29 marzo 2015

Chi pensa alla musica?

Ha fatto molto scalpore, nei giorni scorsi, la lettera indirizzata dal padre di una giovane musicista al premier Renzi. La ragazza, membro della “JuniOrchestra” dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, “è tornata a casa in lacrime umiliata e mortificata dalla totale assenza di attenzione da parte del pubblico” dopo aver suonato all'evento "La scuola che cambia, cambia l'Italia". Pubblico in cui presenziavano, tra gli altri, il Presidente del Consiglio e il ministro dell'istruzione Giannini.
La registrazione video dell'evento è francamente imbarazzante e sarebbe opportuno che i protagonisti se ne assumessero la responsabilità, scusandosi pubblicamente con gli allievi dell'accademia romana.
L'episodio, al di là della mancanza di sensibilità degli interessati che li qualifica agli occhi dell'opinione pubblica, è sintomatico dello stato in cui versa la musica “colta” in Italia – e non è che la musica leggera se la passi meglio. Il disinteresse e la trivialità con cui il concerto è stato subìto - non direi accolto – dimostrano ancora una volta la totale estraneità del linguaggio musicale ad una fetta largamente maggioritaria degli italiani. Né sarebbe onesto gettare la croce sulla sola classe politica che, sia chiaro, è tutt'altro che esente da colpe, ma che rappresenta al più alto grado i vizi del paese.
Il problema di fondo è la profonda ignoranza degli italiani in fatto di musica, da Renzi in giù. Ignoranza intesa come mancanza degli strumenti culturali necessari a comprendere, e quindi apprezzare, un linguaggio tanto complesso, ad individuarne coordinate storiche ed estetiche. D'altronde la musica non viene insegnata nelle scuole, i teatri sono spesso semivuoti, i giornali se ne curano il minimo indispensabile. Sorprende relativamente poco che un pubblico con un simile background culturale fatichi ad andare più in là di Sanremo.
Il fatto stesso che, in occasione dell'episodio incriminato, l'orchestra fosse relegata a termine della conferenza, quasi a fungere da sigla di chiusura per non fare uscire il corteo in un imbarazzante silenzio, è emblematico in tal senso. Che si tratti di Beethoven o Tchaikovsky come in questo caso, di Allevi, Bocelli o Mozart - con tutte le differenze caso per caso – per l'italiano medio la musica rappresenta un gradevole sottofondo a faccende più importanti. Il pubblico italiano non è capace di ascoltare perché non è abituato ad ascoltare. Allo stesso modo i politici italiani non sono capaci di ascoltare. Parrebbe la perfetta, beffarda metafora di un paese in cui ciascuno crede di avere qualcosa di interessante da dire ed il diritto di essere badato, non il dovere di fare altrettanto.
Di fronte ai proclami tonitruanti di chi elogia il ruolo centrale della cultura nel nostro paese, salvo poi voltare le spalle ad un'orchestra di giovani musicisti, sorge spontanea una riflessione su quale dovrebbe essere il ruolo reale dell'istruzione, musicale ma non solo. Se c'è una cosa che la musica, il teatro - solo per rimanere agli ambiti più frequentati da OperaClick – insegnano, questa è l'ascolto: ascolto inteso come primo fondamentale stimolo alla riflessione, al confronto. L'istruzione che Renzi giustamente elogia è fondamentale proprio per creare nei cittadini un attitudine illuministica e dialogica al pensiero, nel pieno rispetto dell'interlocutore. Proprio quello che il premier, in questo caso, non è stato capace di fare.

Francesco Piemontesi in recital al Giovanni da Udine

Ascoltando la Kreisleriana (Otto fantasie per pianoforte, op. 16) di Robert Schumann mi chiedevo quale debba essere l'approccio di un musicista ad un simile lavoro, se sia più giusto leggerla alla propria maniera o cercare nella pagina un autoritratto del compositore. È noto che Schumann sentisse molto vicino quel Johannes Kreisler, geniale e pazzoide musicista creato dalla fantasia di E.T.A. Hoffmann, che ispira il lavoro; egli stesso ebbe modo di ribadirlo in più d'un occasione. Non solo, la dedica ufficiale all'amico Chopin e quella ufficiosa a Clara rendono ancor più stretta la vicinanza dell'opera all'intimità di Schumann, senza considerare che, a posteriori, non mancano analogie tra il carattere “bipolare” della Kreisleriana ed il fragile equilibrio psichico che segnò la vita del musicista.

Credo che un interprete, scegliendo di confrontarsi con un tale pilastro della letteratura pianistica, sia tenuto a porsi simili interrogativi, magari trovando risposte radicalmente distanti o discutibili negli esiti, ma comunque meditate.

Quello che Francesco Piemontesi, pianista svizzero poco più che trentenne, ha offerto al suo esordio sul palco del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, è stato un buon esercizio di calligrafia pianistica fine a se stessa. Un suono pulito e levigato al servizio di un'unica idea stilistica e di poche idee interpretative. Schumann suonato allo stesso modo di Beethoven, Beethoven come Mendelssohn che a sua volta poco si distingueva da Scarlatti.

Piemontesi si dimostrava in possesso di ottima tecnica per quanto riguarda la pulizia del suono, fluidità e morbidezza del tocco e di notevole precisione ritmica, ma interprete ancora acerbo, massimamente in Schumann e Beethoven. Le dinamiche, pur cesellate con intelligenza, non trovavano il giusto sfogo nei forti né i pianissimi brillavano per delicatezza, la gamma di colori risultava stringatissima. Il fraseggio inamidato ed un'eccessiva prudenza nella caratterizzazione delle frasi toglievano molto ai brani in programma.

In fin dei conti la parte più convincente è stata quella iniziale: Scarlatti, risolto sostanzialmente come esercizio di forma, razionale e geometrico ma piacevole, e Mendelssohn i cui Lieder senza parole trovavano qualche ragione d'interesse nell'esecuzione sobria e cameristica di Piemontesi. La Sonata 31 di Beethoven naufragava in un adagio staccato con una lentezza che il pianista non ha saputo reggere, di Schumann si è già accennato: gli otto pezzi omogeneizzati nel carattere e nei colori perdevano di significato e forza.

Cortese ma tiepida l'accoglienza del pubblico udinese.

28 marzo 2015

Gran Partita

La Serenata in Si bemolle maggiore K 361 “Gran Partita”, oltre ad essere uno dei più fulgidi esempi della fertilità creativa e del genio mozartiano, è da sempre avvolta in un alone di mistero e chiacchiericcio che, sin dalla discussa genesi, ne accresce il fascino. Ad oggi risultano sconosciuti sia l'epoca esatta di composizione, verosimilmente i primi anni ottanta del Settecento, sia la destinazione (Georg Nikolaus von Nissen sostiene fosse stata scritta come dono di nozze per la moglie Constanze); la stessa annotazione “Gran Partita”, rintracciabile in partitura, è sicuramente apocrifa. Più di recente, l'elogio dell'Adagio (terzo movimento) che Peter Shaffer mette in bocca a Salieri nel suo dramma teatrale Amadeus – poi ripreso dal celebre film di Forman – ha rinvigorito l'interesse per questo lavoro presso il grande pubblico, ergendolo ad esempio del magistero compositivo di Mozart.

Al di là di tali considerazioni, che riguardano il costume piuttosto che l'arte, è innegabile che la Serenata Gran Partita - assieme alle Serenate K 375 e K 388 - sia una tappa imprescindibile nell'evoluzione del linguaggio musicale per quanto riguarda questo specifico repertorio, sia per il pregio assoluto della composizione, sia per le novità che introdusse per i complessi a fiato: ampliamento dell'organico, espansione della durata complessiva e dei singoli movimenti.

Nella foltissima e variegata offerta musicale del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, il concerto interamente mozartiano de La Rinnovata Accademia dei Generosi, affiancata dal prestigioso corno di Guido Corti e dal pianista Alexandar Madžar, ha reso un degno tributo al compositore salisburghese.

Una convincente esecuzione del Quintetto per pianoforte e fiati K 452 apriva il concerto: sul tessuto delicato e trasparente ordito da Madžar si muovevano con sensibilità e cognizione stilistica i solisti dell'accademia (notevole c'è parsa, su tutte, la prova dell'oboe) e Corti, capace di trarre dal corno sonorità dolcissime, con dinamiche impalpabili.

Buona anche la prova offerta nella Serenata in Si bemolle maggiore K 361; accanto al nitore timbrico dei tredici strumenti sul palcoscenico, ammirevoli per equilibrio e pulizia, si è tuttavia avvertita la mancanza di un più sentito abbandono alla cantabilità, principalmente nei movimenti lirici (Adagio e Romanza). Convincevano completamente i passaggi brillanti, in particolare il sesto movimento (Tema e variazioni. Andantino) veniva risolto con sorprendente ricchezza di sfumature. Eccellente l'esecuzione strumentale, al di là di qualche minima imperfezione dei corni.

24 marzo 2015

Alceste di Gluck al Teatro La Fenice di Venezia

Per chi crede che non esista un teatro passato distinto da quello presente, dal momento che ogni forma d’arte che necessita di uscire dalle pagine di un testo per prendere vita nasce nel momento in cui la si esprime, diventando immediatamente quanto di più attuale ed urgente possibile, uno spettacolo che non si sforzi di comprendere e narrare la contemporaneità diviene un esercizio di archeologia, tuttalpiù uno studio sulla filologia della rappresentazione. Euripide, nell’Alcesti ma non solo, cercava su tutte una cosa: la riflessione, la creazione di un dibattito. Il suo teatro chiede al pubblico uno sforzo intellettuale, l’immedesimazione nei protagonisti per analizzarne le problematiche. È evidente che ogni spettatore, relativamente al contesto storico e culturale, abbia un proprio modo di approcciare a tale sfida, mezzi diversi per comprendere sfumature e sottintesi; tali strumenti sono estremamente mutevoli, soprattutto in un epoca tanto avida di novità e ricca di possibilità come quella attuale. Il sacrificio di Alcesti (o Alceste) rimane immutato nei secoli come resta invariato il dubbio circa la liceità dell’accettazione di tale sacrificio da parte di Admeto, quello che cambia è la predisposizione di chi assiste al loro dramma e suo il modo di fare proprie queste problematiche.



Passando da Euripide a Gluck queste considerazioni non perdono validità, tutt’altro, considerando che in ambito operistico negli ultimi decenni sono stati fatti passi da gigante, soprattutto sul versante registico. Se allestendo Alceste, opera del 1767, si sceglie di congelare l’azione in un’esaltazione neoclassica della bellezza formale in quanto tale, ripulendola di ogni macchia umana, sublimando le passioni in pose da teatro antico, esaltando la luce dell’illuminismo a danno delle ombre e dei tormenti più sordi e dolenti, il pubblico potrà farsi un’idea più o meno chiara di cosa Alceste rappresentasse nel contesto in cui nacque, difficilmente ne coglierà la forza ancora pulsante. Che poi Pier Luigi Pizzi sia un nume tutelare della regia operistica è fuori di discussione, che il suo teatro sempre uguale a se stesso possa apparire oggi manierato e fuori tempo massimo è più che un dubbio. 

L’Alceste in scena al Teatro La Fenice di Venezia potrebbe essere considerato una summa dell’estetica pizziana: staticità, geometrie canoviane, pulizia formale assoluta. E fin qui ogni obiezione rientra nel gusto personale, essendo questa una tipologia di teatro con una gloriosa storia alle spalle e non poche ragioni di interesse. I problemi riguardano tutto ciò che manca, che è parecchio, a cominciare dalla recitazione, minima nei singoli, pressoché assente nel coro. Il luminoso candore di scene e costumi colpisce per piacevolezza estetica ed è estremamente funzionale all’impostazione generale ma esalta il rigore e la freddezza del tutto.

Carmela Remigio, Alceste, si danna l’anima per frangere questa barriera di immobilismo, scavando a fondo nelle proprie risorse d’artista, che non sono poche. Il soprano si impone per la sensibilità d’interprete e la cura per l’espressività che siamo abituati a riconoscerle; la voce non è onnipotente e stenta ad imporsi nell’ottava grave ma è ottimamente piegata in un canto vario e sfumato. Fatica invece Marlin Miller, Admeto con buone idee ma dall’intonazione non sempre a fuoco e spesso affaticato nell’emissione. Molto positive le prove di Giorgio Misseri, Evandro dalla vocalità sicura e timbrata e Zuzana Marková, dolcissima Ismene. Completano degnamente il cast Ludovico Furlani (Eumelo), Anita Teodoro (Aspasia), Armando Gabba (banditore, Oracolo) e Vincenzo Nizzardo (Gran sacerdote d’Apollo e Apollo). 

Eccellente la prova del coro preparato da Claudio Marino Moretti per bellezza dell’amalgama e varietà di colori.

Sul podio dell’ottima orchestra della Fenice Guillaume Tourniaire sa trovare sonorità limpide, chiedendo ai musicisti un approccio alla materia adeguatamente rispettoso della prassi esecutiva settecentesca, perfettamente aderente per pulizia e nitore al palcoscenico. La narrazione è scorrevole, il sostegno al palcoscenico impeccabile; manca un briciolo di fantasia nella cura dei tantissimi recitativi.

11 marzo 2015

Trevor Pinnock Trio

Nel momento in cui si organizza la stagione musicale di un teatro decentrato, o comunque privo di una grande disponibilità di risorse, l'originalità e la competenza nelle scelte diventano lo spartiacque tra il successo e l'insuccesso mentre altrove è possibile sopperire alla mancanza di idee con investimenti più costosi e sicuri. La direzione artistica del Verdi di Pordenone ha intrapreso, in tale materia, una linea molto chiara: esplorare repertori poco frequentati, almeno nel nostro paese, riservando particolare attenzione alla musica antica. Ovviamente ogni ambito musicale, soprattutto se poco noto, necessita di interpreti che siano in grado di valorizzarlo e convincere il pubblico della sua bontà ed in tal senso non possiamo che elogiare le proposte del teatro pordenonese, considerando la qualità ed il prestigio di molti degli specialisti che ne hanno calcato recentemente il palcoscenico.

Il concerto del Trevor Pinnock Trio, appuntamento in cartellone per la stagione cameristica, è un'ulteriore tappa in questo percorso di approfondimento del repertorio antico. Trevor Pinnock, clavicembalista e direttore d'orchestra, è una figura di indiscutibile grandezza nell'ambito della musica antica e, alla prova dei fatti, artista che unisce alla cultura musicale e tecnica un'intelligenza fuori dal comune. Lo dimostrano il suo approccio alla materia e la capacità nel mediare tra le conquiste della filologia ed il gusto moderno: bellezza e rotondità del suono, nonostante gli strumenti antichi, uso moderato del vibrato negli archi, chiarezza dell'esposizione senza scadere nell'accademismo. Due ottimi musicisti completano la formazione: Matthew Truscott (violino) e Jonathan Manson (viola da gamba).

Colpisce molto l'affiatamento dei tre solisti, la reciproca conoscenza è più che evidente così come lampante è la complementarietà delle personalità artistiche: Pinnock ha un approccio alla musica apollineo, estremamente limpido ed elegante, Manson viceversa pare più estroso nelle scelte cromatiche e nei fraseggi, Truscott inserisce una nota dionisiaca e virtuosistica all'insieme. L'esito complessivo del concerto supera di gran lunga la somma delle individualità, capaci di dialogare e fondersi tra loro con mirabile equilibrio nei lavori di Telemann, Rameau e Leclair in programma. Non c'è, nel Trevor Pinnock Trio, quell'approccio violento e rockettaro di molti specialisti della musica barocca, fatto di esasperazione dei contrasti dinamici e sonorità taglienti ma un gusto molto più levigato, un lavoro sulle sfumature, sulla trasparenza e sul controllo, a momenti forse fin troppo metronomico, dell'agogica. Le due sonate di Johann Sebastian Bach in particolare, Sonata n. 6 in Sol maggiore per violino e cembalo BWV 1019 e Sonata n. 1 in Sol maggiore per viola da gamba e cembalo BWV 1027, sono caratterizzate da un prodigioso rigore ritmico che consente di apprezzarne pienamente la scrittura contrappuntistica; ammirevole, nella seconda, la bellezza delle sonorità prodotte dalla viola da gamba di Manson.

Nel Lamento sopra la dolorosa perdita della Real Maestà di Ferdinando IV - dalla Suite XII in Do maggiore per cembalo di Johann Jakob Froberger Pinnock riesce a trovare un'intensità espressiva per nulla esteriore, lavorando sulla delicatezza del tocco e sulla purezza del suono. Il solo brano di apertura, la Sonata op.1 n. 6 in re minore per violino, viola da gamba e continuo BuxWV 257 di Dietrich Buxtehude, evidenzia qualche minima imprecisione di intonazione e qualche secchezza di troppo. Travolgente, tra i bis, l'esecuzione di Tambourin di Rameau.

Ottima l'accoglienza del pubblico che ha lungamente applaudito i tre musicisti.

8 marzo 2015

Ancora Traviata al Teatro La Fenice

Ancora una volta è il turno della Traviata di Carsen al Teatro La Fenice. Ormai l'ho vista mille volte e ne ho già scritto qui, qui e sicuramente anche da qualche altra parte.

Questa volta tocca a Francesca Dotto Vestire i panni di Violetta Valery mentra sul podio c'è Omer Meir Wellber


Invecchia bene la Traviata di Robert Carsen, spettacolo nato nel 2004 e da allora entrato nel repertorio del Teatro La Fenice. La direzione artistica, giustamente, non esita a metterla in cartellone se c'è occasione di fare bottino, a maggior ragione sotto carnevale quando gettare un amo tra i turisti può fruttare una pesca miracolosa. Tanto più che, con un cast all'altezza ed un maestro con buone idee, la ripresa si rivela ben più interessante della semplice routine.

Lo spettacolo, già recensito su queste pagine più volte, si giova di un'ambientazione contemporanea per offrire al pubblico “un'esperienza di prima mano”, usando parole di Carsen stesso. La società che il regista canadese racconta è volgare e cinica, i rapporti tra individui sono vincolati a logiche di mercato, il denaro onnipresente rappresenta l'unico strumento di relazione. Ad ogni ripresa sorprende la cura per la recitazione di solisti, coro e comparse: lo spettacolo ormai funziona come un meccanismo ben oliato, il ritmo è sempre alto, i movimenti fluidi; aiuta la consuetudine di gran parte dei comprimari con l'allestimento.

Perfettamente aderente all'impostazione registica l'esecuzione musicale. La direzione di Omer Meir Wellber si impone per originalità ed approfondimento: un'esecuzione dettagliatissima che scova in partitura preziosismi e sottintesi che rimangono spesso nell'ombra, che lavora con cura certosina sulle dinamiche e sull'accentazione, diversificando ogni inciso. La gestione ritmica è estremamente mobile ed elastica, il suono compatto ma rispettoso del palcoscenico. Talora le scelte del podio sfiorano l'arbitrio in termini di agogica e fraseggio (il rilievo dato al dialogo tra oboe e violoncello nel duetto Ah, dite alla giovine, l'introduzione alla scena n.6 del secondo atto, il Preludio al terzo) tuttavia ogni intuizione esegetica supporta la narrazione, inserendosi in un disegno complessivo coerente e dalla grande efficacia teatrale. Ottima la prova dell'Orchestra del Teatro La Fenice per precisione e duttilità.

Francesca Dotto è una Violetta notevole per personalità e sicurezza e, cosa non scontata, un'artista che pensa ogni parola e gesto, dandovi l'opportuno significato. La voce, ancora esile, soffre in certi punti la scrittura verdiana in termini di volume, per il resto il canto è corretto ed elegante, l'intonazione impeccabile.

Convince meno Francesco Demuro, Alfredo dal bel timbro ma generico nel canto e spesso impreciso nell'intonazione.

Maiuscola la prova di Luca Salsi, Germont dal canto morbido e sorvegliato, attento ad ogni sfumatura dinamica ed espressiva richiesta dallo spartito. Di rado capita d'ascoltare l'aria del secondo atto cesellata con tanta dovizia, nel pieno rispetto di tutte le indicazioni dinamiche ed espressive.

Tutte all'altezza della situazione le parti minori, impeccabile il coro preparato da Claudio Marino Moretti.

A fine recita franco successo per tutta la compagnia con ovazioni per protagonista e direttore.

Orfeo ed Euridice di Gluck al Teatro Verdi di Trieste

Affrontare Gluck non è facile, Orfeo ed Euridice soprattutto. I confronti sono moltissimi e spesso ingombranti, il linguaggio musicale parecchio distante dalla sensibilità contemporanea. Riuscire a dire qualcosa di originale, o quantomeno convincente, in questo repertorio è sfida molto più insidiosa di quanto si possa pensare.

Lo spettacolo allestito dal Teatro Verdi di Trieste, terzo titolo in cartellone per la stagione di opera e balletto, probabilmente non aggiunge molto alla storia esecutiva del capolavoro di Gluck ma senz’altro presenta diversi motivi di interesse. Sicuramente tra questi c’è l’allestimento firmato da Giulio Ciabatti (regia), Aurelio Barbato (scene e costumi) e Claudio Schmid (luci). Uno spettacolo che, al di là della piacevolezza estetica, si adatta perfettamente alle forme dell’opera, rispettandone ed esaltandone il carattere classico ed apollineo. La recitazione è stilizzata ed essenziale ma curata e musicale, la modernità degli abiti ha il pregio di spostare l’asse della vicenda dalla mitologia all’umano, rafforzando l’empatia del pubblico verso quella che è innanzitutto una storia d’amore totalizzante.

Luci ed ombre sull’esecuzione musicale. Laura Polverelli, cantante che si è fatta apprezzare in più d’un occasione sul palco del Verdi, soffre molto la tessitura grave di Orfeo. La voce fatica ad imporsi e a trovare quella rotondità e quel velluto che consentirebbero di cesellare il canto con una maggior ricchezza di colori e sfumature. Compensano in parte la musicalità ed il gusto nel porgere ma, allo stato attuale, Orfeo non sembra calzare perfettamente alla vocalità del mezzosoprano.

Molto buona la prova di Cinzia Forte che risolve senza patemi la scrittura di Euridice con un canto morbido e partecipe. Corretta Milica Ilic nella breve parte di Amore.

Filippo Maria Bressan chiede all’orchestra del Verdi sonorità antiche, scelta filologicamente inappuntabile. L’organico è stringato, ridottissimi gli archi (che suonano secchi e senza vibrato), i sono timbri chiari ed aguzzi. Ne esce una direzione limpida e razionale che avrà deluso i cultori del sinfonismo e del bel suono ma che aderisce come un guanto all’impostazione registica. Qualche imprecisione si sente, d’altronde l’estrema trasparenza non perdona il minimo errore e la pur ottima orchestra è poco abituata a confrontarsi con questa specifica prassi esecutiva. Spiace il taglio di buona parte della musica dei balletti. 

Molto bene il coro preparato da Paolo Vero, assoluto protagonista dell’opera.

Pubblico cortese ma freddo.

Paolo Locatelli
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