatica, il terzo problematico, concluso con un Mild und leise pieno di buone intenzioni e poco altro.

Ottima viceversa la prova di Ian Storey nei panni di Tristan. Dopo un inizio cauto il tenore solleva la testa appropriandosi della parte in ogni sua sfumatura. Canto e recitazione si fondono nel ricamare un Tristano intenso, persino commovente nell’atto terzo. La gestione sensibile e curatissima del canto, il fraseggio cesellato e la partecipazione emotiva compensano abbondantemente ciò che talora manca in termini di volume.



Eccellente la Brangäne di Tuija Knihtilä, mezzosoprano dalla voce preziosa per colore e pienezza di suono. Non convince invece il Kurwenal di Richard Paul Fink i cui buoni propositi non possono che rimanere tali in ragione di un’emissione eterodossa che esita in un canto fibroso e impreciso. Positiva la prova del basso Attila Jun, Re Marke possente ma mai stentoreo, sofferto senza essere lambiccato, pienamente convincente nello scomodo monologo del secondo atto. All’altezza della situazione il Melot di Marcello Nardis, il pastore di Mirko Guadagnini, il pilota di Armando Gabba, sorprendente il giovane marinaio di Gian Luca Pasolini.

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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7 ottobre 2012

Intervista a Marco Feruglio

Parte lunedì 8 ottobre con un concerto dell’Orchestra Mozarteum di Salisburgo diretta da Ivor Bolton la stagione 2012-13 del teatro Giovanni da Udine. Cartellone fitto e ricchissimo, denso di appuntamenti di grande interesse sia per quanto riguarda la stagione di prosa, curata dal sovrintendente Cesare Lievi, che per la stagione di musica e danza allestita dal direttore artistico Marco Feruglio che è riuscito a portare in Friuli artisti del calibro di Antonio Pappano, Esa-Pekka Salonen, Lorin Maazel, solo per citarne alcuni, in una stagione che si annuncia memorabile.


Mo. Feruglio, il cartellone del Giovanni da Udine offre nomi di respiro internazionale che proiettano il teatro udinese ai primi posti nel panorama italiano per qualità. Com’è stato possibile organizzare una stagione musicale di così forte richiamo?

Sono partito proprio da questi presupposti: la ricerca di nomi di prestigio, artisti che frequentano normalmente le principali capitali culturali europee. Confrontando la stagione udinese con quella di città quali Parigi, Berlino, Vienna, Milano, fatte salve le debite proporzioni di numeri, si noterà che gli artisti impegnati sono gli stessi. Ci sono poi altre linee guida che mi hanno portato a scegliere determinati titoli o compositori: quest’anno ad esempio ricorrono i cento anni dalla prima esecuzione della Sagra della Primavera di Stravinsky o anniversari di musicisti importanti come Berio e Britten.

Parlando di anniversari, nel 2013 verranno celebrati in tutto il mondo i 200 anni dalla nascita di Verdi e Wagner. Ci sono progetti per inserire uno o più titoli operistici nella stagione in corso?

Naturalmente Wagner e Verdi sono figure fondamentali del teatro lirico quindi per celebrarli bisognerebbe avere la possibilità di affrontare questo repertorio che al momento, per questioni economiche, non ha avuto modo di trovare posto nel nostro cartellone. Non dispero che almeno qualcosa in questo ambito si possa fare ma al momento in stagione non ci sono appuntamenti definiti.

Come si riesce a conciliare in tempi di restrizioni economiche l’eccellenza dell’offerta con la solidità del bilancio?

Il lavoro del direttore artistico, oltre alle scelte dei titoli e dei personaggi, deve considerare il mercato musicale, bisogna essere accorti nelle spese. Potremmo dire che il mestiere del direttore artistico non è diverso da quello di un commerciante: bisogna conoscere il mercato, l’offerta musicale e saper impiegare al meglio le risorse economiche. Inoltre mi sono impegnato nella ricerca di sponsor e fondi aggiuntivi da aggiungere al budget messo a disposizione dal teatro che quest’anno era ridotto di oltre il 33% rispetto alla stagione precedente.

C’è un artista, magari un grande direttore, che vorrebbe portare a Udine?

Ci sono direttori che ho già cercato di contattare negli ultimi due anni e che non dispero di riuscire a portare a Udine ma per scaramanzia preferisco non sbilanciarmi. Nelle scorse stagioni il pubblico udinese ha potuto ascoltare artisti del calibro di Mehta, Temirkanov, Pappano, i grandi nomi che si sono avvicendati sul palco del nostro teatro sono stati molti.
Devo però ammettere che ci sono alcuni direttori della generazione di Maazel che mi piacerebbe riuscire a contattare ed anche qualche giovane di talento.

C’è un repertorio che non è ancora riuscito ad approfondire come avrebbe desiderato e che vorrebbe poter offrire al pubblico udinese con maggiore frequenza?

Mi piacerebbe approfondire l’opera barocca. È un repertorio che potrebbe apparire di difficile ascolto, anche in ragione del fatto che il pubblico è poco abituato a frequentarlo, ma negli ultimi anni sta vivendo un’eccezionale riscoperta. Inoltre in questo ambito ci sono molti artisti di altissimo livello che non farebbero altro che aumentare l’interesse per un repertorio che annovera capolavori di musicisti come Handel, Vivaldi e molti altri, celebri ma poco conosciuti come compositori per il Teatro d’opera.

Crede che tra le responsabilità di un direttore artistico, oltre allo sviluppo della stagione, ci sia anche quella di educare il pubblico alla “musica colta” studiando un’offerta e percorsi mirati in questo senso?

L’offerta che il teatro propone pesca nel cosiddetto grande repertorio, una serie di titoli selezionati dal filtro del tempo universalmente considerati capolavori. È importante che le generazioni più giovani imparino a conoscere queste opere ed in tal senso il nostro è già un lavoro di divulgazione. Poi, come per il caso dell’opera barocca, della musica contemporanea ed altri generi meno diffusi, c’è moltissimo da far conoscere e il nostro obiettivo è quello di riuscire a mescolare appunto il grande repertorio con titoli meno frequentati.
Bisogna però anche fare i conti con la capienza del teatro udinese che non è esigua per cui il fatto di riempire la sala ci condiziona nella scelte. Tuttavia un equilibrio nella pianificazione della stagione tra titoli di sicuro appeal ed altri di minore richiamo può dare grandi risultati e portare chi non conoscesse il repertorio meno noto a scoprirlo ed apprezzarlo.

Qual è la risposta del pubblico udinese in fatto di abbonamenti e gradimento?

Gli abbonamenti sono in crescita costante. Io ho assunto la carica di direttore artistico due anni fa ed in ogni stagione c’è stato un significativo aumento del numero di abbonati rispetto all’anno precedente.
Per quanto riguarda i titoli più particolari, come ad esempio il terzo concerto in abbonamento, dedicato alla commemorazione degli anniversari di Berio e Britten, sono molto curioso di vedere quale sarà la risposta del pubblico. È un appuntamento che propone due compositori del recentissimo passato che sulla carta non sono tra i più popolari. Inoltre il concerto offre la presenza di una star internazionale come Vivica Genaux, celebre soprattutto nel repertorio barocco che eccezionalmente per noi affronterà questi compositori novecenteschi.

C’è qualche progetto per il futuro del teatro che vuole annunciare? Ci sono già contatti per la stagione 2013-14?
Non posso rispondere con precisione poiché non so ancora se a termine stagione verrò confermato o meno alla direzione della stagione musicale del teatro. Tuttavia nel lavoro svolto durante gli ultimi due anni ci sono diversi contatti che per svariate ragioni non hanno trovato la via della realizzazione ma che mi piacerebbe riuscire a concludere.

Ultima domanda: qual è il segreto di Marco Feruglio?

Ah, secondo me si sopravvaluta il ruolo del direttore artistico…

però una stagione come quella proposta dal Giovanni da Udine, con tanti nomi di risonanza internazionale non si vede di frequente nei teatri italiani, anzi… 

Io amo la musica, posso dire questo, e sono prima di tutto un musicista. Cerco di conciliare la passione con le esigenze del teatro nella speranza che le mie scelte siano condivise ed apprezzate dal pubblico.

16 settembre 2012

La Traviata e Rigoletto alla Fenice di Venezia

È tempo di Verdi al Teatro la Fenice con due pezzi di trilogia popolare che si sa, fanno sempre il loro bell’effetto. Niente di nuovo sotto il cielo di Venezia ma due riprese di spettacoli già visti e rivisti per chiudere la stagione in attesa che le porte del teatro si riaprano a novembre con la doppia inaugurazione targata Otello e Tristan, uno via l’altro.



La Traviata è quella ormai storica di Robert Carsen, lo spettacolo che nel 2004 tenne a battesimo il teatro rinato dalle proprie ceneri e che ancora trova spazio, a pieno diritto, in cartellone. Allestimento suggestivo, intenso, commovente. Carsen ha il grande merito di saper rendere in modo pienamente convincente il particolarissimo strabismo del personaggio che se da un lato cerca la redenzione da un passato compromettente nell’amore e nella fuga (senza riuscirci), dall’altro subisce il progressivo rigetto da parte di quella società borghese che pur è parte di lei, finendo per perdere l’una e l’altra cosa. 
C’è il denaro onnipresente a ricordarci continuamente quale sia la professione di Violetta, denaro che diventa l’unico strumento di comunicazione tra le persone, solo parametro di valutazione del valore di rapporti e relazioni.
L’ambientazione è contemporanea per parlare ai contemporanei, come Verdi avrebbe voluto – almeno questo è quanto sostiene il regista canadese. Il primo atto ha i tratti di un party dalla mondanità quasi hollywoodiana con la vacuità della borghesia in trionfo. Davvero di rado “il popoloso deserto che appellano Parigi” è parso tanto popoloso e tanto deserto assieme, fatuo ed effimero come i valori di quella stessa società. 
L’ambientazione della prima parte del secondo atto riproduce una foresta che non è difficile leggere come simbolo della purezza cui Violetta aspirerebbe. I soldi che piovono dal cielo, in luogo delle foglie secche, ci ricordano che l’agognata redenzione è destinata a restare soltanto una speranza. La festa successiva si sviluppa tra i tavoli di un nightclub in mezzo a giochi d’azzardo, prostitute e lap dance. 
Nel terzo atto si torna a casa di Violetta. Non c’è più lo sfarzo di un tempo, il salone è spoglio, la tappezzeria stracciata. La ricchezza volgarmente esibita, straripante del primo atto lascia posto ad una povertà decadente. Violetta muore sul pavimento tra le braccia di Alfredo mentre attorno il mondo continua ad andare avanti col suo ritmo forsennato. Annina scappa con la pelliccia della padrona e la casa viene invasa dagli operai al lavoro per il nuovo proprietario. Popoloso deserto appunto.

Patrizia Ciofi è ancora una volta Violetta in questo allestimento cucito su misura per lei. Dire che il soprano non sia vocalmente onnipotente è dovere di cronaca (il volume è modesto, il registro acuto faticoso), che tali limiti compromettano la riuscita complessiva del personaggio una falsità. La creazione teatrale che la Ciofi restituisce è poco meno che straordinaria. Il soprano sa cogliere ogni sfumatura di un personaggio che oramai conosce alla perfezione, il canto è – pur con i limiti evidenziati – cesellato nell’originalissima gestione della dinamica e nello scavo della frase musicale, il fraseggio approfondito con cura certosina. Non c’è verso o parola che siano sprecati, ogni dettaglio si somma al precedente nel dare vita a una Violetta di sconvolgente complessità e ricchezza. Il terzo atto è il capolavoro del soprano capace di rendere al meglio i repentini cambi d’umore, il passaggio dalla malinconia alla speranza, gli episodi quasi deliranti fino al rassegnato disincanto finale, in tutto perfettamente assecondata dall’atmosfera sospesa disegnata dall’orchestra di Matheuz.

Antonio Poli è Alfredo, e lo è per davvero. Un Alfredo finalmente giovane, appassionato, dall’intemperanza quasi adolescenziale. È un ragazzo che scopre l’amore con tutto l’entusiasmo di cui è capace, gettandosi a capofitto in una storia che inizia male e finisce peggio. Il tenore inoltre ha voce di rara bellezza e sa servirsene con abilità. Bravo due volte.

Giovanni Meoni nei panni di Giorgio Germont, il padre che nessuno vorrebbe avere, sfoggia voce bella e timbrata al servizio di una linea di canto elegante e variegata. Il baritono asseconda la lettura registica che mette a nudo la doppia morale del personaggio, vero e proprio emblema del moralismo borghese. Un Germont più cinico calcolatore che impiccione imbranato, di fatto privato d’ogni umanità.

Sul podio dell’ottima orchestra della Fenice, Diego Matheuz era attesissimo al doppio cimento operistico dopo la nomina a direttore musicale del teatro. Esame passato a pieni voti. Il maestro venezuelano sceglie di spogliare la musica di ogni traccia di retorica o compiacimento puntando ad una drammaticità asciutta, cruda. I tempi sono per lo più serrati, il ritmo incandescente, il suono orchestrale di nitore sinfonico. Memorabili nella resa sia il già citato terzo atto che la festa, condotta con furia dionisiaca sin dall’ingresso delle maschere salvo poi trovar pace in un concertato di evocativa leggerezza.

Ventiquattro ore e dagli abissi sull’anima spalancati da Carsen si passa al Rigoletto di Daniele Abbado. E tutto un sol giorno cangiare poté, direbbe il gobbo. Non c’è molto in questo Rigoletto, idee poche e confuse, noia tanta e coerente dall’inizio alla fine. Il protagonista è truccato come il Joker di Batman e Mantova ha i colori tetri di una Gotham City sonnolenta. La scenografia scarna, né bella né brutta, si serve del minimo indispensabile, perlopiù pareti grigie buone ad ogni occorrenza, gli artisti in scena sono mossi (poco in verità) senza troppa fantasia. L’impostazione dello spettacolo ha tutto il sapore della tradizione più stantia fintamente travestita “di moderno” con il risultato di non dire niente di interessante né in una direzione né in quell’altra.
Per fortuna l’opera è fatta anche di musica e pare che Matheuz, sempre lui, con l’orchestra ci sappia fare. Anche per Rigoletto il suono orchestrale è splendido, trasparente, gli attacchi puliti e cristallini. Pur non basta. La tensione teatrale è retta al meglio con ottimo senso del ritmo, il sostegno al canto esemplare. Basterebbe citare la maledizione di Monterone che poche volte è suonata tanto incisiva, con violoncelli e contrabbassi secchi e martellanti, l’ impalpabile accompagnamento al “Caro nome” o l’esplosiva tempesta col volume a palla eppur perfettamente calibrata negli equilibri strumentali.

Dimitri Platanias, Rigoletto, può vantare voce di buon volume e poco altro. Il canto è piatto e monocorde, non c’è traccia di approfondimento psicologico né musicale, l’intonazione è spesso imprecisa. In compenso ci sono tutti gli acutazzi di tradizione ivi compresi quelli che sarebbe il caso di lasciare al ricordo del passato.
Ottima viceversa la Gilda di Desirée Rancatore che trova nell’impervia scrittura verdiana terreno ideale per una vocalità che si esalta nel registro acuto, dominato con precisione inappuntabile. Dire che il soprano si limiti ad un’eccellente esecuzione musicale sarebbe ingiusto o quantomeno ingeneroso. Gilda è un personaggio che spesso viene ridotto ad una macchietta dall’ingenuità caricaturale, teatralmente inconsistente. La Rancatore riesce invece a farne un’adolescente volitiva, consapevole delle propria sensualità, risoluta e a rendere lo sviluppo psicologico che nell’arco dei tre atti la porta dall’estasi dell’innamoramento alla drammatica scelta del sacrificio.

Non convince del tutto il Duca di Celso Albelo, autore di una prova altalenante in cui si sono alternati momenti di alto livello, come l’aria del secondo atto, ad altri francamente poco esaltanti, anche in ragione di un canto meno sicuro di quanto ci abbia abituati ad ascoltare in passato. Il registro acuto è parso meno spavaldo ed insolente che in altre circostanze, troppo spesso risolto con suoni nasali e fastidiosi portamenti, l’interpretazione piuttosto generica.

Gianluca Buratto, Sparafucile, ha voce tonante, gestita in un canto dalla dinamica varia e scavo della parola inusuale per il personaggio mentre Anna Malavasi è una Maddalena di bella voce e presenza. Tutte all’altezza della situazione le parti minori sia per quanto riguarda La Traviata che Rigoletto. Ottima la prova del coro del teatro preparato da Claudio Marino Moretti, impeccabile per qualità e precisione.

Entrambi gli spettacoli saranno replicati a targhe alterne fino a fine mese. E comunque viva Verdi, sempre.

8 settembre 2012

Un Don Giovanni in Bianco e Nero conquista Udine

Serata d’opera al Teatro Giovanni da Udine con il Don Giovanni di Mozart proposto nell’ambito del Festival Bianco & Nero. Mozart ha quel insopprimibile viziaccio di convincere sempre e comunque, anche quando la drammaturgia dell’opera sia sacrificata da un allestimento in forma semi-scenica con conseguente rinuncia a buona parte della carica teatrale del lavoro.

L’orchestra trovava posto a centro palcoscenico, abbracciata da un impianto semplice e geometrico all’interno del quale si muovevano coro e solisti, spigliati e ben coordinati da un curato lavoro di regia. Sullo sfondo, unico elemento scenografico, un’alternanza di proiezioni accompagnava l’azione suggerendo allo spettatore un’ambientazione friulana della vicenda o proponendo puntuali richiami librettistici e precisazioni drammaturgiche talora ridondanti.

Gabriele Ribis, protagonista e curatore della messa in scena, sceglie di rinunciare all’ambiguità di Don Giovanni, che pure sarebbe la cifra distintiva del personaggio, facendone un’incarnazione del male assoluto. Quello di Ribis è un Giovanni luciferino, meschino, vile, rude. Non c’è nobiltà, non c’è il poetico disincanto dell’antieroe che sceglie di annientarsi nel proprio nichilismo. È un Don Giovanni a metà strada tra la lettura manichea (e tutto sommato moralista) di stampo romantico e l’originale dicitura di “dramma giocoso” che vuole accentuato il carattere farsesco e comico del personaggio. Un’impostazione radicale che strizza l’occhio al passato e che ha il pregio di trovare un’immediatezza ed una forza teatrale d’effetto soprattutto su chi con l’opera abbia minore confidenza ma che necessariamente rinuncia ad indagare più intriganti suggestioni. In una semplificazione del capolavoro mozartiano, Giovanni è spogliato di ogni traccia di eroismo, ridotto di fatto ad un arrogante e sgraziato signorotto di campagna che ricorda da vicino il barone Ochs auf Lerchenau e la sua triste fine altro non è che la giusta condanna per la sua dissolutezza. In linea con l’impostazione drammaturgica del personaggio Ribis non ricercava il preziosismo vocale, puntando piuttosto ad un canto violento, spavaldo, temerario.

Contraltare al licenzioso protagonista sono i nobili signori da lui ingannati, depositari del bene e della giusta morale in trionfo nel finale (che pure racchiuderebbe in sé una sottile ironia accusatoria nei confronti della “buona gente”, ingiustamente trascurata). Annamaria Dell’Oste offriva la propria esperienza in una Donna Anna convincente per canto ed approfondimento psicologico, curata nel fraseggio, precisissima nell’impegnativa aria del secondo atto. Domenico Balzani era un Leporello dotato di voce sonora ed ottima musicalità, Federico Lepre un Don Ottavio remissivo come da tradizione, garbato vocalmente e sicuro nell’ardua gestione del fiato nell’aria del primo atto (purtroppo l’aria “il mio tesoro intanto” è stata sacrificata in favore del meno interessante duetto Masetto-Zerlina “per queste tue manine”). Diana Mian è cantante dotata di bella voce e solida tecnica che ha ben figurato nei panni di Donna Elvira. A completamento del cast Michele Bianchini, tonitruante ed imponente Commendatore, la vispa Zerlina di Selma Pasternak e il Masetto di Filippo Fontana.

Il maestro Filippo Maria Bressan, alla guida della buona FVG Mitteleuropa Orchestra, offriva un Mozart di gusto moderno, asciutto e curato nel dettaglio senza scadere in effetti dozzinali o languori di facile presa. Buona la prova del Coro del FVG diretto da Cristiano dell’Oste.

A termine spettacolo applausi trionfali e prolungati per tutti.

12 luglio 2012

L’Elisir d’Amore alla Fenice di Venezia

Che strano personaggio Nemorino. Questo giovane stralunato, ingenuo, innamorato, non troppo sveglio, che pure sa trovare momenti di poesia della più autentica e sincera. Dicono sia un mezzo pazzo, un idiota, un buffone, lo scemo del villaggio insomma; eppure Nemorino ha ragione, a dispetto di tutti e tutto. Ha ragione a credere nel filtro d’amore, alla storia della regina Isotta, alle cialtronerie di Dulcamara, ha ragione quando, sulla voce sublime del fagotto, scorge il cuore di Adina schiudersi e la furtiva lagrima accarezzarle il viso.

L’Elisir d’Amore è una storia facile-facile, immediata, spassosa, i personaggi che ricalcano i tipici stereotipi della commedia dell’arte nonostante le forzature e le improbabili esagerazioni conquistano sempre e sanno farsi credere, immersi come sono in un mondo sospeso ed eterno.



Alla Fenice di Venezia torna il capolavoro di Donizetti nell’allestimento tradizionale che più tradizionale non si può di Bepi Morassi. Abiti, luoghi e scenografia sono quelli che ci aspetta di vedere, l’ambientazione è villereccia come da libretto, tele dipinte e fondali d’antan fanno il resto. Avranno tirato un bel sospiro di sollievo quanti erano inorriditi dinanzi alle “provocazioni” di Bieito. Nel complesso lo spettacolo non dispiace ma certo non sorprende, la regia è saputa ancor prima di andare in scena, alcune trovate sono pure simpatiche, molte stucchevoli, altre di gusto decisamente perfido. Adina è smorfiosetta come siamo abituati a pensarla, Nemorino sempliciotto e un po’ gonzo, Belcore fa il grand’uomo e Dulcamara gigioneggia come ha sempre fatto ogni Dulcamara, con tutte le ruffianerie di circostanza. Niente di nuovo sotto il sole.

Omer Meir Wellber è ormai di casa sul podio del teatro veneziano ed è un bene che sia così. Con l’Elisir d’Amore non replica l’eccellente prova di Carmen ma offre una lettura corretta, asciutta, senza scadere in facili sentimentalismi ma anche senza emozionare troppo, ad esclusione di alcuni momenti particolarmente indovinati (un finale primo tinte pastello e una furtiva lagrima trasognante). Ciò che manca è un maggiore approfondimento nel fraseggio come nella ricerca del colore orchestrale, quasi fosse frenato da un’incomprensibile (ma neppure troppo) prudenza. Il direttore ha il merito di condurre l’orchestra senza sbavature e senza mai sovrastare le voci, non quello di recuperare i solisti quando si perdano per strada.

Questo Elisir d’Amore era anche un’occasione per ascoltare la premiata ditta Alberlo-Rancatore che da qualche tempo riscuote grandi successi nei teatri di mezzo mondo. Celso Albelo è un bravo cantante, la voce è bella, omogenea ed estesa, non grande ma sonora, il registro acuto facile e squillante, l’interprete è convenzionale ma efficace. La furtiva lagrima, forse troppo estroversa laddove sarebbe piaciuto ascoltare una lettura più intima e raccolta, è stata di gran lunga il momento più felice della serata, anche grazie al magico accompagnamento di Wellber.

Desirée Rancatore conosce la parte di Adina anche al contrario, la musicalità è eccellente, la voce che nelle zone basse del pentagramma suona piuttosto opaca ed intubata trova sfogo in un settore acuto sfacciatamente brillante e sicuro che il soprano esibisce ogni qual volta ne abbia occasione. Se i momenti più lirici, che richiederebbero altra sostanza vocale, non sono sembrati i più riusciti, l’aria del secondo atto con tanto di fuochi d’artificio conclusivi ha raccolto un trionfo di applausi.

Alessandro Luongo avrebbe tutte le carte in regola per fare un ottimo Belcore: volume, presenza, bel colore ed effettivamente il canto è risolto al meglio. Paga lo scotto di una regia caricaturale che lo costringe a rendersi ridicolo oltre ogni limite di sopportazione.

Simile impostazione per il Dulcamara di Elia Fabbian il quale ha però poco da offrire alla parte oltre ad un cospicuo peso vocale. L’interprete è generico e si limita a ricalcare i tradizionali vezzi del dottore imbroglione, la musicalità da rivedere, soprattutto nei momenti di sillabato stretto. La Giannetta di Oriana Kurteshi ha voce piccola e non bella, l’intonazione non è sempre precisa ma sa disimpegnarsi bene in scena.

A fine spettacolo accoglienza trionfale per tutti da parte di un pubblico estremamente divertito con punte di entusiasmo per Albelo e Rancatore.

Paolo Locatelli
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23 giugno 2012

La Carmen di Bizet secondo Bieito alla Fenice

Sbarca a Venezia la Carmen di Calixto Bieito. Uno spettacolo forte, crudo, che mette da parte l’oleografia delle Carmen in costume spogliando palco e personaggi di ogni orpello per restituire all’opera tutta la sua forza drammatica e teatrale. Carmen è una storia d’amore e di morte, la storia di una donna che sceglie di rivendicare il proprio diritto di essere libera, fino alle estreme conseguenze.



La scenografia di Alfons Flores è scarna, non c’è spazio per il folclore, la presenza del popolo ridotta all’osso, la corrida vagamente accennata dalla sola sagoma di un toro (quello del brandy Osborne), zingari e contrabbandieri si muovono a bordo di vecchie Mercedes scassate. La Spagna è esplicitamente richiamata dalla bandiera che sventola su un pennone, uno dei pochissimi elementi scenografici. Una Spagna polverosa ed assolata in cui si scontrano ed intrecciano due mondi opposti ma profondamente simili. Il mondo militare, corrotto, fatto di soprusi e nonnismo, in cui non è difficile scorgere il fantasma della dittatura franchista e quello brutale dei contrabbandieri. Due fronti della maschilità più rozza e volgare caratterizzati da una virilità esibita e deviata, arrogante e violenta. Tra questi due universi le donne a fare da collante, o meglio da merce di scambio, le donne abusate con la complicità dell’alcol, prostitute per necessità piuttosto che per scelta.

L’azione è spostata in epoca contemporanea, una contemporaneità degradata, fatta di miserie e violenza. Il lavoro del regista sui personaggi in scena è curato nel minimo dettaglio fino all’ultima delle comparse, il ritmo indiavolato, nevrotico, talora ipercinetico salvo poi trovare pace in momenti di assoluta poesia (come il preludio al terzo atto) o di drammatica intensità.

Béatrice Uria Monzon è Carmen fin nel midollo. Una Carmen dalla personalità travolgente, profondamente sensuale senza volerlo essere a tutti i costi, capace di unire all’erotismo più esplicito la verità del sentimento, bravissima ad evitare la femminilità posticcia, quasi caricaturale, che spesso si è abituati ad accostare al personaggio. L’attrice è carismatica ed intensa. La voce, di grande presenza, gestita con sapienza in un canto vario e incisivo, solo in zona acuta si avvertono alcuni problemi d’intonazione. Peccati veniali, pienamente compensati dalla consapevolezza interpretativa e musicale.

Discorso opposto per il Don Josè di Stefano Secco, all’esordio nella parte. Il tenore canta bene, la voce pur non possedendo lo spessore drammatico che alcuni passaggi richiederebbero è sonora e fresca, sicura su tutta la gamma. Ciò che manca è un maggiore approfondimento del personaggio, nella recitazione come nel fraseggio.

Pienamente convincente l’Escamillo macho e piacione di Alexander Vinogradov, voce di basso importante e di bel colore, talora forse indelicata, ma è caratteristica che non disturba affatto nel toréro de Grenade. Brava Ekaterina Bakanova, Micaela grintosa e risoluta. Il soprano ha voce di bel timbro, il canto è ben gestito, ottima la musicalità.

Positive tutte le parti minori, ben cantate e ancor meglio recitate. Chiara Fracasso è un’ottima Mercedes come inappuntabile è la Frasquita di Sonia Ciani. Buone le prove di Francis Dudziak e Rodolphe Briand spietati Le Dancaire e Le Remendado, di Matteo Ferrara (Zuniga) e di Dario Ciotoli, Morales spaccone e gradasso.

Eccellente la direzione di Omer Meir Wellber sul podio di un’orchestra in gran forma. Il maestro ha offerto una lettura pienamente rispettosa del palcoscenico e delle voci, preziosa senza scadere nel calligrafismo fine a se stesso, di grande spessore sinfonico. Una Carmen vitale ed energica la sua, dall’incedere teatrale incalzante pur senza sacrificare la cura del suono, perfettamente in linea con l’impostazione registica.

Al pari ottima la prova del coro diretto da Claudio Marino Moretti.

Al termine applausi per tutti con punte di entusiasmo per protagonista e direttore.


19 maggio 2012

È morto il grande baritono Dietrich Fischer-Dieskau

Se c’è un artista che ho amato ed ascoltato più di ogni altro, questi è Dietrich Fischer-Dieskau, grande baritono tedesco che oggi non c’è più. Dire che fosse grande è quanto mai banale, che fosse il più grande di tutti probabilmente insensato e contestabile, eppure in cuor mio lo penso. Fischer-Dieskau è stato dinamite nel mondo della musica, nel lied come nell’opera, avendo proposto – di fatto inventato – un nuovo modo di cantare, di vivere la musica, sottraendo il canto alla retorica della voce esibita per cercare una dimensione più intimistica, interiorizzando il canto con un gusto mutuato dall’esperienza cameristica. Un’arte fatta di scavo della frase musicale, di vivisezione dello spartito, di ricerca spasmodica del colore. Ad ascoltarlo pare che le parole, le singole sillabe venissero assaporate in un canto di eloquenza unica, commovente, talora forzata ma mai indifferente.



Il risultato fu una potenza espressiva nuova ed unica, quantomeno in ambito operistico. Il suo Verdi (Rigoletto, Posa, Jago, Falstaff su tutti ma anche Germont, Macbeth, Renato) resta esemplare per forza drammatica e perfezione musicale così come il suo Strauss di inarrivabile violenza espressionistica, a dispetto di una voce per caratura e colore forse impari alla scrittura. Il suo Mozart (Conte, Papageno e Don Giovanni) è sublime ma forse troppo artefatto e cerebrale, il suo Wagner  poesia allo stato puro. Nel lied e nella musica sacra non ha mai temuto confronti.

Il canto di Dietrich Fischer-Dieskau è fatto di colori, di alchimie, di note ora alitate ora sfogate, tutto nel massimo rispetto del dettato musicale con un livello di approfondimento ed una cura per la musica probabilmente unici. Solo una consapevolezza tecnica e musicale di prim’ordine avrebbero permesso tanto, tutto ad altissimo livello. Non è un caso che abbia cantato ed inciso con i più grandi direttori, da Karajan a Bernstein, da Furtwangler a Kleiber passando per Klemperer, Solti, Böhm, Fricsay e tutti gli altri. Dietrich Fischer-Dieskau è stato con ogni probabilità il cantante con il repertorio più vasto ed eclettico che la storia del canto possa annoverare.

Restano i dischi, decine e decine ancora, resta la sua lezione e i tanti epigoni ma lui non c’è più e il mondo della musica oggi è più povero.
Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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12 maggio 2012

La Bohème torna alla Fenice di Venezia

Recensione – Torna alla Fenice di Venezia La Bohème di Puccini nell’allestimento firmato da Francesco Micheli già proposto, con grande successo, durante la scorsa stagione. 



Lo spettacolo è fresco, giovanile, coinvolgente nella sua bozzettistica semplicità. Non una Bohème sconvolgente o che si proponga chissà quali orizzonti interpretativi ma, cosa forse ancor più difficile, originale senza sconvolgere drammaturgia ed ambientazione. Le scene firmate da Edoardo Sanchi propongono una Parigi da vendere ai turisti, immaginata piuttosto che veritiera, uno sfondo fumettistico che accompagna e racconta da vicino le sfortunate storie dei Bohémiens pucciniani. La vicenda è incastonata in una cornice di simboli che rimandano alla Ville Lumière, dalla Tour Eiffel alle Folies Bergère, il tutto a costellare i luoghi che prescrive il libretto e che si è abituati ad associare all’opera. Insomma c è tutto quello che ci si aspetterebbe di trovare in una Bohème, dalla soffitta alla neve del terzo atto, ma non solo. Ed è questa la giusta dimensione cui si deve puntare nel momento in cui si decide di mettere in cartellone un titolo tra i più celebri ed inflazionati dell’intero repertorio, l’originalità onde evitare l’ennesima riproposizione di un rito museale già saputo e risaputo prima ancora di andare in scena. Anche il secondo atto è magnificamente risolto senza scadere nei zeffirellismi in sedicesimo di facile effetto che si vedono un po’ dappertutto.

Quello che forse manca nel complesso è la tanto celebrata poetica delle piccole cose, sacrificata in favore di un approfondimento quasi cinematografico del sentimentalismo. La Parigi da cartolina, stereotipata, che viene proposta necessariamente tende a mitigare la pulsione naturalista dell’opera, spostandola su un livello favolistico o quantomeno romanzesco. La regia di Micheli, in perfetta sintonia con l’ambientazione, è scorrevole, spontanea ed immediata, coinvolgente e simpatica pur concedendosi alcuni siparietti di forzata comicità di cui non si sarebbe sentita la mancanza.

Trionfatrice della serata è stata il soprano statunitense Kristin Lewis che si è rivelata un’ottima Mimì. La cantante ha dimostrato di possedere, oltre a mezzi privilegiati per volume e colore, una solida tecnica di canto grazie alla quale ha saputo affrontare la parte con sicurezza, potendosi permettere smorzature ad alta quota di realizzazione impervia quanto suggestive. Soltanto i passaggi più concitati di canto di conversazione hanno messo in difficoltà il soprano, non sempre a proprio agio con la pronuncia e con la gestione ritmica della frase.
Non del tutto convincente viceversa il Rodolfo di Khachatur Badalyan che è parso affaticato non riuscendo a trovare la giusta proiezione della voce, troppo in gola e povera di squillo. Va detto che la perfettibile prova vocale è stata in buona parte compensata da una recitazione spigliata e ben calibrata.
Vigoroso ed energico nella vocalità come nel fisico il Marcello di Simone Piazzola, giovane baritono di grande talento che ha esibito una vocalità preziosa per volume e timbro, sicura su tutta la gamma, nonché un’invidiabile verve scenica. Deliziosa ed ottimamente cantata la bella Musetta del soprano Francesca Sassu come ottimo è stato il Colline di Gianluca Buratto, basso dotato di voce di grande volume e bel colore che ha raccolto applausi a scena aperta al termine dell’aria del quarto atto. Vocalmente e scenicamente inappuntabile lo Schaunard di Armando Gabba. Eccellenti tutti i comprimari.

La direzione, affidata al maestro Daniele Callegari, non si segnala per particolari pregi od innovazioni. Il maestro ha il merito di trarre un bel suono dall’orchestra del teatro veneziano e di evitare il sentimentalismo caramelloso in cui è facile inciampare, forse in misura fin troppo oltranzista così che sono mancati sia la poesia nei passi più lirici o malinconici sia la leggerezza, soprattutto nel primo atto. Più centrato è parso il terzo atto in cui la tinta cupa che il maestro Callegari ha saputo cavare dall’orchestra pareva sposarsi alla perfezione con il clima invernale e crepuscolare del momento. Non sempre impeccabile l’accompagnamento alle voci, spesso sovrastate dal volume orchestrale o perse per strada (ad onor del vero la gran parte delle volte per responsabilità dei cantanti).

Ottima la prova del coro, lungamente applaudito a fine secondo atto.

Al termine dello spettacolo applausi calorosi per tutti con qualche isolata contestazione al tenore e punte di entusiasmo per la Lewis.

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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14 aprile 2012

Renzetti dirige Le Bohème di Puccini al Verdi di Trieste

“Gioventù mia, tu non sei morta, né di te morto è il sovvenir! Se tu battessi alla mia porta, t’andrebbe il mio core ad aprir!” Questa frase di Marcello racchiude in sé tutto il senso della Bohème. La Bohème è un affresco di giovinezza, l’istantanea di un tempo felice che svanirà. La gioventù intesa come primavera della vita, così ben rappresentata da Mimì che come un fiore è destinata ad appassire nell’arco di una stagione. La giovinezza sognante dei protagonisti maschili, in bilico tra gli ideali dell’arte e le contingenze quotidiane, quella civettuola e compiaciuta di Musetta. C’è tutto un mondo in Bohème che va dalla spensierata joie de vivre allo scontro con gli aspetti drammatici dell’esistenza passando attraverso i sogni e le chimere della poesia. La tanto citata “poetica delle piccole cose” si regge sulla narrazione di situazioni comuni, di caratteri normali che si incontrano, si rincorrono ed intrecciano dando vita ad immagini di commovente sincerità, ad un capolavoro di perfetto equilibrio tra commedia sentimentale e tragedia.




Lo spettacolo di scena al Teatro Verdi di Trieste piace. L’allestimento è tradizionale ma non polveroso, la regia curata da Elisabetta Brusa convince. Solisti e masse sono ben guidati in scena fin nel minimo dettaglio, scongiurando così il rischio di allentare la tensione teatrale o di annoiare. Forse talora si è visto qualche eccesso in senso caricaturale e qualche ruffianeria di troppo che potrebbe comunque imputarsi a una tradizione esecutiva tra le più incrostate come al gusto dei singoli interpreti.

Molto buona l’esecuzione musicale a partire dalla direzione di Donato Renzetti. Una lettura fresca ed intensa la sua, che ha saputo evitare il mellifluo sentimentalismo in cui è tanto facile cadere. Impeccabile l’accompagnamento al canto così come la gestione dell’orchestra, in splendida forma per l’occasione.

Al pari eccellente il Rodolfo del tenore Jean François Borras. La voce, seppur di modesto volume, è di bel timbro, il registro acuto facile e squillante ma capace di piegarsi in suggestive smorzature. Molto attento l’interprete sia sul piano musicale che attoriale. Meno convincente nel complesso la Mimì di Alexia Voulgaridou che è parsa non trovare la giusta inquadratura del personaggio soprattutto in ragione di un fraseggio indifferente ai versi del libretto come alla musica pucciniana e ad alcune difficoltà vocali palesatesi nei tentativi di alleggerire il canto. Va detto che, complici la bellezza della voce e della figura, la prova del soprano è stata comunque apprezzata dal pubblico. Gezim Myshketa si è rivelato  un ottimo Marcello, simpatico e spontaneo. Il baritono ha sfoggiato voce di bel colore, perfettamente gestita in un canto morbido e sfumato. Non irreprensibile sotto il profilo canoro la Musetta di Daniela Mazzucato che pur ha saputo compensare grazie ad un’eccellente resa teatrale del personaggio e a un fraseggio molto curato.
Massimiliano Gagliardo, Schaunard, non ha convinto pienamente in ragione di una vocalità opaca che è parsa talora artificiosamente ingrossata mentre Dario Russo ha offerto una prova positiva nei panni di Colline regalando un’ottima esecuzione dell’aria del quart’atto. 
Bravo, pur con qualche cachinno di troppo, Dario Giorgelè nei panni di Benoit e Alcindoro. 

Ottima la prova del coro del teatro triestino diretto da Paolo Vero.

22 marzo 2012

Un nuovo vecchio Rigoletto al Verdi di Trieste

Terzo titolo in cartellone per il Teatro Verdi di Trieste, Rigoletto rimette le cose a posto dopo un inizio di stagione non dei più felici. Lo spettacolo vedeva impegnata una compagnia di richiamo quantomeno nazionale ed effettivamente le attese – almeno sul versante musicale – non sono state disattese. Rigoletto, giova ricordarlo, è lavoro dalla forza teatrale impressionante, uno di quei casi in cui musica e parole si fondono alla perfezione nel creare una sintesi drammatica di rara potenza. La complessità dei personaggi, protagonista in testa ma senza dimenticare Gilda (troppo spesso ridotta ad una bamboleggiante ragazzetta) racchiusa nella scrittura sintetica e cangiante del libretto di Piave come della musica verdiana necessita di artisti consapevoli musicalmente quanto di interpreti sensibili.



Luca Salsi era atteso al debutto nel title role dopo aver già calcato il palcoscenico del Verdi nella scorsa stagione offrendo un’ottima prova ne “I Due Foscari”. Il baritono oltre a essere in possesso di uno strumento privilegiato per colore e volume ha dimostrato di avere i requisiti tecnici necessari per venire a capo di una parte impervia per scrittura e durata. Il canto è ben sostenuto dal fiato sia nelle mezzevoci, perfettamente timbrate, sia nei passi sfogati. Il cantante avrà poi tempo per maturare la parte e per scoprire le mille sfaccettature di uno dei personaggi più complessi del teatro musicale ma considerata la giovane età le premesse sembrano ottime.

Francesco Meli è a tutt’oggi quanto di meglio si possa ascoltare come Duca di Mantova. La voce è bellissima, sempre perfettamente controllata e piegata ad un canto vario e sfumato. L’interprete sceglie di collocarsi nella tradizione, rispolverando la lezione dei grandi tenori italiani degli anni passati e lo fa con cognizione di causa sposando l’impostazione tradizionale dello spettacolo.

Julia Novikova, nota al grande pubblico per essere già stata Gilda nel discusso Rigoletto in mondovisione con Domingo non convince pienamente. Va dato atto alla cantante di aver cercato di raccontare l’evoluzione del personaggio nell’arco dei tre atti e il suo passare dall’ingenua innocenza dell’amore immaginato all’amara consapevolezza che preludia al tragico epilogo, purtroppo la voce suona opaca, talora acidula e poco squillante, l’intonazione non sempre è irreprensibile. Molto buona la prova del basso Michail Ryssov, torvo ed inquietante Sparafucile come eccellente è stata la Maddalena di Francesca Franci. Tra i tanti comprimari, tutti all’altezza della situazione, ricordiamo l’imponente Monterone di Nicolò Ceriani.

Ottima la prova dell’orchestra guidata da Corrado Rovaris. Il maestro ha optato per una direzione di sostanza, evitando inutili voli pindarici ma riuscendo a cavare dall’orchestra una compattezza ed una precisione che da tempo non si sentivano. L’accompagnamento al canto è sempre elegante, mai prevaricante sulle voci. La scelta dei tempi tendenzialmente serrata oltre a facilitare ai solisti la gestione delle lunghe arcate verdiane ha il pregio di restituire al meglio la tensione drammatica della partitura.

Poco da dire sul resto. L’allestimento con le scene di Lorenzo Ghiglia è tradizionale al massimo con quei fondali dipinti che è sempre più difficile trovare nei teatri ma che tutto sommato ogni tanto non dispiace rivedere. Se ancien régime dev’essere, lo sia fino in fondo; in quest’ottica può essere accettata la polverosa regia da film muto di Michele Mirabella risolta in un alternanza di immobilismo e pose alla Norma Desmond così innaturali e forzate da sfiorare spesso il grottesco. Molto belli i costumi d’epoca a firma di Chiara Barichello.

Paolo Locatelli
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