23 maggio 2019

La vecchia Aida della Fenice

Applicare l'archeologia all'Aida fa per certi versi sorridere, ma alla Fenice ci hanno provato. Come? Riesumando dagli archivi uno spettacolo storico che ivi giaceva, come una bella addormentata, da una quarantina d'anni. Mario Ceroli ne firmò le scene nel 1978, che sono quelle che si vedono ancora oggi, mentre la regia era allora affidata a Mario Bolognini. Oggi la riprende Bepi Morassi ed è lecito pensare che non si discosti molto dal progetto originale. Innanzitutto perché lui allora c'era già, secondo perché quella che imbastisce è una regia a misura di spettacolo della grande tradizione, nell’accezione più lusinghiera del termine. Morassi non si limita a dirigere il traffico - cosa che, per inciso, fa molto bene, perché le masse si muovono alla perfezione e i solisti pure - ma concerta azione e recitazione con mestiere, senza colpi di genio ma nemmeno imbarazzi o cali di tensione.



L’Egitto di Ceroli, assolato e sfarzoso, esplora tutte le sfumature del rosso e dell’ocra. La scena è costantemente spezzata in due da un ponte che attraversa il palco nella sua larghezza e che consente di fatto di raddoppiare lo spazio a disposizione, così anche i momenti più affollati mantengono un’eleganza prospettica che scongiura sia l’horror vacui, sia il caos.

Il colpo d'occhio insomma riesce efficace anche quando sul palco si sommano comparse su comparse, coristi, solisti e musicisti. La bellezza forse non è una categoria che abbia di per sé una qualche significanza teatrale, ma questo è proprio uno spettacolo bello da vedere. Sono belle le scene, meravigliosi i costumi di Aldo Buti, le luci di Fabio Barettin sono pensate per esaltare ciò che passa sul palco. Va visto.

Funzionano assai bene le cose anche per quanto attiene all'esecuzione musicale, a partire dalla buca. Riccardo Frizza concerta e tiene il palco alla perfezione ma non si limita a questo. Dà tensione alla narrazione, soppesa tempi e dinamiche, è vario ma non calligrafico. Una Aida bella polposa la sua, che centra quell'equilibrio tra il trionfalismo dei passaggi più arrembanti - se c'è da suonare forte Frizza non si tira indietro, e fa bene - e i chiaroscuri più introspettivi dei drammi privati.

L'Orchestra della Fenice è in forma splendida e, fatta la tara di qualche minuscola sbavatura, suona piena e levigata, così come il Coro di Claudio Marino Moretti, che pare persino superarsi.

Positivo il debutto di Roberta Mantegna nella parte del titolo. Il timbro è peculiare e forse non benedetto: tendenzialmente chiaro rispetto al volume e tende a impoverirsi e stringersi negli estremi acuti. Però c’è molto altro. Un ottimo legato e controllo dei fiati ad esempio, musicalità impeccabile e, anche se con qualche rigidità ancora da sciogliere, consapevolezza e controllo della parola scenica.

Francesco Meli, Radames, ha uno strumento che pare diventare mese dopo mese sempre più ampio e tonante. Al solito canta molto bene e con timbro di invidiabile pregio, ma indugia in certi vezzi di iper-espressività di cui si farebbe volentieri a meno: certi sbalzi nelle dinamiche dal pianissimo al forte lasciano sempre un sentore dolciastro che impoverisce, anziché arricchire, un’interpretazione che sarebbe altrimenti maiuscola.

È una piacevolissima sorpresa l'Amneris di Irene Roberts che ha voce omogenea e sonora, ma soprattutto è artista a tutto tondo che recita e crea un personaggio in cui tutte la sfumature della principessa escono fuori, dal sadismo alla tenerezza, dalla frustrazione alla misericordia.

Roberto Frontali nella concitazione del palcoscenico eccede in qualche durezza, ma è e rimane un signor baritono. Gran voce e grande attore.

Non perfettamente a fuoco il Ramfis di Riccardo Zanellato, meno timbrato e sonoro di quel che ci si attenderebbe, mentre è al solito affidabile Mattia Denti, Re. Positivi gli interventi della Sacerdotessa di Rosanna Lo Greco e del Messaggero (che volume!) di Antonello Ceron.

Di qualità le coreografie che Giovanni Di Cicco realizza per il Nuovo Balletto di Toscana.

A fine recita è trionfo per tutti.

22 maggio 2019

Tradizione coi fichi secchi

All’opera c’è sempre un convitato di pietra: la tradizione. Cos’è la tradizione? L’insieme di ascolti, abitudini, interpretazioni che l’inerzia del tempo ha stratificato su un titolo. Spesso sono vizi deleteri, talvolta virtuosi, ma non si può fingere che non esistano. Andrea Chénier ad esempio è finita per diventare un’opera da grandi voci, giusto o sbagliato che sia poco importa, ormai è così. Il fatto che il lavoro di Giordano senza interpreti di grande personalità un poco zoppichi certo non aiuta.




Quando si pensa di mettere in scena un’opera bisogna decidere: o si provano strade nuove, il che richiede idee e coraggio, o si asseconda, appunto, la tradizione, ma per farlo servono i mezzi e le considerazioni necessari. Nello Chénier ad esempio le dimensioni contano. Volume, voci, fracasso, comparse, scene, tutto chiama un’eccessività smisurata, forse poco estetica ma di grande impatto. Uno Chénier di basso profilo, in termini di sfarzo, grandiosità, affollamento, gira a tre cilindri. Se poi i cantanti sono ordinari o poco più il tutto funziona ancora meno: si fanno spallucce e si passa oltre.

Kristian Benedikt, impegnato nel titol role al Verdi di Trieste, non canta né bene né male, ha una voce opaca ingarbugliata tra naso e gola (soprattutto gola) che squilla poco e fatica a imporsi su colleghi e orchestra e non è nemmeno interprete vario o fantasioso, benché ci provi. Insomma non si farà ricordare per niente di particolare, cosa che per buona fetta del repertorio potrebbe anche passare in secondo piano ma che qui non basta.

Peccato perché il resto del cast convince assai di più a partire da Svetla Vassileva che, pur con qualche durezza qua e là, è una Maddalena di personalità e varia nella dinamica (un esempio? il pp autentico che che fa su “proteggermi volete, spero in voi” è meraviglioso). Buono anche il Carlo Gérard ruvido ma tutt’altro che superficiale di Devid Cecconi, che ha voce possente ma anche certa propensione al chiaroscuro.

Così così le parti di fianco, tra cui piace sottolineare l’ottima, ma davvero ottima, prova di Saverio Pugliese che dà corpo e voce all’Incredibile e all’Abate, confermando, dopo il recente Goro, di essere un tenore caratterista di livello.

Alterna la Bersi di Albane Carrère, convincente la Contessa di Coigny di Anna Evtekhova, corretta la Madelon di Isabel De Paoli, molto positivi i contributi di Gianni Giuga (Pietro Fléville/Mathieu) e Giovanni Palumbo (Fouquier Tinville), così come reggono bene Giuliano Pelizon e Francesco Paccorini.



Fabrizio Maria Carminati è sempre una certezza. Tiene palco e orchestra in pugno, dosa volumi e tempi comme il faut, garantisce pulizia e bel suono. Mancherà forse il guizzo illuminante, è vero, ma è un’assenza tutt’altro che insopportabile anche se in quest’opera di Giordano un po’ di kitsch in più non darebbe fastidio. Benissimo l’orchestra di casa, bene il coro preparato da Francesca Tosi.

Resta da dire di uno spettacolo su cui non c’è molto da dire. Onesta e rassicurante tradizione: fondali di tela, o qualcosa che ci assomiglia molto, costumi d’epoca (di Jesus Ruiz, belli), disegno luci timido, qualche videoproiezione che se non ci fosse stata sarebbe stato meglio. La scena (William Orlandi) è pressoché fissa, fatta eccezione per qualche orpello d’arredamento e per due pannelli mobili che la chiudono sul fondo, e riproduce un interno in stile classico molto stilizzato. Per il resto il lavoro di regia di Sarah Schinasi fa lo stretto necessario: muove diligentemente le masse e convenzionalmente i solisti, insomma va poco più in là della direzione del traffico.

Applausi scroscianti per tutti.

17 maggio 2019

Falstaff al Real

Più che un anziano allo sfascio, Roberto de Candia è un signore di mezza età che sta invecchiando male, un barbone sudicio che negli ultimi anni si è dimenticato di prendersi cura di sé. Non ha niente di nobile – eccezion fatta per la vocalità, perché de Candia sa cantare, eccome se sa cantare! – ma ha piuttosto l’aria del banditello di periferia, di quelli che passano le giornate nella bettola di quartiere a intrallazzare bische e furtarelli con gli sgherri, due bulletti in là con gli anni (impagabile il Pistola di Valeriano Lanchas, che ricorda vagamente il fumettaro dei Simpsons). Il suo è un piccolo mondo squallido in fondo, ma non è che quello dei ricchi Ford e Company sia meno avvilente, perché sì, cambiano le disponibilità, ma la grettezza morale piccolo borghese di chi gode nel bullizzare il vecchio John è pari se non superiore.



Insomma Laurent Pelly la vede più o meno così. Non inventa e non svela niente di nuovo, ma rispolvera la tradizione con il suo tocco personale, che è quello del regista di talento. Lo si vede da come “concerta” l’azione dei pezzi d’insieme, calibrando i movimenti sulla musica, o da come sa riempire tempi e palco pur senza eccedere nella misura. Volete capire se un regista ci sa fare o è un impostore? Ebbene, guardate come manovra il coro: quello che Pelly fa fare all’esercito dei coloni del Signor Ford mentre mette a soqquadro la casa per scovare Falstaff è puro godimento, ogni gesto sfrutta un accento o una modulazione musicale e l‘azione diventa una danza sulla partitura di Verdi. Bellissimo.

Le scene di Barbara de Limburg sono semplici ma tutt’altro che banali. La Giarrettiera è un pub da bassifondi, di casa Ford si vede l’elegante ingresso con scalinata mentre la foresta non è altro che una distesa vuota e buia, con uno specchio sagomato a fronde sul fondale che amplifica spazi ed ombre. Sul finale questo muro avanza e, mentre le luci si accendono, riflette sul palco il pubblico in sala. Quelli gabbati siamo tutti noi insomma.



Il cast è l’ideale per mettere insieme un Fastaff di livello: omogeneo e ben equilibrato, formato da cantanti affidabili che sanno essere ancor prima attori. Roberto de Candia è protagonista e mattatore della serata. Nonostante Pelly spinga le sue idee un poco oltre, quello di de Candia rimane un Falstaff fondamentalmente buono. Ci prova a fare la voce grossa, a suonare minaccioso, ma la sua indole sorridente e bonaria balza fuori inesorabilmente. Il che non significa affatto che gli difettino quelle ombrature malinconiche e amare che il personaggio esige, ci sono eccome, ma alla fine emerge sempre un’ottimistica bonomia di fondo. Del canto si è già fatto cenno. Detto in estrema sintesi: oggi è difficile ascoltare un Falstaff cantato così bene. Intonazione e musicalità sempre perfette, voce (chiara sì, dai tratti quasi Martin) timbrata e morbida, cesello di ogni parola, colori su colori. Una grande interpretazione.

Non si può apprezzare con altrettanto entusiasmo la prova di Simone Piazzola, Ford, che rispetto a qualche anno fa è molto più attore ma, almeno in questo periodo, meno cantante. Il che ha dei lati indubbiamente positivi: Piazzola pensa più al personaggio e meno alla voce, che tuttavia pare aver smarrito quello smalto che gli si ricordava.
La Alice di Rebecca Evans si mangia il palco e, in fondo, anche la scrittura tutt'altro che impossibile della parte. Meravigliosa la Nannetta di Ruth Iniesta che è eccellente attrice e cantante al pari grado: la voce è limpida e omogenea, i fiati comodissimi ma soprattutto (finalmente!) si ammira un’artista che emancipa la figlia dei Ford dallo stereotipo dell'adolescente santarellina, mettendoci una bella dose di malizia boccaccesca. Bene anche il Fenton di Joel Prieto che ha strumento ampio e di timbro assai gradevole ma che, a spaccare il capello in quattro, scivola in qualche nasalità di troppo e tira avanti sul tempo nella sua aria.

È una garanzia Daniela Barcellona, che pure non si limita al buon canto ma sa tratteggiare con simpatia una Quickly zitellona goffa con una certa inclinazione per l'alcol.
All’altezza Maite Beaumont, Meg, benissimo la coppia Bardolfo-Pistola: il primo è Mikeldi Atxalandabaso, un tenore squillante e spigliato, il secondo Valeriano Lanchas un basso tonante dalla faccia triste.
Convince un po' meno, pur senza demeritare, il Caius appannato di Christophe Mortagne.



Quanto a Daniele Rustioni, non si può certo dire che diriga male o che combini pasticci, tutt’altro, però Falstaff gli sta ancora largo. Non basta una direzione brillante e diligente per cogliere lo spirito dell’estremo capolavoro di Verdi, non bastano l’asciuttezza e l’entusiasmo. Certo la concertazione è buona, la tenuta ritmica (quasi) impeccabile, così come non sgarra mai il sostegno al palco, però il novanta percento di quel che si potrebbe strappare alla partitura rimane incastrato tra le pagine: colori, atmosfere, giochi, inflessioni, allusioni, invenzioni ritmiche o di articolazione e tutto il resto. In Falstaff c’è molto da cavare, è un'opera per musicisti vecchi e navigati e non si scappa. Come dice un grande direttore “Ci vuole tempo”, diamoglielo, non c’è fretta.

Meravigliosa la prova del Coro del Real preparato da Andrés Máspero che, oltre a cantare con una pienezza di pasta soggiogante, tiene il palco al meglio assecondando le invenzioni di Pelly.

Trionfo per tutti.

16 maggio 2019

Le invasioni transalpine

  Il teatro è friulano, Hugh Wolff parigino di nascita e statunitense di passaporto, la cittadinanza della Belgian National Orchestra è inequivocabile, il solista francese e il repertorio spazia dall’oltralpe alla Vallonia. Una diagonale collega idealmente Udine agli States a suon di musica, specificamente quella dell’Ottocento dell’estremo ovest europeo. Si finisce così a pensare, nel bel mezzo del concerto, a quanto sia germanocentrica la nostra concezione del repertorio e quanto rigidi i riferimenti estetici se si parla di sinfonismo romantico e tardoromantico. Di musica bella e, cosa ancor più importante, originale, se ne scriveva anche altrove, non di rado scovando percorsi differenti ma, forse, più veloci nell’anticipare il futuro. Quanti presagi del Novecento meno togato ci sono nel Concerto n. 2 in sol minore op. 22 per pianoforte e orchestra di Camille Saint-Saëns, ad esempio?



  Bertrand Chamayou al pianoforte pare un fanciullo invecchiato, dalle pose a mezza via tra il posh e l’imbranato e un tocco sull’avorio schioccante. Mano leggera e garbata, di quelle che accarezzano i tasti più che affondarci, suono morbido ma cristallino, tenuta ritmica e musicale a prova di bomba. Scivola sulla tastiera con elasticità, cavandoci un bel suono perlato ancorché avaro di colori. Il suo insomma è un pianismo, se non in bianco e nero, filtrato in seppia, il che non lo rende meno entusiasmante. È tecnicamente insolente, squadrato, brillante, ma un po' monocromo e poco incline alla sfumatura e alla sterzata improvvisa. D'altro canto sa rivelarsi per altri versi illuminante: lo swing che ci mette nel Secondo movimento trasforma Saint-Saëns in una sorta di patrigno di Gershwin, spalancando dei portali temporali che lasciano intravedere in un concerto datato 1868 squarci di Dvorak, di jazz, ma anche di musica leggera.

  Più ordinario il Chiaro di luna di Debussy (bis) che parte con buone idee espressive ma si perde un po’ per strada nella ricerca di una pennellata che non arriva. È comunque trionfo personale per lui.

  La Sinfonia in re minore di César Franck è moneta corrente per la Belgian National Orchestra e si sente. Bel suono – l'orchestra non è né troppo chiara, né troppo pastosa ma ha un pregevolissimo equilibrio tra smalto e pienezza – equilibri impeccabili, pur con qualche pieno orchestrale un po' troppo offuscato, sbavature ridotte all'osso ma anche poco coraggio. Niente sbalzi né sgambetti, niente salti nel vuoto, nessun cazzotto in faccia. Suonata molto diligentemente sì, ma solo suonata, forse anche ben spiegata, ma senza mai scavallare dall’ottima routine alla grandissima interpretazione.

  Non indimenticabile l’Ouverture op. 21 Le Corsaire di Hector Berlioz che scalda i motori. Principia con qualche sbandata dei legni ma va in crescendo, accumulando via via tensione narrativa.

  Poco importa, è trionfo per tutti tra battimani ritmati e richieste di bis.