21 aprile 2018

Così fan tutte al Verdi di Trieste

Un Così fan tutte in abiti tradizionali è sempre rinunciatario, o quantomeno rischioso. La fedeltà al Libretto, in maiuscolo come fosse il Verbo, per quanto possa chiarire più agilmente gli snodi drammaturgici e dare loro credibilità – ma siamo così sicuri che nell’opera di Mozart la credibilità, intesa come verosimiglianza, sia fondamentale? – allarga la distanza che separa pubblico e personaggi, che in fondo non sono altro che esseri umani al cubo, oggi come ieri. E cos’è Così fan tutte, se non un trattato sull’essere umano? Tra realtà e finzione, maschere che si indossano e maschere che cadono, sentimenti che scalciano e certezze che si frantumano, il protagonista dell’opera è l’uomo (o la donna, fa lo stesso), ritratto in tutte le sue debolezze e contraddizioni. Così fan tutte per dire “così son tutti”, pupazzetti in balia della vita e di se stessi.
Lo racconta la trama quanto sia facile ingannare chi vuol essere ingannato, o fingere di non vedere l’evidenza più evidente, quando fa comodo. Le carnevalate sono solo un pretesto.

Foto Fabio Parenzan

Di questo ginepraio di affetti e turbamenti nell’allestimento in scena al Verdi di Trieste non resta che qualche traccia, ben nascosta sotto gli abiti e dietro le scene lussureggianti di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo. Il che non è un male in senso assoluto, di Così fan tutte ipertradizionali se ne sono sempre fatti e visti a centinaia, ma è una scelta che indirizza il taglio interpretativo, portando necessariamente a privilegiare l’aspetto farsesco su quello patetico e quindi l’azione sull’introspezione.

La regia di Giorgio Ferrara, ripresa da Patrizia Frini, è poi tendenzialmente saputa, ha qualche finezza e molta polvere e a tratti pare lasciata all’iniziativa dei singoli, soprattutto nelle arie, mentre è orchestrata con più attenzione nei finali d’atto.

Foto Fabio Parenzan

Anche Oleg Caetani, pur concertando con attenzione, naviga sulla superficie degli abissi mozartiani. Certo il suono è pulitissimo e “bello”, fatto salvo qualche piccolo sbandamento interno e di comunicazione con il palco nel primo atto, però la ristrettezza del ventaglio dinamico e la mancanza di respiro sacrificano molto dell’ambiguità e del non detto. Se c’è un opera in cui ogni singolo scarto dinamico, ogni pausa o corona, ogni minimo dettaglio musicale ha un significato drammaturgico, questa è proprio Così fan tutte, eppure nel suo antiedonismo “squadrato” e canoviano Caetani se lo dimentica spesso, così come si dimentica di aiutare i cantanti, che in più di un’occasione faticano a seguire la rapidità dei tempi imposti dal podio e “tirano indietro”.
Per quanto riguarda le scelte testuali, c’è qualche sfrondata di troppo ai recitativi, oltre ai tradizionalissimi sacrifici del “duettino” e della seconda aria del tenore. Transeat.

Foto Fabio Parenzan

Il cast, composto prevalentemente da giovani artisti di belle speranze, se la cava complessivamente bene.

Karen Gardeazabal sta meglio in alto che in basso, ma dà corpo e voce a una Fiordiligi tutto sommato convincente. Anche se qualche passaggio è affrontato con cautela, il personaggio c’è, le note anche e, soprattutto, c’è l’impressione che questo giovane soprano abbia dei grandi margini di miglioramento.
Ha una bella voce calda, benché piccolina, e sa cantare come si deve Aya Wakizono, Dorabella cui manca solo un pizzico di fantasia nei recitativi. Qualità che invece possiede Giulia Della Peruta (Despina), la quale è una vera attrice-cantante, cioè quello che servirebbe sempre per il teatro mozartiano. A dispetto di qualche leggera increspatura in acuto, il soprano ha verve, dice e accenta con espressività e tiene benissimo il palco.
Vincenzo Nizzardo è un Guglielmo di bella voce e presenza. Il timbro è brillante e giovanile, il canto centra un giusto compromesso tra machismo di maniera e morbidezza.
Giovanni Sebastiano Sala ha un colore affascinante, più corposo e brunito di quanto si sia soliti ascoltare in questo repertorio, ha buon volume e musicalità, ma soffre di qualche tensione sul passaggio e nei primi acuti. Nell’Aura amorosa non lo aiuta certo Caetani, che stacca l’Andante cantabile con un eccesso di intransigenza che spezza i fiati del tenore.
L’anello debole della compagnia è Abramo Rosalen, il quale fatica a piegare il suo vocione torrenziale alla scrittura di Alfonso, sia nel canto, sia nei recitativi, che riescono tendenzialmente piatti e troppo “parlati”.

È sempre all’altezza il Coro del Verdi, preparato da Francesca Tosi.

Buon successo a fine spettacolo.

Paolo Locatelli
© Riproduzione riservata


Il Mozart di Regula Mühlemann e Umberto Benedetti Michelangeli

Ha una bella voce di soprano lirico leggero Regula Mühlemann, che guadagna smalto e proiezione man mano che sale verso l’acuto. Cristallina, omogenea e rotonda nell’ottava superiore – ancora un po’ vuota in basso, ma col tempo si farà – quella della Mühlemann è una vocalità che si sposa bene con la scrittura mozartiana. La qual cosa significa che ha quel legato “da violino” necessario per mantenere la linea nelle lunghe arcate melodiche, sempre così fragili in Mozart, ha ottime agilità (in certi punti leggermente scivolose, ma sono inezie) e sa dosare la dinamica dal piano al forte senza fratture. Certo si parla di una voce ancora giovane, non solo per spessore ma anche per maturità tecnica, e che quindi qua e là perde un po’ di sostegno del fiato o trascura qualche dettaglio, ma che potenzialmente possiede tutto quel che serve per fare una carriera importante. Non è un caso che Sony e Deutsche Grammophon abbiano deciso di scommettere su di lei. C’è poi nella sua freschezza adolescenziale una pressoché totale assenza di vezzi o manierismi, che guasterebbero la spontaneità di un canto tanto limpido.

Foto Shirley Suarez Padilla 
È anche bellissima a vedersi Regula Mühlemann, il che non guasta affatto. L’ha potuto apprezzare il pubblico del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, dove il soprano ha proposto un centone del suo recital di arie mozartiane inciso un paio d’anni fa proprio per Sony.

Se nell’Exsultate Jubilate parte cauta, o forse semplicemente fredda, e trascura qualcosa in termini di accentazione e varietà di sfumature, già nell’esecuzione di Ah, lo previdi!… Ah, t’invola… Deh, non vacar ecco che spuntano quel temperamento e quella capacità di dominare il fraseggio che parevano inizialmente mancare. In questa grande scena, tratta dal terz’atto dell’Andromeda di Vittorio Amedeo Cigna-Santi, Mozart è, se non spietato, estremamente esigente con la voce, sia per l’impegno tecnico richiesto, sia per la sostanza fortemente teatrale del brano, che sollecita un canto che non può limitarsi all’esecuzione delle note, sia pur precisissima. È insomma un bignamino di scrittura vocale, che spazia dal declamato furoreggiante del recitativo iniziale al lirismo spianato delle delicatissime linee della sezione finale, e Regula Mühlemann dimostra di dominare questo ventaglio tecnico-espressivo in tutta la sua ampiezza.

L’aria da concerto Ah se in ciel, benigne stelle è un banco di prova per fuoriclasse e la Mühlemann ne esce a testa alta, con tutta la fluidità della coloratura necessaria e la giusta morbidezza negli sbalzi di registro. E se in qualche frase arriva a pelo con il fiato, sa mascherarlo benissimo.

Umberto Benedetti Michelangeli che, dal podio della Kammerorchester Basel, ha accompagnato il soprano, tra un’aria e quell’altra si è concesso – e ha concesso al pubblico – il lusso di eseguire due sinfonie mozartiane, la 34 in do maggiore e la 36 KV 425 “Linz”. L’approccio è quello storicamente informato, quindi organico stringato, rinuncia totale all’edonismo (e con esso a certi eccessi di vibrato e legato), articolazione netta e spigolosa, tempi tendenzialmente spediti. Chiaramente gli strumenti espressivi si riducono al cesello su dinamiche, accentazione e fraseggi, poiché l’impostazione stessa delle sonorità limita di molto le possibilità di giocare sui colori, il che funziona benissimo soprattutto nei movimenti più accesi, che riescono tesi e infuocati.

La Kammerorchester Basel è limpida e scattante, sbava qualcosa tra gli archi nei passaggi più frenetici, ma è sorprendentemente pulitissima nei fiati (corni naturali così irreprensibili sono merce rara).

Buona l’accoglienza del pubblico a fine concerto.


18 aprile 2018

Edward Gardner e Viktoria Mullova al Giovanni da Udine

Probabilmente il nome suonerà sconosciuto ai più, ma la Bergen Philharmonic Orchestra è tutt’altro che una formazione di seconda fascia. Scattante, nitida, tipicamente nordica per limpidezza e luminosità del colore, la Filarmonica norvegese è l’archetipo dell’orchestra di scuola scandinava – quella dei Göteborgs Symfoniker, della Swedish Radio Symphony Orchestra, della Filarmonica di Oslo, per intendersi – che non confonde mai la chiarezza con la secchezza, né la leggerezza con l’inconsistenza. Un’orchestra più votata alla trasparenza che alla compattezza, sia per la qualità del suono, che permette rotondità ed equilibrio in ogni gradazione dinamica, sia per la natura stessa della sua pasta, la cui tavolozza timbrica esplora mille gradazioni di colori freddi.


Caratteristiche che si sposano a meraviglia con la freschezza del suo direttore principale Edward Gardner, musicista analitico e antiretorico, capace di sfruttare e incoraggiare la prodigiosa malleabilità dinamica dell’orchestra e che si prestano altrettanto bene a sostenere il violino di Viktoria Mullova. L’artista russa ha infatti un suono tendenzialmente piccolo e penetrante, intrinsecamente bello, che forse soffrirebbe un accompagnamento più denso, almeno nella grande sala del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, ma che invece può svilupparsi in tutto il suo raffinato intimismo sul cuscino delicato dei filarmonici di Bergen. Il Sibelius del Concerto op. 47 per violino e orchestra è, nelle mani della Mullova, elegante e flessibile, impeccabile nel virtuosismo (la sinistra è agilissima) e nell’intonazione, ma soprattutto improntato a un’espressività asciutta e pudica. Non stupisce affatto il successo clamoroso che le tributa il pubblico.

I brani dedicati alla sola orchestra, oltre a mettere completamente in luce le sue qualità, dicono molto di Edward Gardner, il quale non è solo direttore dal gesto nobile e dalla solida tecnica, ma possiede almeno altri due pregi che ne qualificano la statura. Il primo è la capacità di dare coesione e coerenza narrativa a quanto dirige, lo si apprezza forse ancora più nella Sinfonia n. 5 op. 82 dello stesso Sibelius – tesa e montante, che culmina in un terzo movimento staccato rapido ma pervaso da una grande cantabilità – che nell’Ouverture-fantasia Romeo e Giulietta di Čajkovskij. Il secondo asso nascosto nella manica del direttore inglese è una propensione al dettaglio, sia nello sviluppo delle singole linee, sia nei rapporti interni tra sezioni o singoli strumenti, che non tradisce mai velleità di calligrafismo.

La sintesi è un perfetto equilibrio tra intensità del discorso musicale e perfezione strumentale, che per di più si giova dell’idiomaticità timbrica della Filarmonica di Bergen per il repertorio in programma.

Non sorprende che il pubblico udinese, che pur è abituato a compagini di primissimo livello, saluti trionfalmente orchestra e direttore a fine concerto.

3 aprile 2018

Vladimir Jurowski, Lisa Batiashvili e la GMJO in concerto a Pordenone

La Gustav Mahler Jugendorchester di Vladimir Jurowski è come Violetta nella mitologia loggionistica: ha tre voci. Un vocione grosso per il Lutoslawski della Sinfonia n.1, un colore pastoso e lussureggiante per Szymanowski e infine una trasparenza vagamente ambrata per un Debussy che è sì vaporoso e flessibile, ma senza certa lascivia di maniera. E tutto ciò sebbene l’orchestra, che torna a Pordenone dopo la residenza estiva e la doppia inaugurazione di stagione, abbia un’identità timbrica definita e riconoscibile, che resiste al passare degli anni e ai rinnovamenti di organico. D’altronde il grande direttore è quello che, tra le altre cose, riesce anche ad incidere sulla pasta di un’orchestra, plasmandola secondo le proprie intenzioni. Ma Vladimir Jurowski non è solo questo: è un concertatore di livello assoluto – e la compattezza degli archi, la quadratura musicale o la calibratura degli equilibri interni stanno lì a dimostrarlo – ma è anche un direttore “da podio”. Ciò significa che unisce alla grande tecnica un carisma che rende ogni gesto, sia pure il cenno più minuscolo, musicalmente determinante.

Foto Luca d'Agostino
E se Lutoslawski e Szymanowski danno la misura del Jurowski virtuoso, cui non sfugge una semicroma o un attacco, con Debussy si ha la certezza che l’interprete non sia da meno.

Perché le sue Images sono innanzitutto molto personali nel suono, che pare nascere da una sintesi perfetta tra un gusto nord europeo per la trasparenza e un calore prettamente russo, che scalpita ed emerge per animare gli incisi più lirici e cantabili. E poi, oltre alla cura per il colore, c’è un’elettricità serpeggiante che va di pari passo con la flessibilità dell’agogica (come stiracchia leggermente quelle terzine che aprono la Sevillana!) e che viene ulteriormente alimentata da certe sferzate nette all’articolazione, soprattutto quella degli archi.

Per il Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone la Gustav Mahler Jugendorchester è ormai l’orchestra di casa – e c’è da sperare che lo rimanga il più a lungo possibile, intanto è ufficiale che sarà sempre essa ad inaugurare la prossima stagione, accanto a Gautier Capuçon – e pare persino stucchevole aggiungere elogi agli elogi già spesi. C’è però una cosa che continua a sorprendere, concerto dopo concerto, forse persino più della perfezione strumentale, ed è quell’entusiasmo che si trasforma in energia e quindi ancora in generosità verso il pubblico, quell’impressione di assistere a peripezie sul vuoto senza rete di protezione. Ecco, i ragazzi della Mahler non danno mai l’idea di suonare per mestiere, o di adagiarsi su una routine di altissimo livello, ma ci mettono sempre tutto quello che hanno. Osano, rischiano, si spingono fino al limite estremo delle proprie possibilità, eppure, a dispetto di tutto ciò, pare che non sbaglino mai una nota.

Che poi si tratti di professionisti di primissimo livello lo si capisce ancora una volta da come si mangiano la scrittura arroventata della Prima sinfonia di Lutoslawski, che scivola via fluida e compatta come fosse repertorio del più banale. E anche qui Jurowski è capace di lanciare certe fiammate impressionanti, dimostrando un dominio dell’orchestra totale e una concentrazione che non scende mai sotto il livello di guardia.

Resta da dire del Concerto per violino e orchestra n.1 op. 35 di Karol Szymanowski, che è da manuale, né più, né meno. Innanzitutto per la classe di Lisa Batiashvili, al debutto nel brano e sul palco del Verdi, poi per la straordinaria qualità dell’intesa tra direttore e solista, i quali non danno mai l’impressione di andare l’uno a rimorchio dell’altra. E che il direttore non abbia intenzione di fare il comprimario lo si capisce da subito, perché già l’attacco del concerto è cosa da artista di razza.

La Batiashvili è una grande musicista e una musicista moderna. Ed è tale per la pulizia del gusto, per il nitore del suono (bello ma contenuto, senza eccessi di vibrato o un inspessimento artificioso dell’ampiezza di cavata) ma soprattutto per la spontaneità che sa dare al discorso musicale. Cosa che le riesce grazie alla qualità del legato, che non viene meno neanche nei passaggi di maggiore virtuosismo, e alla precisione musicale, soprattutto ritmica. La quale pare tener conto di un concetto che Alfred Brendel – presente in sala per ritirare il Premio Pordenone Musica – ha spiegato al pubblico pordenonese la sera precedente, durante una sorta di lezione concerto condivisa con il giovane (e bravo!) pianista Filippo Gorini: la percezione della libertà ritmica che ha un musicista mentre suona non coincide necessariamente con l’aspettativa del pubblico. Ed è proprio così, siano esse scelte interpretative o espedienti per aggiustare la scrittura alle mani, certe libertà nel plasmare il tempo possono risultare stridenti o incomprensibili a chi ascolta. Ma questo rischio non riguarda la Batiashvili, il cui virtuosismo morbido e liquido è, appunto, perfettamente incardinato nel ritmo e da lì non sgarra, eppure talmente controllato e spontaneo da allontanare ogni spettro di meccanicità.

Dopo due ore abbondanti di musica, è trionfo per tutti.

Recensione pubblicata su OperaClick