23 dicembre 2015

L'Elisir d'Amore al Verdi di Trieste

C'è più di un'idea vincente nell'Elisir d'Amore in scena al Teatro Verdi di Trieste, spettacolo fresco e colorato pensato dal regista Fabio Sparvoli. La posposizione della vicenda al secondo dopoguerra ha dei vantaggi: spazza via un po' di polvere dalla partitura donizettiana senza turbare eccessivamente il pubblico più rigido su posizioni tradizionaliste e consente di guardare da una prospettiva inedita taluni temi dell'opera che in altri contesti passano in secondo piano. Emerge con forza ad esempio il divario socioculturale tra la sorridente ingenuità del paese e un Dulcamara cittadino avvezzo a strumenti e malizie che “i villani e le villanelle” nemmeno immaginano. Piace altrettanto il Belcore carabiniere da commedia italiana anni '50. L'ambientazione ha insomma il merito di rendere efficace ed immediata la definizione dei caratteri, almeno per la sensibilità del pubblico contemporaneo.

Foto Fabio Parenzan
Per il resto siamo dalle parti della tradizione più innocua e rassicurante, una tradizione tuttavia vivacizzata da un'apprezzabile cura per la recitazione dei solisti e soprattutto del coro. Rimane un'unica perplessità: davvero non si capisce perché la dicitura di “melodramma giocoso” giustifichi ancora, anche in allestimenti curati e piacevoli come questo, la concessione a certe forzature comiche che facilmente scadono nel cattivo gusto.

Le semplicissime ma piacevoli scene che accolgono la vicenda sono firmate da Saverio Santoliquido. Scolastico il disegno luci di Jacopo Pantani, belli i costumi di Alessandra Tortorella.

Il direttore d'orchestra Ryuichiro Sonoda dà l'impressione di essere estraneo, per sensibilità e cultura, alla tradizione esecutiva del melodramma italiano buffo, il che non è necessariamente un male. Non ci sono, ad esempio, i tagli che sovente mutilano il capolavoro donizettiano così come assai originali e inedite paiono alcune scelte musicali, soprattutto per quanto riguarda l'articolazione. Manca purtroppo il teatro, soprattutto nel primo atto: la concertazione di Sonoda, per quanto sorvegliata, risulta fin troppo inamidata, riuscendo a tratti inerte sul piano della narrazione. Tale limite pare riconducibile piuttosto che ai tempi, generalmente spediti (almeno dall'ingresso di Dulcamara in poi), ad un'eccessiva timidezza nelle dinamiche. Il dialogo col palcoscenico non è sempre ottimale e gli scollamenti tra orchestra – al solito estremamente affidabile - e cantanti non sono infrequenti.

Roberta Canzian, Adina, si disimpegna con correttezza nel primo atto ma arriva all'aria Prendi, per me sei libero decisamente affaticata. Il soprano ha discreta fluidità e buona musicalità ma risolve non sempre agevolmente le agilità ed il registro acuto.

Leonardo Ferrando è un Nemorino vocalmente garbato e ben calato nella parte. La voce è leggera e di timbro non indimenticabile ma viene modulata con sicurezza e gusto in un canto elegante e morbido. La “Furtiva lagrima”, nonostante le dinamiche fossero tendenzialmente appiattite sul mezzoforte ed il fraseggio abbastanza rigido, si è guadagnata un'ovazione a scena aperta, reazione quasi sorprendente per chi conosce l'austerità del pubblico triestino.

È un peccato che, come spesso avviene, la regia si accanisca contro Belcore perché Filippo Polinelli ha mezzi ragguardevoli e, a suo modo, centra il personaggio. Fatta la tara degli eccessi caricaturali cui è costretto, il carabiniere spaccone e simpaticamente buzzurro disegnato da Polinelli avrebbe diverse ragioni dalla sua, non ultima una vocalità ampia e salda in ogni registro.

Il Dulcamara di Domenico Balzani ha voce importante e calca il palcoscenico con disinvoltura ma tende spesso, soprattutto nei recitativi e nel sillabato stretto, a scivolare nel parlato. Mario Brancaccio è il suo inarrestabile servitore.

Convince la Giannetta elettrica e stralunata di Vittoria Lai, soprano dalla vocalità leggera ma tutt'altro che inconsistente.

Molto positiva la prova del coro preparato da Fulvio Fogliazza.

A fine spettacolo accoglienza calorosa per tutta la compagnia.


10 dicembre 2015

Doppiamente Werther

Capita talvolta - per fortuna non di frequente - di dover recensire due volte lo stessa serata. Così è successo per il Werther andato in scena al Verdi di Trieste, di cui ho scritto sia qui, sia su OperaClick.


Difficile fare un Werther senza Werther. Il nuovo allestimento del Verdi di Trieste avrebbe più di un motivo d’interesse, non fosse che il protagonista Mickael Spadaccini annaspa al di sotto del livello di galleggiamento. Emissione forzata che si traduce in un canto impreciso nell’intonazione e sconnesso nella linea, piattezza espressiva e musicale. Terzo e quarto atto vanno leggermente meglio dei primi due ma nella sostanza l’esito non cambia. E un po’ ci si immalinconisce scorrendo la cronologia del programma di sala che ricorda i tempi in cui, allo stesso Verdi, l’opera di Jules Massenet veniva affidata a grandissimi artisti.
È un peccato perché il resto funziona egregiamente. Su tutti svetta Olesya Petrova la quale è una Charlotte notevolissima: voce di bel colore, omogenea ed ampia, fraseggio e musicalità di tutto rispetto. La Petrova è inoltre attrice assai consapevole e misurata.

Non meno interessante la prova di Christopher Franklin, direttore capace di disegnare una narrazione vivida e tesa senza sacrificare la qualità del suono, anzi, scovando dettagli ed impasti che spesso rimangono nell’ombra o peggio impantanati nella melassa in cui certa tradizione deteriore affoga Massenet, magari pensando di valorizzarlo. Ancora una volta l’orchestra del Verdi suona egregiamente, sia per compattezza e bellezza delle sonorità, sia negli interventi dei singoli.

Non delude nemmeno la bravissima Elena Galitskaya che canta ed interpreta Sophie con freschezza, forte di una vocalità perfettamente sostenuta e proiettata. Nella correttezza Ilya Silchukov, Albert non indimenticabile ma nemmeno censurabile. All’altezza Ugo Rabec (Le Bailli) mentre Alessandro D’Acrissa e Dario Giorgelè sono rispettivamente uno Schmidt e un Johann di alto profilo. Giuliano Pelizon e Silvia Verzier svolgono con diligenza il loro compito. Bene si comportano i “Piccoli Cantori della Città di Trieste” preparati da Cristina Semeraro.

Lo spettacolo firmato da Giulio Ciabatti (regia) e Aurelio Barbato (scene) si inserisce nel solco di una rassicurante tradizione: nessuno stravolgimento drammaturgico e una recitazione convenzionale ma, ad eccezione del rigido protagonista, abbastanza curata. L’impianto generale ha una sua eleganza ed è ben realizzato, soffre qua e là di una certa staticità ma nel complesso convince. Il quarto atto è senza dubbio il momento più indovinato e coinvolgente. Belli e funzionali al contesto i costumi di Lorena Marin, non lascia il segno il disegno luci di Claudio Schmid.
Applausi per tutti che si scaldano all’uscita della Petrova e di Franklin. Qualche fischio dal loggione per Spadaccini.


Di seguito riporto invece la recensione scritta per OperaClick:

È banale a dirsi ma il Werther di Massenet non è il Werther di Goethe, il che non è né un bene né un male ma un semplice dato di fatto. In fondo il compositore francese, formidabile uomo di teatro, e con lui i librettisti Edouard Blau, Paul Miller e Georges Hartmann, liberando il personaggio da molte delle implicazioni filosofiche, ne hanno generato una semplificazione che sul piano intellettuale vola assai più basso del romanzo ma che per spontaneità e genuinità parla una lingua comprensibile ai più. Non di meno hanno catalizzato l'attenzione sul tormento psicologico del poeta, banalizzandone probabilmente i tratti ma rendendolo così più “normale”. Non è un caso che, mentre Goethe metteva nero su bianco i Dolori del giovane Werther negli anni '70 del XVIII secolo, l'opera di Massenet nasca in un clima culturale dominato dallo Spleen di Baudelaire da un lato e dalle prime esperienze psicanalitiche dall'altro.

Al di là di qualche dato di contesto fortemente definito il protagonista dell'opera è dunque una figura dall'inquietudine moderna. Il disagio esistenziale del poeta è innanzitutto una questione di alienazione ed incomunicabilità, per questo Werther, il Werther di Massenet, è un personaggio di oggi, nonostante il linguaggio tardo romantico possa farlo sembrare distante nel tempo per carattere e contenuti.

Il nuovo allestimento dell'opera francese che il Teatro Verdi di Trieste mette in cartellone è, sotto questi aspetti, discretamente centrato.
Il regista Giulio Ciabatti rende bene la dimensione privata del dramma, spogliando il protagonista di ogni posa intellettualoide e avvicinandolo piuttosto a una sensibilità borghese. Ne esce un uomo la cui caratteristica determinante è una fragilità sproporzionata che lo porta a distaccarsi progressivamente dal mondo in cui vive. Il legame con Charlotte non pare avere i tratti del folle innamoramento ma nasce dall'intima consapevolezza che lei è la sola in grado di intuirne la sofferenza e, forse, darle sollievo. L'azione disegnata da Ciabatti scorre abbastanza fluida, inciampa in qualche momento di stanca ma altresì decolla in un quarto atto toccante e ben calibrato. La recitazione funziona con esiti alterni a seconda degli interpreti.

Le belle scene di Aurelio Barbato rendono con efficacia, soprattutto nel terzo e quarto atto, il senso di claustrofobico isolamento di Werther e il suo inarrestabile allontanamento dalla società.

Molto belli i costumi di Lorena Marin, ordinario il disegno luci ideato da Claudio Schmid.

Purtroppo il tenore Mickael Spadaccini non convince nei panni del protagonista. L'emissione è sempre forzata e, soprattutto nel registro centrale, scarsamente sostenuta dal fiato con conseguenti slittamenti d'intonazione. Il registro acuto è più solido e brillante ma, il più delle volte, inficiato dalla tendenza a spingere. In linea di principio potrebbe persuadere la caratterizzazione che Spadaccini dà di Werther e la varietà di dinamiche con cui ne rende i patemi, non fosse che, sul piano vocale, le idee trovano a fatica la via della corretta realizzazione.

Viceversa Olesya Petrova, Charlotte, canta davvero molto bene: la voce è di per sé ricca e di bel timbro, il volume ampio in ogni registro, tecnica e musicalità sono all'altezza di tale strumento. Va aggiunto che di rado si ascoltano pianissimi tanto timbrati e intrinsecamente espressivi.

Bravissima anche Elena Galitskaya, Sophie dalla voce leggera ma svettante che, oltre che per la piacevolezza del canto, conquista per la spontaneità e la freschezza dell'interpretazione.
Ilya Silchukov canta la parte di Albert senza molte sottigliezze ma con efficacia e solido mestiere.

Ugo Rabec, Le Bailli, si disimpegna con correttezza. Dario Giorgelè e Alessandro D’Acrissa danno lustro e brillantezza a Johann e Schmidt. Giuliano Pelizon e Silvia Verzier sono i corifei.

Christopher Franklin dirige l'ottima orchestra del Verdi di Trieste, davvero in splendida forma, con grande senso del teatro, unendo alla scorrevolezza della narrazione una pregevole varietà di colori ed evitando ogni svenevolezza o ammiccamento. Il suono orchestrale, benché tendenzialmente scuro, non scade mai in eccessi di pesantezza, anzi lascia a molti incisi strumentali la possibilità di emergere da un tessuto orchestrale di apprezzabile trasparenza.

Convincono anche i “Piccoli Cantori della Città di Trieste” preparati da Cristina Semeraro.

A fine recita applausi convinti per tutti con punte di entusiasmo per Petrova e per il direttore. Qualche contestazione per Spadaccini.


Teatro La Fenice: Jeffrey Tate apre la stagione sinfonica

Dopo il recentissimo Idomeneo Jeffrey Tate torna sul podio dell'Orchestra del Teatro La Fenice per un'altra inaugurazione, quella della stagione sinfonica che vedrà assoluto protagonista Anton Bruckner. Si parte dalla sua Seconda sinfonia affidata appunto – accanto alla Piccola di Schubert – al Maestro inglese il quale appare tuttavia, rispetto all'esaltante prova mozartiana e al Mahler di alcuni mesi fa, assai meno ispirato.

Interlocutoria e sbrigativa la Sinfonia n.6 in Do Maggiore di Franz Schubert che dà, sin dall'inizio, l'impressione di riuscire disomogenea e poco centrata. Sorprende che un musicista sensibile ed esperto come Tate non riesca a trovare un giusto equilibrio tra le sezioni: in particolare si ha la sensazione che, nonostante il tappeto degli archi sia piuttosto delicato, i legni siano portati a forzare oltre il necessario, perdendo così di morbidezza e fluidità. Non di meno disturba una certa pesantezza, più negli accenti che nelle sonorità, che pervade l'intera sinfonia. Al di là delle riserve non si può dire che l'orchestra suoni male, tutt'altro, malgrado gli eccessi di corposità che a tratti conferiscono meccanicità all'opera. Sullo sfondo si intravede, e talora emerge con forza, la zampata del grande artista: il primo movimento è illuminato da una serenità quasi sorridente, lo Scherzo seduce per la caratterizzazione, più dinamica che timbrica, di ogni inciso e l'abilità nel renderlo parte di un discorso musicale fluido. L'Allegro moderato è staccato con un tempo rapidissimo che, se da un lato gli conferisce un'urgenza ed un'irrequietezza brulicante, dall'altro lo rende eccessivamente confuso e, complice qualche strattone troppo marcato, lo impoverisce.

Va meglio con il Bruckner della Seconda Sinfonia in Do Minore la cui virtù più evidente è una luminosa chiarezza espositiva: Tate “spiega” alla perfezione la struttura del lavoro inquadrando ogni dettaglio in un disegno ampio, con le singole voci capaci di emergere con mirabile equilibrio nonostante la densità del suono. Un'esaltazione dell'architettura non priva di fascino dunque ma, inevitabilmente, a rischio di staticità. L'impostazione più “pensata” che istintiva comporta, alla lunga, qualche calo di tensione, complici una monocromaticità di fondo che omogenizza l'intero sviluppo ed una scansione dei tempi abbastanza rigida. Il tutto pare molto, forse troppo, monumentale e serioso ma, non di meno, è assai ben eseguito. 

Il suono è ammaliante e caldo sin dall'ingresso del tema dei violoncelli ma tende a mantenersi uniforme con minime variazioni sul tema. In sostanza il disegno di Tate prevede un'orchestra lussureggiante e levigata che sappia prestarsi ad un'infinità di sfumature dinamiche mentre per quanto riguarda la varietà di colori e inflessioni ritmiche il quadro risulta più piatto e ingessato. Alcuni momenti catturano per magia e bellezza (l'attacco dell'Andante su tutti), altri meno: il carattere popolare dello Scherzo, ad esempio, risulta marcato in modo quasi stucchevole. Resta tuttavia, sullo sfondo, l'impressione che il procedimento contemplativo tenda a sgonfiare la narrazione anche in ragione del fatto che gli spunti e i guizzi di fantasia capaci di vivacizzarla sono davvero minimi.

Merita un elogio la prova dell'Orchestra del Teatro La Fenice, assolutamente all'altezza dell'impegno sinfonico sia per precisione sia per qualità del suono.

Un appunto infine: si comprendono a fatica le ragioni di alcune scelte testuali operate dal maestro come la riapertura dei tagli in Bruckner e, soprattutto, l'amputazione (compensatoria?) dei ritornelli nella Sesta di Schubert.

Applausi di cortesia, piuttosto sbrigativi, dopo Schubert che diventano ovazioni a fine concerto.