12 aprile 2023

Julia Fischer e l'Orchestra della Svizzera italiana

  Julia Fischer non è il genere di strumentista ipertecnica che spara a mitraglietta note su note tutte inesorabilmente telefonate nella loro perfezione meccanica, ma qualcosa di molto diverso. Se c’è una violinista che sa far cantare quel pezzo di legno come fosse un soprano, con una grazia nel porgere che ammanta di spontaneità ogni frase musicale, questa è lei.


   La sua presenza è insomma una buona ragione per guardare con interesse alla milionesima interpretazione del Concerto per violino e orchestra in Re maggiore op. 77 di Brahms, che capita di ascoltare in tutte le salse ma raramente in un approccio così sorgivo e intimistico al tempo stesso, così “antidivistico”, caratterizzato da una naturalezza di legato e di fraseggio applicata su di un suono che si sviluppa, ottava dopo ottava, senza la minima frattura. Si tratta peraltro di un’opera con cui la violinista ha un rapporto consolidato, avendola anche registrata per Pentatone nel 2006 accanto a Yakov Kreizberg, il defunto fratello di Semyon Bychkov, che sarà il prossimo protagonista della stagione musicale del Teatro Nuovo Giovanni da Udine il 2 aprile.

   Evidentemente lo stile della Fischer ha incontrato il favore del pubblico friulano, che si è spellato le mani per la trentanovenne violinista tedesca, la quale per congedarsi definitivamente ha dovuto “concedere” tre bis (Paganini, Bach e ancora Paganini).

   Accanto a lei l’Orchestra della Svizzera italiana, guidata dal suo direttore principale Markus Poschner, ha confermato le buone impressioni lasciate nel concerto della scorsa stagione. È un'orchestra duttile, dal suono tendenzialmente chiaro e con qualche punta di secchezza, che Poschner plasma con un approccio più stuzzicante dal punto di vista della concertazione che della direzione vera e propria, come si ha modo di apprezzare anche nella Terza Sinfonia di Čajkovskij, la Polacca. È un lavoro che non capita sovente di poter ascoltare e se ne capiscono le ragioni solo se lo si rapporta alla tripletta di sinfonie che gli sono seguite, le quali hanno una compiutezza incommensurabilmente superiore, ma che preso come pezzo a sé avrebbe una dignità nell’elaborazione del materiale musicale e nell’orchestrazione ben altro che disprezzabili. Quello che propone Poschner è un Čajkovskij senza fronzoli né struggimenti, ma discorsivo, ben bilanciato tra le sezioni e limpido nell'esecuzione - pur con qualche ingresso non pulitissimo dei fiati e una defaillance della tuba - che non brilla per flessibilità, né per corpo del suono, ma che ha nell’asciuttezza narrativa e nella varietà della dinamica i suoi punti di forza.

  Pubblico che, come detto, saluta trionfalmente la solista ma si dimostra altrettanto caloroso con direttore e orchestra a fine serata.


1 aprile 2023

Ernani alla Fenice

   La sensazione che resta a termine dell'Ernani in scena al Teatro La Fenice è che ci fossero dei margini per fare qualcosa di meglio, soprattutto per quanto riguarda voci e buca. Chi non lascia particolari rimpianti è Andrea Bernard, regista, almeno se si parte dal presupposto che l’opera in questione sia, per struttura e intreccio, uno di quei perfidi tranelli in cui mettere le mani è estremamente pericoloso.

   Non che questo Ernani sia un capolavoro della messinscena, ma in fin dei conti la condotta didascalica e correttamente dipanata da tradizione due-punto-zero funziona. Bernard non si inventa niente di strano, o meglio, quasi niente. A esclusione del fantasma del padre del protagonista che si aggira per il palco reclamando vendetta e di qualche flashback in videoproiezione, il suo è il più classico degli Ernani. Non è dunque uno spettacolo da Oscar alla regia, ma potrebbe piuttosto candidarsi a un premio per la fotografia perché grazie alle belle scene di Alberto Beltrame - che richiamano le rovine di un castello - e a una organizzazione non particolarmente vivace ma ben misurata dei movimenti delle masse, il palco è quasi sempre un bel vedere. Ne esita una narrazione che procede grossomodo per immagini statiche in cui Bernard fa il possibile, ma non l'impossibile, con la recitazione dei singoli, che è sbozzata di mestiere. Il buon disegno luci di Marco Alba e i bei costumi di Elena Beccaro (solo una domanda: perché Giovanna ha gli occhiali da sole?) fanno gioco al bel colpo d’occhio complessivo.

Foto Silvestri

   Quanto all'esecuzione musicale, il limite fondamentale è una mancanza di varietà di fondo che si traduce in monotonia. Qui le voci ci sono, alla faccia di chi le crede estinte, ma non sono spinte al meglio delle rispettive possibilità. Piero Pretti ad esempio è un Ernani di eccellente musicalità e squillo e, pur non disponendo di un tonnellaggio soverchiante, sa proiettare ogni nota in qualsiasi zona della tessitura. Qua e là, sì, dà l’impressione che la parte gli vada un po' larga, ma il problema non è quello, quanto la monocromia di un canto che è quasi esclusivamente giocato tra mezzoforte e forte. La sintesi della prova del tenore potrebbe essere copiaincollata pari pari al resto del cast, ad eccezione di Michele Pertusi (Silva), che ormai possiede un mestiere e una idiomaticità tali da dominare il linguaggio verdiano in ogni suo segreto tecnico-espressivo.

   Anastasia Bartoli, Elvira, ha uno strumento un po' sordo in basso che esplode in un’ottava alta vigorosa, che lei controlla bene e che esibisce con gran sfarzo e con qualche occasionale fissità, ma non trasmette che in parte la ricchezza musicale e drammatica del personaggio, anche perché ingabbiata nei suoi momenti più distesi da un accompagnamento strettamente ossequioso al metronomo.

   Chi ci lascia le penne è Ernesto Petti, il cui Don Carlos è un enigma. Al baritono non fanno difetto né il volume, e ne dà prova nell'aria della terza parte, né le buone intenzioni, perché se c'è da alleggerire alla mezzavoce o da osare qualche legato più scoperto non si tira indietro. Però questi pochi momenti di bel-canto cedono il passo a continue forzature e suoni "grattati" che esitano giocoforza in cali di intonazione e crepe nella timbratura. Non è memorabile nemmeno il contributo dei comprimari, a eccezione della buona Giovanna di Rosanna Lo Greco.

Foto Silvestri

Quando i limiti si distribuiscono trasversalmente, viene il sospetto che la responsabilità di quel che c'è stato, ma soprattutto di ciò che mancava, sia del podio. La direzione di Riccardo Frizza, che pur alla Fenice negli ultimi anni ha lasciato tanti ottimi ricordi, è al solito impetuosa e trascinante, ma in questo caso avara di delicatezza. Approfittando di una compagnia di buone canne, Frizza tiene il volume dell'orchestra tendenzialmente alto e imprime al battito una serratezza che va a vantaggio della tensione teatrale ma non sempre del canto. Non che l’orchestra sia sciatta, anzi, la concertazione e gli equilibri interni sono efficaci anche quando il direttore alza la manopola del volume e sollecita le percussioni, eppure c'è un assente ingiustificato: tutto quell’insieme di sottigliezze che assicurano varietà, colori e pregnanza drammatica allorché c’è da modellare musica e parola l’una sull’altra.

   Non è in serata di meraviglie neanche il Coro della Fenice preparato da Alfonso Caiani, che ogni tanto scappa al podio e che sembra aver smarrito la compattezza dei giorni migliori.

   A fine spettacolo successo caloroso per tutta la compagnia.