31 gennaio 2018

Krzysztof Penderecki, il classico-postmoderno che guarda a Bach

Qualche giorno fa ho avuto la fortuna di incontrare uno dei giganti della musica contemporanea, Krzysztof Penderecki, e di scambiarci qualche parola prima di ascoltarlo in concerto. Ormai da diversi anni il Teatro Comunale Giuseppe Verdi Pordenone celebra la  Giornata della Memoria e quest’anno l’ha fatto proprio con Penderecki, il "classico postmoderno", quello che secondo il Guardian è il più importante compositore vivente.



Dmitrij Šostakovič non fu certo l’unico a subire l’accusa di formalismo in tempo di grandi purghe, sorte analoga toccò anche a Mieczyslaw Weinberg, la cui vita fu salvata solo dalla morte di Stalin nel 1953, a condanna ormai certa. Fu un destino beffardo il suo: nato a Varsavia da famiglia ebrea, scappò all’invasione del Terzo Reich trovando riparo prima a Minsk, quindi in Uzbekistan e infine a Mosca, dove lo accolse un regime altrettanto spietato e sanguinario. Fu lo stesso Šostakovič a sostenerlo, difenderlo e infine promuovere la sua musica, quando gli spettri del terrore si dissolsero, e a consentirne una parziale riabilitazione che tuttavia non gli rese mai la gloria che forse avrebbe meritato.

Andò peggio a Viktor Ullmann, anch’esso ebreo ma di nascita viennese, che non riuscì a sottrarsi alle bestialità dei nazisti e in Polonia ci morì, ad Auschwitz, nel 1944.

Com’è noto, fu proprio la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz ad opera dell’armata rossa il 27 gennaio del 1945 a fissare sul calendario la data di quello che sarebbe diventato il Giorno della Memoria, ricorrenza che ormai da diverse stagioni viene celebrata dal Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, quest’anno proprio con un concerto che parte dai due musicisti citati.

Ce n’è poi un terzo, polacco anch’esso, che a differenza dei precedenti la gloria l’ha raggiunta ed ora, all’alba degli ottantacinque anni d’età, può considerarsi uno dei compositori più affermati e influenti in circolazione: Krzysztof Penderecki. È toccato a lui e alla Sinfonietta Cracovia ripercorrere questi sentieri della memoria che si sviluppano intorno alla Polonia, accodandosi a Weinberg e Ullmann con la sua Quarta Sinfonia.

Krzysztof Penderecki, nato a Dębica nel 1933 e formatosi al conservatorio di Cracovia – lo stesso in cui studiò Weinberg – dopo aver abbracciato le avanguardie degli anni ‘50, raggiunse la fama internazionale con la monumentale Passio et Mors Domini Nostri Jesu Christi Secundum Lucam e i successivi Diavoli di Loudun, un’opera sinistra in cui si racconta il processo per possessione demoniaca del vicario Urbain Grandier. Due modi opposti di accostarsi alla religione, tema che ispirerà una fetta consistente della produzione del cattolicissimo Penderecki; religione che non è solo questione di fede e spiritualità ma anche culturale: “La Polonia – spiega – ha una tradizione cattolica molto radicata che è stata ripetutamente repressa nel corso della storia e quasi annientata dal comunismo, al punto che la fede diventò quasi un mezzo di riscatto identitario del popolo polacco, di affermazione della propria cultura”.

Anche la Sinfonia n.4 – quella formalmente più solida, per sua stessa ammissione – è in qualche modo legata al comunismo, perché nata proprio nel momento del suo crepuscolo (1989). Rispetto ai lavori della giovinezza la Quarta pare in controtendenza, rispolverando un linguaggio musicale proprio degli albori del secolo piuttosto che delle avanguardie da cui Penderecki era partito e che volevano segnare il passo rispetto a una concezione estetica dell’arte che era culminata nella catastrofe del mondo europeo. Non è un caso: la produzione di Penderecki è caratterizzata da un processo di ricerca inesauribile che si traduce in una mutazione continua dello stile e del suono, eclettismo che è stato ulteriormente esasperato dagli incontri con gli artisti per cui ha composto: “Io scrivo la mia musica in modo diverso in base al destinatario: ho collaborato con Isaac Stern, Mstislav Rostropovič, di cui ero molto amico, Anne-Sophie Mutter e, occasionalmente, Leonard Bernstein. Per me il contatto con l’artista è fonte di ispirazione e arricchimento personale, ho avuto anche l’occasione di conoscere Šostakovič e Weinberg”.

Ovviamente non ci sono solo gli artisti ad influenzare la musica di un compositore: “Se dico chi sia il compositore che prendo a modello potreste mettervi a ridere, per me la musica più grande l’ha scritta Johann Sebastian Bach: l’aspetto polifonico, le forme di molte mie composizioni riprendono modelli che arrivano direttamente da lì, sin dalla Passione secondo San Luca. La Passione è stata la prima opera di grande importanza e dimensioni che ho scritto, nonché il primo pezzo di musica sacra ad essere eseguito in Polonia in epoca comunista, precedentemente nel mio paese la musica religiosa non era autorizzata”.

Certo per il pubblico italiano la musica contemporanea non è pane quotidiano, anzi, è da molti considerata ostica. “È un problema di educazione musicale del pubblico, di abitudine all’ascolto, non riguarda la complessità dei lavori. In Polonia fortunatamente la musica contemporanea ha sempre trovato posto e la Passione secondo Luca lo dimostra: dare spazio a una composizione del genere nel 1966 fu un atto di grande coraggio, io fui il primo a cui fu data questa opportunità e da allora di musica contemporanea se ne suona molta e il pubblico ha sempre risposto positivamente”.

E in effetti ha risposto trionfalmente anche il pubblico pordenonese. Il rigore e la brillantezza che Penderecki dimostra d’avere parlandoci a quattrocchi, sono gli stessi che porta (ottantacinquenne!) sul palco nel dirigere la sua Sinfonia n.4. Grandissima chiarezza espositiva e un senso dell’architettura incrollabile sono i tratti che colpiscono maggiormente nell’esecuzione di quest’opera in cinque movimenti, che scorrono via uno dopo l’altro senza pause.

Che questo repertorio sia moneta corrente per la Sinfonietta Cracovia – orchestra duttilissima e molto precisa, dalla tinta tendenzialmente cupa ma per nulla pesante – è evidente dalla qualità della performance: estrema chiarezza, equilibri interni inappuntabili e grande qualità delle prime parti.

Le opere Weinberg (Concerto per violoncello e orchestra op. 43) e Ullmann (Concerto per pianoforte e orchestra op. 25) sono affidate alla bacchetta di Maciej Twore, assistente e discepolo di Penderecki, che ne serve un’esecuzione di sostanziale correttezza ma senza particolari guizzi, anche perché, se Marek Szlerzer al pianoforte si rivela musicista sensibile ed elegante, il violoncellista Jan Kalinowski pare impari alla difficoltà del lavoro che deve affrontare.

Intanto il teatro annuncia due appuntamenti extra per la stagione musicale: una lezione-concerto di Alfred Brendel, che verrà insignito del Premio Pordenone Musica, e il ritorno della Gustav Mahler Jugendorchester con Vladimir Jurowski e la violinista Lisa Batiashvili (30 e 31 marzo).



22 gennaio 2018

Le Metamorfosi di Pasquale

La polvere sa dove depositarsi, quasi sempre. La riesumazione delle Metamorfosi di Pasquale al Teatro La Fenice è un'operazione interessante ma, in fin dei conti, sterile; i capolavori sono altra cosa.


Nel 2016 dalla biblioteca del castello d’Ursel, in Belgio, emersero quattro partiture di Gaspare Spontini che si credevano perdute: un melodramma buffo (Il quadro parlante, datato 1800), un dramma giocoso (Il geloso e l’audace, 1801), una cantata (L’eccelsa gara, 1806) e una farsa giocosa, Le metamorfosi di Pasquale. Quest’ultima andò in scena per la prima volta il 16 gennaio del 1802 al Teatro San Moisè di Venezia senza raccogliere grandi consensi – tant’è che il compositore scelse poi di giocarsi le sue carte all’estero – e in seguito se ne persero le tracce, come avvenne del resto per gran parte della produzione giovanile di Spontini, almeno fino all’altro ieri. A due secoli abbondanti di distanza, le Metamorfosi ritornano nella città in cui sono nate per la stagione del Teatro La Fenice che ha scelto di dare all’opera “una seconda possibilità”.

Capita talvolta che questi disseppellimenti riportino in vita capolavori dimenticati o sconosciuti, caso non molto frequente e che certamente non riguarda nemmeno alla lontana la farsa giocosa in questione. Se la musica di Spontini pare decisamente di maniera e non brilla per ispirazione ma risulta in fin dei conti piacevole, è soprattutto il libretto facilone e sbrigativo di Giuseppe Maria Foppa a scansare ogni interesse, non tanto per la trama, che non è né più né meno solida di quella dei lavori omologhi, quanto per la totale inconsistenza dei caratteri.

La vicenda si sviluppa attorno a due triangoli amorosi: Costanza, figlia del barone, ama riamata il marchese del Colle mentre il padre vorrebbe darla in moglie al cavaliere del Prato; la di lei serva Lisetta, promessa sposa di Frontino (incidentalmente cameriere del marchese), vede le sue certezze svanire quando dal passato rispunta Pasquale, una vecchia fiamma giovanile che la abbandonò per andare a cercar fortuna nel mondo.

In un gioco di travestimenti e malintesi tipicamente farsesco, Pasquale, che di fortuna non ne ha trovata nemmeno per sbaglio, viene dapprima convinto d’essere il marchese, consentendo così a quello vero di sfuggire al mandato di arresto che pende sulla sua testa in seguito a un duello con il rivale d’amore, poi illuso, sedotto e infine gabbato e truffato. Finisce che Costanza sposa il suo marchese con il benestare paterno, Lisetta si dà al cameriere e Pasquale rimane con un pugno di mosche in mano.

Di fronte alla totale latitanza di qual si voglia abbozzo di psicologia dei personaggi, puntare esclusivamente sull’azione è una scelta obbligata e, in tal senso, Bepi Morassi dimostra di conoscere il mestiere. La recitazione risulta infatti vivace e dinamica, nonché ben costruita sulla musica, le interazioni sono curate. Certo il vocabolario scenico di Morassi è su per giù quello di sempre: tra gag, balletti, una manciata di mimi a catalizzare l’azione, echi d’avanspettacolo e qualche sottolineatura di troppo, queste Metamorfosi finiscono per assomigliare molto ad altri suoi lavori del passato.

Le scene di Piero De Francesco – realizzate, come i costumi di Elena Utenti, dagli allievi della Scuola di Scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia – sono semplici ma efficaci nell’indicare delle coordinate spaziotemporali immediatamente identificabili (i primi numeri si svolgono dinanzi all’ingresso di un locale, verosimilmente nei primi decenni del secolo scorso, quanto segue al suo interno) e grazie alla maneggevolezza dei pochi orpelli presenti sul palco non ostacolano la scorrevolezza dell’azione.

Il cast è complessivamente all’altezza della situazione. Il Pasquale di Andrea Patucelli è simpatico e riesce a schivare il rischio di sovraccaricare gli atteggiamenti farseschi, non ha poi alcun problema a disimpegnarsi in una scrittura vocale che non pare eccessivamente impervia.

Tocca invece a Irina Dubrovskaya la parte più impegnativa dal punto di vista tecnico: Lisetta esige agilità, una buona estensione, sicurezza ad alta quota e una discreta verve, tutte qualità che non mancano alla Dubrovskaya. Certo, rispetto ad altre prove recenti, il soprano palesa qualche tensione di troppo che intacca la brillantezza dell’emissione e, a tratti, compromette l’intonazione.

Il marchese di Giorgio Misseri ha voce leggera ma garbata, buon legato e musicalità ma potrebbe riuscire più vario ed incisivo nei recitativi.

Michela Antenucci è una Costanza all’altezza della situazione che risolve correttamente anche il suo momento solistico.

Il Frontino di Carlo Checchi è brillante ma spesso in debito di volume. Francesco Basso è un Barone ben caratterizzato mentre Christian Collia si divide tra la parte del cavaliere del Prato (troppo macchiettistico!) e quella del sergente.

Giova molto alla riuscita dello spettacolo la presenza di Gianluca Capuano sul podio e al clavicembalo. La sua è una direzione di grande praticità: leggera – il che aiuta un cast composto da voci per lo più piccole – ben equilibrata e attentissima al palcoscenico, cui la buca si incolla come un adesivo. L’Orchestra della Fenice non centra la qualità timbrica dei giorni migliori, ma se la cava senza particolari imbarazzi.

Buon successo di pubblico a fine recita.

18 gennaio 2018

Cent'anni con Claude Debussy

A Benedetto Lupo bastano poche note per mettere in chiaro le cose: lui non è il solito pianista e il suo non è il solito Debussy. La mano è leggerissima, sembra non affondare mai sulla tastiera ma scivolarci sopra, e il suono che ne esce, di una morbidezza appena ovattata, è pur nella sua intrinseca bellezza quanto di più naturale e sincero si possa immaginare.

Ci si chiede, ascoltandolo, cosa lo tenga lontano dai “giri che contano”, o almeno lo privi di una stabile consuetudine con le ribalte più prestigiose che sembrerebbero essere la residenza più adatta per un musicista di questo spessore.

Il concerto monografico che ha celebrato Claude Debussy (che moriva nel marzo di cent’anni fa) ha rivelato al pubblico del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone un pianista che è innanzitutto un virtuoso della tecnica – perché del suono si è già detto, ma c’è poi un dominio assoluto della tastiera, una tenuta ritmica che non si concede la minima sbavatura, il controllo di ogni singola nota anche laddove ce ne siano tantissime da mettere insieme – e non di meno è interprete asciutto, essenziale. Ogni retaggio del Debussy ammiccante e sentimentale, tutto indugi, allusioni e rubatoni, è dimenticato, cancellato. Rimane solo la musica. Nessun compiacimento nell’agogica, che è mossa quel tanto che basta per dissipare il rigore, nessuna sottolineatura: quanto è bello ascoltare quegli echi pentatonici delle Pagodes immergersi e riaffiorare dal tessuto armonico senza la smania di buttarli per forza sotto i riflettori, o le cascate di note di Mouvement (prima serie delle Images) scorrere così limpide e cristalline. E poi c’è un gusto per il piccolo gesto, per il dettaglio minuscolo a scapito dei grandi contrasti e delle esasperazioni espressive e dinamiche, le cui modulazioni sono ottenute attraverso l’incisività e la brillantezza del tocco anziché il vigore.

L’impressione che si ha, a fine concerto, è quella di avere ascoltato un devoto servitore della musica, perché una tale perfezione esecutiva può nascere solo dal rigore di chi rispetta in modo quasi ossessivo l’arte cui si pone di fronte, che lavora su ogni singola battuta finché non riesce come deve.

Insomma Debussy ringrazia, e con lui il pubblico pordenonese, che ha salutato trionfalmente il pianista a fine concerto e l’ha poi sequestrato nel foyer.

3 gennaio 2018

Concerto di Capodanno alla Fenice

Il Concerto di Capodanno del Teatro La Fenice non è solo il medley nazionalpopolare a misura di pubblico televisivo che da quindici anni divide – forse nemmeno troppo – gli appassionati. Quella che passa la Rai è la seconda parte del programma, a conti fatti la meno interessante dal punto di vista musicale, la quale sarebbe preceduta da un mezzo concerto sinfonico vero e proprio che viene tristemente immolato alle ragioni della TV generalista.


Ad aprire le danze quest’anno è toccato alla Sinfonia n. 9 in mi minore, Op. 95 Dal Nuovo Mondo di Antonín Dvořák, affidata alle cure di Myung-Whun Chung il quale pare essere sempre più instradato verso una posizione di guida musicale per il teatro veneziano e soprattutto per la sua orchestra. Il Nuovo Mondo esce dalla sua bacchetta limpido e ripulito – forse persino troppo, al punto che di fronte alla trasparenza di una concertazione che mette in luce ogni singolo dettaglio ci si chiede se l’invenzione musicale che ne emerge sia davvero così interessante – il che giova moltissimo ai momenti più intimi e distesi, su tutti un Secondo movimento meraviglioso. L’approccio di Chung tuttavia palesa qualche limite dove ci si aspetterebbe un po’ di “fuoco” e, forse sì, il coraggio di accendere le polveri senza preoccuparsi troppo del buongusto e degli equilibri.

Se il direttore può cavare tanta raffinatezza di suono e nitore c’è una larga fetta di merito da riconoscere all’Orchestra della Fenice che sbava qualcosa in un paio di attacchi e nell’intonazione degli ottoni ma che per il resto si esprime al meglio delle sue possibilità.

Il concerto da Rai Uno, chiamiamolo così, date per accettate le scelte “editoriali” che ormai paiono ripetersi sempre uguali anno dopo anno, viaggia su due velocità, forse tre. I brani affidati alla sola orchestra reggono e convincono, con diversi gradi di eccellenza, mentre lasciano più d’una perplessità le arie d’opera. Se Serena Farnocchia, arrivata all’ultimo minuto a sostituire l’indisposta Maria Agresta, risolve i suoi momenti senza incertezze (la voce non è personalissima e manca di un certo corpo in basso ma è sana e ben controllata), chi davvero appare fuori contesto è Michael Fabiano. La strumento del tenore americano non è né bello né brutto, ha volume ragguardevole nell’ottava grave ma sale all’acuto senza trovare la giusta posizione sicché con l’inasprirsi della tessitura i suoni si fanno via via più opachi e schiacciati. Questa o quella per me pari sono è a dir poco problematica per intonazione e omogeneità del timbro, va un po’ meglio Nessun dorma in cui tuttavia Fabiano non riesce a coprirsi di gloria dove dovrebbe, cioè sul Si naturale.

Della prova di Serena Farnocchia si è in parte già detto: il soprano fraseggia e colora con un’espressività un po’ vecchio stile ma d’effetto, riesce a reggere il tempo assai lento che Chung stacca per il Babbino caro, dimostrandosi in possesso di fiati a prova di bomba, e regala anche una pregevole aria di Butterfly cui manca solo un briciolo di sfogo nel finale.

Nessuna riserva invece per la prova di Chung e dell’orchestra che danno il meglio di sé in una Barcarolle splendida e centrano la giusta brillantezza nell’Ouverture di Carmen e in quel che rimane dei Ballabili di Otello e della Danza delle ore.

L’Ouverture dall’Italiana in Algeri è travolgente per le accelerazioni che il direttore imprime ai crescendo (forse di gusto discutibile ma elettrizzanti) benché risulti disorientante ascoltare, al giorno d’oggi, un Rossini così sbilanciato in favore degli archi.

Che il Coro della Fenice e il suo direttore Claudio Marino Moretti siano straordinari non lo si scopre certo oggi ma il Va pensiero che regalano esalta al cubo la scrittura di Verdi.

Buona l’accoglienza di un pubblico per lo più turistico.