30 giugno 2015

Il Falstaff di Bauduin al Verdi di Trieste

Si dice che il Fastaff di Giuseppe Verdi sia opera da grandi direttori ancor prima che da grandi cantanti e, come in ogni luogo comune, un fondo di verità c’è. Non perché la partitura richieda doti di virtuoso fuori dal comune, benché la quadratura ritmica di certe pagine sia tutt’altro che scontata, quanto piuttosto per la complessità esegetica del disegno generale, la necessità di incastonare ogni dettaglio, e i dettagli nel Falstaff sono un’infinità, in una visione più ampia. Quando Verdi scrisse quest’opera aveva ottant’anni, una fama oceanica e niente da dimostrare a nessuno. Nella musica tutto ciò è lampante: ogni invenzione ritmica e cromatica serve esclusivamente il teatro, versi e musica sono pressoché inscindibili e l’azione ne scaturisce con una naturalezza più unica che rara. Si comprende quindi come il direttore debba saper valorizzare tale alchimia, resistendo alla tentazione di “suonarsi addosso”. 



José Miguel Pérez Sierra è un giovane maestro semisconosciuto che sta muovendo i primi passi nel teatro musicale; la sua prova nel Falstaff in scena al Teatro Verdi di Trieste lascia intravedere un musicista dotato di talento e, soprattutto, di intelligenza. L’intelligenza di chi sa capire il lavoro che sta affrontando e la contingenza in cui è chiamato a farlo: Pérez Sierra non mette alle corde l’orchestra con richieste implausibili, tutt’altro, sollecita una narrazione distesa, colma di buonsenso, ben calibrata nei volumi e nei colori. I musicisti rispondono offrendo una prova di buon livello e dimostrando, una volta in più, di appartenere ad una compagine di notevole qualità e duttilità. Altro merito da riconoscere al maestro è il rispetto per il dettato verdiano, ripulito da molti malvezzi tradizionali ed impreziosito da diverse idee originali.

La regia di Mariano Bauduin ha un pregio non indifferente: la vivacità. Lo spettacolo si rifà ad un modello di teatro antico in cui si ottiene molto da poco, le scene di Nicola Rubertelli (teli dipinti come fondali e pochi elementi sul palco) aiutano l’azione, rendendo lo svolgimento agile e brillante. Si potranno poi discutere talune scelte specifiche (Bardolfo che annuisce alle domande retoriche di Falstaff sull’onore è trovata tra le più fruste ed abusate) ma, nel complesso, lo spettacolo funziona.

Purtroppo l’esecuzione vocale si attesta su un livello decisamente meno soddisfacente; non convince il protagonista Alberto Mastromarino il quale, nonostante la discreta presenza scenica, pena non poco nel canto e nella tenuta ritmica della parte. Il resto del cast, fatta salva qualche eccezione (su tutti la Quickly della brava Giovanna Lanza), suscita più d’una riserva. Repliche fino al 5 luglio.

A Udine arriva la San Francisco Symphony Youth Orchestra

È un Mahler preso estremamente sul serio quello di Donato Cabrera: titanico, magniloquente, che si adagia in contemplazione quando le dinamiche si fanno leggere e i tempi sono distesi e s'infiamma nelle esplosioni orchestrali. Un Mahler celebrativo e pomposo che vola altissimo nelle intenzioni ma che, in fin dei conti, riesce a scavare poco a fondo nella poetica del compositore austriaco.


La lettura della Sinfonia n.5 in do diesis minore che il maestro americano porta al Teatro Nuovo Giovanni da Udine alla guida della San Francisco Symphony Youth Orchestra, orchestra giovanile non priva di qualità, si rivela un piacevole ascolto ma, con molta probabilità, non avrà incidenza alcuna sulla storia dell'interpretazione. È ormai molto difficile rinunciare, in Mahler, accanto alla grandiosità più esteriore dell'impianto, alle più sottili implicazioni, all'ironia, alle venature malinconiche, al coraggio di spingersi, in certi momenti, oltre i limiti del grottesco. D'altronde già Freud osservò quanto nella mente di Mahler, e quindi nella sua musica, tragedia e frivolo divertimento fossero inestricabilmente connessi. Cabrera si ferma all'esaltazione della macchina grandiosa costruita dal compositore, ricercando (e in gran parte dei casi ottenendo) un suono scintillante e luminoso e sublimando le pagine più liriche e distese con un sentimentalismo quasi ingenuo; l'Adagetto ad esempio, staccato con una lentezza tale da mettere in seria difficoltà i violoncelli, è assaporato con tale svenevolezza da risultare, in fin dei conti, stucchevole. Funzionano decisamente meglio la Parte I ed il Rondo-Finale cui, tutto sommato, giova la vibrante estroversione, molto “americana”, infusa dal podio.

L'orchestra, a dispetto dell'anagrafe dei musicisti, risponde molto bene, benissimo per quanto riguarda gli archi, mentre gli ottoni pasticciano in più di una occasione.

Non solo Mahler nel programma dell'orchestra statunitense: la prima parte di concerto, dopo una Pavane per orchestra in fa diesis minore op. 50 di Fauré non indimenticabile, vede protagonista il bravo Sergey Khachatryan impegnato nel Concerto in sol minore op.26 per violino e orchestra di Max Bruch. Il violinista è ottimo virtuoso dello strumento ed abile fraseggiatore, controlla prodigiosamente le dinamiche (tutte le sfumature dei piani e pianissimi sono assai suggestive) mentre è meno vario e fantasioso in fatto di colori. L'orchestra lo sostiene correttamente pur eccedendo in pesantezza nei momenti di maggiore concitazione.

A fine concerto accoglienza festosa del pubblico in sala, premiato da due bis.

10 giugno 2015

Chung dirige la Staatskapelle Dresden

Ci voleva un'ottima ragione per convincermi a rinunciare alla finale di Champions League, che poi non è andata neppure benissimo. Ebbene una ragione l'ho trovata: a Udine Myung whun-Chung dirigeva la Staatskapelle Dresden, non serve aggiungere altro. Non è stato difficile decidere dove andare e, a conti fatti, la scelta è stata vincente.

La Staatskapelle Dresden è la classica orchestra di cui si sente dire che potrebbe permettersi di suonare senza direttore mantenendo comunque altissimo il valore dell'esecuzione; tali sono la perfezione strumentale e la qualità del suono espresse, che probabilmente è vero. Se però un maestro sul podio c'è, ed ha la classe e lo spessore di Myung-Whun Chung, l'esito del concerto appare quasi scontato. Nonostante già in partenza le aspettative per la prova dell'orchestra di Dresda al Teatro Nuovo Giovanni da Udine fossero molto alte, quello che si è ascoltato ha superato le più rosee previsioni. Avranno sicuramente giovato l'affiatamento che lega il direttore coreano all'orchestra, di cui è Direttore Ospite Principale o il fatto che il concerto, dopo tre repliche alla Semperoper ed una al Musikverein, fosse rodato alla perfezione, fatto sta che è molto raro ascoltare, soprattutto in Italia, un'esibizione sinfonica di tale pregio esecutivo e compiutezza.

Myung-Whun Chung si conferma, ad ogni ascolto, musicista tra i più interessanti in circolazione. Il direttore pare aver raggiunto la maturità artistica di chi scava nella musica ricercandovi l'essenziale, scansando qualsiasi cedimento alla retorica. Lo dimostrano la fluidità e la mobilità ritmica che sa trarre dall'orchestra, la rinuncia ad ogni enfasi o sottolineatura, il gesto minimale e pulito: la musica che ne scaturisce pare illuminata da pennellate, sgorga con tale naturalezza da lasciare incantati.

Brillantissima l'esecuzione della Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 36 di Beethoven dove l'organico ridotto, se, com'è giusto che sia, alleggerisce il peso orchestrale, nulla sacrifica in pienezza e splendore del suono. Ogni inciso è timbricamente differenziato, i violini primi esibiscono un colore completamente diverso dai secondi, i legni sfoggiano una pastosità rara a sentirsi. L'introduzione felpata e misteriosa pare richiamare le atmosfere del Franco Cacciatore di Weber, poi, via via, la sinfonia prende vita, culminando in un Allegro molto tellurico negli accenti e nella vivacità dei tempi adottati, acceso da scarti dinamici brucianti.

Nella Sinfonia n. 4 in sol maggiore "La vita celestiale" di Gustav Mahler Chung sa trovare un equilibrio squisito tra la minuziosità dell'analisi armonica e contrappuntistica della partitura e la fluidità dello svolgimento. L'assoluta trasparenza della trama orchestrale non solo lascia scorgere ogni singola nota del più recondito inciso, ma ciò che più colpisce è la caleidoscopica ricchezza di tinte cui ogni strumento è sollecitato. A momenti si ha l'impressione che i musicisti sul palco si moltiplichino, tale è la gamma di colori che riescono ad esprimere. Non che il lavoro del maestro si limiti ad un esercizio di vivisezione della partitura, tutt'altro: l'interpretazione di Chung vive di sottilissime inflessioni ritmiche che, senza indugiare in rallentandi o accelerazioni eclatanti, infondono alla musica una vitalità pulsante. Non c'è un momento in cui la partitura risulti solfeggiata o rigidamente scandita, tutto scorre senza cedimenti o forzature, in un fluire continuo. La trasparenza della concertazione ha inoltre il merito di sottrarre la musica mahleriana all'enfasi elefantiaca di cui spesso cade vittima, portando la sinfonia ad una dimensione che forse è eccessivo definire intimistica ma che senz'altro è caratterizzata da una mirabile attenzione al dettaglio ed agli equilibri. Convincente il soprano Sophie Karthäuser nel Lied che conclude la sinfonia.

Trionfale l'accoglienza del pubblico a fine concerto.