22 dicembre 2018

Don Giovanni chiude l'era Mariotti a Bologna

Da Aix-en-Provence a Bologna il passo è più lungo di quanto sembri e c’è il rischio che qualcuno si perda per strada. Don Giovanni non si è proprio perso, ma è arrivato a destinazione affaticato e imbolsito. Anche perché in Francia Jean-François Sivadier costruì lo spettacolo sul carisma debordante e l’esuberanza fisica di Philippe Sly, che oltre ad essere bravissimo è bello come un dio. A Bologna invece c’è Simone Alberghini, che fra i tanti pregi non ha quell’energia straripante necessaria per catalizzare uno spettacolo simile. Che è uno spettacolo strano, va detto. Un gioco di sipari tra quinte e palcoscenico su cui si incrociano attori e personaggi, tecnici e donnine belle, confondendo e mischiando via via sempre più realtà e finzione, finché interprete e interpretato non diventano un tutt’uno. Però fra trucco e parrucco para-settecentesco e vita da “gente di teatro”, con alcolici e sostanze varie, spesso si perde l’orientamento e si rinuncia a seguire una drammaturgia contorta che puzza parecchio di esercizio di regia astratta. Regia che c’è ed è molto buona, anche perché l’hanno ripresa in tre: Rachid Zanouda, Federico Vazzola (che con Klara Cibulova e Cyprien Colombo è anche attore sulla scena) e Milan Otal.

Foto: Rocco Casaluci

Questo divertissement sul teatro in senso lato potrebbe funzionare, ad Aix lo si è visto, ma al Comunale qualcosa non gira. Un po’ perché, come detto, Alberghini è non ha quella verginità selvatica da Ecce Homo, un po’ perché anche gli altri non sembrano crederci fino in fondo.
Federica Lombardi ad esempio è bellissima nella sua maestosità giunonica e riempie la sala di suoni morbidi come il velluto, ma è il genere di cantante (almeno in questo caso) che tende più a sublimare l’azione che a incendiarla. Certo il suo Mozart è una meraviglia strumentale, soprattutto nell’aria del second’atto. Il buon Vito Priante canta con eleganza e varietà ma è un po’ troppo in odore di buffo per il contesto. Paolo Fanale è strepitoso nella prima aria, solo molto buono nella seconda, e dà un tono assai serioso a Don Ottavio. Salome Jicia ha temperamento, note e tutto quel che serve per rendersi un’ottima Elvira.
Bellissima sorpresa la Zerlina di Lavinia Bini (che legato e che accenti di malizia!), mentre Roberto Lorenzi è un Masetto solido ma non indimenticabile. Ha parecchia potenza ma non altrettanto controllo il Commendatore di Stefan Kocan.

Foto: Rocco Casaluci

In mezzo a tanto trambusto risplende la stella di Michele Mariotti, che fa un Mozart molto suo e poco alla maniera di oggi. Niente strepiti né furore, nessuna secchezza né alcuna esasperazione dei contrasti agogici e dinamici ma una raffinatezza olimpica che riesce a farsi teatro battuta dopo battuta, senza mai crogiolarsi nella contemplazione del bello fine a sé stesso. Un sacco di finezze d’articolazione, di accenti (Giovinette che fate all’amore ritmato a questo modo, ma senza frenesia, non lo si era mai sentito) e nessuna concessione all’edonismo.
Il 18 dicembre l’Orchestra del Comunale suona che è una meraviglia con gli archi in stato di grazia.
Trionfo.

Foto: Rocco Casaluci

5 dicembre 2018

Mariotti saluta Bologna da Pordenone

Che Michele Mariotti abbia personalità e talento da vendere è la scoperta dell’acqua calda. Però limitarsi a questo, per un musicista che all’alba dei quaranta può già guardarsi indietro e dire di avere fatto qualcosa di importante, è un po’ come fermarsi alla prima stazione. Mariotti non è più solo l’enfant prodige della musica italiana, ma un direttore che sta entrando nella maturità del suo percorso e che sembra pronto per il salto di qualità definitivo. Il che lo si può dedurre innanzitutto dalla padronanza tecnica del gesto e, di conseguenza, dell’orchestra, che gli sta in mano come i cavi delle marionette, pronta ad essere aggiustata con una rotazione del polso o la flessione di una falange. Anche perché davanti al podio c’è l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, che lo conosce alla perfezione e sa rispondere ad ogni suo motto sicura e scattante e modificare se stessa in corso d’opera, o di una singola frase, per assecondarlo. Che poi il pensiero che il concerto di cui si parla coincida con l’ultimo impegno sinfonico da guida stabile dei complessi del Bibiena mette addosso un certo magone.

Di certo gli anni bolognesi l’hanno formato, tant’è che oggi si ascolta un eccellente direttore ma anche un concertatore maturo: equilibri perfetti, scorrevolezza, controllo di bilanciamenti e dinamiche, attacchi millimetrici e tanta, tanta fluidità di esecuzione. Cosa manca ancora, o almeno cos’è mancato al suo debutto sul palco del Teatro Verdi di Pordenone? Un po’ di trasparenza delle sonorità, soprattutto nei momenti in cui l’orchestra alza il volume, che eccedono in pesantezza e ruvidità. Poca cosa, è pur sempre vero che l’orchestra bolognese non può certo considerarsi una vessillifera ideale di idiomaticità nel sinfonismo tardoromantico.

Però i motivi di interesse non mancano. Il Brahms della Sinfonia n. 3 in fa maggiore ad esempio gli riesce decisamente personale, nel senso che Mariotti sa svincolarlo dalla gloriosa tradizione mitteleuropea senza che lo sgrassamento delle sonorità e la freschezza lo asciughino al punto da renderlo un freddo cadavere. Ci sono tantissimi momenti pennellati con un lirismo quasi operistico o accesi da vampe incalzanti, e poi un sacco di idee, spunti e visioni da artista di razza. Qualche passaggio è un po’ affastellato, se non proprio confuso meno limpido di quanto se ne sentirebbe il bisogno, anche perché il virtuosismo che richiederebbe Mariotti nell’articolare certe misure va forse al di là delle possibilità dell’orchestra.

Il Nuovo Mondo di Antonin Dvořák gli viene ancora meglio – e quanto è difficile mantenere alto il livello della tensione in quest’opera! – grazie a una bella varietà di dinamiche e di dettagli, tanti colori, guizzi fiammanti, qualche gigionata col tempo un po’ troppo spudorata ed energia pulsante. Per il resto vale quanto detto in precedenza: cura, fantasia e tecnica a piena profusione. Infatti il pubblico esplode e non lo lascia più tornare a casa.

L’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna è morbida e precisa, fraseggia, accenta e sfuma seguendo il podio al minimo cenno, ma soffre di qualche eccesso di imbolsimento nei forti e di una cupezza troppo greve degli archi a pieno organico.

Trionfo vero e proprio a fine concerto.

3 dicembre 2018

La Seoul Philharmonic Orchestra a Udine

Dalla burrascosa uscita di scena di Myung-Whun Chung, la Seoul Philharmonic Orchestra è ancora alla ricerca di un direttore musicale. Sono passati tre anni e chi ci è andato più vicino è Thierry Fischer, che dalla scorsa stagione è direttore ospite. Dopo una prima vita da strumentista di prestigio (tra le altre cose, flauto principale alla Chamber Orchestra of Europe con Abbado e a Zurigo negli anni di Harnoncourt) Fischer si è buttato sulla direzione a tempo pieno, con esiti di rilievo principalmente tra America e Asia. A guardarlo di spalle il suo gesto ha qualcosa di bernsteiniano – difficile credere che non tenga a modello il grande musicista americano – e in fondo il paradigma sembrerebbe essere quello anche nella maniera di infondere calore e di defibrillare l’orchestra. Orchestra che è spettacolare. La Seoul Philharmonic può davvero guardare in faccia le compagini più blasonate senza nascondersi, perché oltre ad essere tecnicamente la più classica delle grandi orchestre asiatiche, quindi suono strutturato alla perfezione con prodigioso bilanciamento di corpo e trasparenza, è un organismo d’anima tutt’altro che gelida. Se la qualità degli archi tutto sommato sorprende relativamente, essendo merce non così rara, è soprattutto la pasta di legni e ottoni colpire l’attenzione: intrinsecamente belli, affiatati nel fondersi l’uno con l’altro e morbidissimi.



E poi la SPO è orchestra che sa mutare in corso d’opera e di concerto. Già Muak di Isang Yun che apre la serata sollecita il virtuosismo dei filarmonici e del concertatore. Flessibilità e fluidità nel dialogo tra le sezioni, precisione totale, equilibri centellinati al bilancino. C’è un momento, più o meno verso la metà del brano, in cui le arcate di primi e secondi violini si sollevano in controtempo, quasi ad accentuare la sensazione di un moto ondoso che è già nella musica, con una plasticità danzante da corpo di ballo; eccola la grande orchestra! La scrittura (1978) mescola suggestioni orientali alla musica occidentale storicizzata piuttosto che alle avanguardie più audaci, insomma pensa a Stravinskij e al primo Novecento e probabilmente non inventa niente di nuovo, ma è piacevole e sicuramente assai ben concepita.

La Seoul Philharmonic Orchestra sa anche accompagnare, fatto tutt’altro che banale. Nel Concerto n. 5 op. 73 in mi bemolle maggiore “Imperatore” per pianoforte e orchestra di Beethoven, Fischer la trasforma in un cuscino soffice e delicato su cui il virtuosismo iperbolico di Sunwook Kim ha modo di distendersi con tutto l’agio possibile. Coreano anch’esso, Kim fonde in sé la disciplina orientale con una sensibilità internazionale. Mani robotiche, un controllo del suono e del ritmo prodigioso in ogni dinamica, purezza cristallina del tocco (e il Fazioli gran coda F278 gli dà manforte: che smalto!). Ci si potrebbe attendere una freddezza marmorea, se non accademica, da un tale musicista. Niente di più sbagliato. Sunwook Kim è sì una perfetta macchina da note, ma è anche interprete raffinato e misuratissimo che non soffre l’accostamento ad un titolo monstre del repertorio, anzi, riesce ad entrarvi infondendovi una freschezza di respiro e di gusto attualissima.

Nella Symphonie fantastique op.14 di Berlioz invece si fa largo Fischer. È impressionante come il direttore imprima da subito alla sinfonia una tensione trasfigurante, al punto che dopo il primo movimento ci si chiede come potrebbe evolvere o reggere fino alla fine una tale carica dionisiaca. Invece Fischer non si ferma e non rallenta, ma racconta. Pesca un Valse pastorale ma non privo di certa ironia, si ritrae in una Scena Campestre notturna e soffusa e poi scatena la tempesta negli ultimi due movimenti, che riescono più festanti che deliranti.

Sull’orchestra c’è poco da aggiungere. Un’iridescenza e una varietà dinamica che esaltano la scrittura berlioziana al massimo grado.

Grande successo per tutti, meritatissimo.

30 novembre 2018

Macbeth inaugura la stagione del Teatro La Fenice

Non c'è dolore più grande della perdita di un figlio. Macbeth e sua moglie avevano una bambina da prima o seconda elementare, che è morta. Lui ha reagito chiudendosi in se stesso, lei con una rabbia che a buttarla fuori forse fa un po' meno male. Il problema è che una disgrazia del genere non si supera, non bastano i farmaci per mettere a tacere i fantasmi, anzi, il dolore si accumula giorno dopo giorno, frapponendo veli su veli tra la coppia e il mondo vero, sempre più distante e spettrale.

Foto Michele Crosera

E qui arriva il primo problema per Damiano Michieletto, regista del Macbeth che apre la stagione del Teatro La Fenice: quando si decide di ribaltare la drammaturgia di un'opera bisogna fare i conti con tutto quello che l'autore avrebbe previsto. Michieletto non si dimentica della trama, né la caccia sotto a un tappeto come si fa con la polvere, anzi, la porta avanti con coerenza quasi da tradizionalista, e l'effetto è straniante. Per i primi tre atti non si capisce da che parte guardi lo spettacolo e soprattutto dove voglia portare: sembra di assistere a due Macbeth cuciti insieme senza troppe ragioni per farlo, come in una sorta di macabra Arianna a Nasso. La drammaturgia si sdoppia in due rivoli che corrono separati, affiorando a fasi alterne o, di tanto in tanto, nello stesso momento, a cortocircuitare. Da una parte c'è la scalata al potere, un potere più astratto che immediatamente definibile, che pare avere qualcosa a che fare con l'affermazione di un ruolo nella società (c’è sì una corona che è un simbolone grande così, ma gli abiti di Carla Teti sono da 2018), dall'altra il dramma psicologico della coppia, che dalla stessa società va via via alienandosi. E chi è che inasprisce i tormenti di Macbeth e Signora, rigirando il coltello nella piaga? Ovviamente sono i bambini, quelli degli altri. I figli che loro non hanno più allargano il compasso che li separa dalla realtà, ogni pargoletto è un giro di vite. Questa frattura avviene a colpi di omicidi, che non paiono nemmeno tali, ma assomigliano piuttosto alla cancellazione, alla repulsione o alla dimenticanza. Il sangue dei morti è una crema che sa di bianchetto, i cadaveri vengono ingoiati da enormi teli di plastica (che sono, di fatto, il solo elemento costitutivo delle scene) quasi svanissero nella nebbia dell’oblio. La manomissione della drammaturgia non è che un pretesto per spostare la prospettiva sulla vicenda, che non è più esterna ma è quella dei due protagonisti. Quello che Michieletto vuole raccontare è il mondo visto con gli occhi dei Macbeth, che diventa sempre più indistinguibile, offuscato e infine delirante.

Foto Michele Crosera

I conti tornano proprio nell'ultimo atto, quando la frattura psicotica tra i coniugi e la realtà è ormai insanabile. Lei si perde in una foresta di altalene – Birnam, geniale! – lui trova la pace estrema per mano del solo che può capirlo, Macduff, quell’altro che ha subito un lutto paragonabile.

Al netto del lavoro sulla drammaturgia, che è incisivo e affascinante, ma che per convincere del tutto richiederebbe un briciolo di virtuosismo in più in certi passaggi non completamente risolti, resta il lavoro di regia vero e proprio, che Michieletto sa fare da padreterno. I solisti recitano tutti e tutti dal bene al benissimo, le masse sono manovrate plasticamente e sulla musica senza un’esitazione (anche per merito dei movimenti coreografici curati da Chiara Vecchi). Le luci di Fabio Barettin sono provvidenziali nel sostenere il racconto, esaltando l’azione e donando mutevolezza a un palco per lo più spoglio e gelido nelle tinte.

Paolo Fantin infatti, che ci ha abituati a scenografie colossali, in questo Macbeth sembra volersi defilare per lasciare il pallino del gioco tutto nelle mani del regista. Sul palco non c’è quasi niente: due pareti laterali di lampade al neon e una serie di sipari scorrevoli in plastica che dal fondo avanzano verso la platea. Nella seconda parte un sacco gigante di nylon bianco scende dal cielo e con esso qualche altalena, altro simbolo didascalico ma efficace. Ne nasce una sorta di limbo, un non luogo confuso tra realtà e allucinazioni, popolato da spettri del passato (le streghe e i figli morti), aloni del circostante e ricordi, tanti e dolorosi.

Foto Michele Crosera

Myung-Whun Chung è al suo debutto nel Macbeth e la cosa impressionante è che a tratti si ha la sensazione di ascoltare l'opera stessa per la prima volta. Mai gli anfratti sepolcrali della partitura, i gemiti, le ombre più inquietanti e i sussulti di terrore erano parsi tanto nitidi. Un Macbeth a tinte cupe se non cupissime, dalla drammaticità sconquassante, che sembra davvero inghiottire nelle fauci dell’inferno. L’orchestra bisbiglia malignamente – Duncano sarà qui? e sotto gli archi sogghignano – deflagra in esplosioni atomiche all'apparizione di Banco, sospira di muto dolore nel coro del quarto atto (un funerale di bambini) e regge sempre il canto, respirando con esso.
I professori della Fenice sono in forma strepitosa e danno il meglio di sé, soprattutto per qualità timbrica e plasticità delle dinamiche.

Foto Michele Crosera

Luca Salsi è il titolare più accreditato della parte di Macbeth dei giorni nostri. La voce è brunita e "grassa" e si apre in un ventaglio dinamico che va dal pianissimo più leggero e sostenuto al forte più tonante, i fiati sono da cronometro, il volume ragguardevole. L’interprete è poi estremamente rifinito nell’accento e nello scavo della parola scenica, anche a costo di spingersi a marcare con veemenza talune intenzioni. A voler spaccare il capello in quattro, c'è qualche slittamento dell'intonazione qua e là, soprattutto nel declamato più esposto, che non di rado riesce leggermente parlicchiato.

Molto bene Vittoria Yeo, che è subentrata alla prevista Tatiana Serjan appena prima dell'antegenerale. La voce è piccola, almeno lo è in rapporto alla tradizione esecutiva della parte, ma le note ci sono tutte e, soprattutto, c'è un personaggio completo. Il canto è pulito ed espressivo, le agilità sono buone, il timbro non particolarmente accattivante ma omogeneo e naturale (seppur la voce sia leggerina, la Yeo non la camuffa né gonfia). Bellissima sul palco nei suoi abiti da upper class, la Lady della Yeo è una giovane donna cui la vita ha scombinato i progetti, togliendole dalle mani tutto quello che avrebbe dato per scontato.

Simon Lim, Banco, è al solito affidabile per ampiezza e solidità del canto. È assai rodato il Macduff di Stefano Secco che, pur con qualche durezza e trucchetto – d’altronde l’aria arriva quasi a freddo – cesella e fraseggia con varietà e incisività la Paterna mano ed è sempre puntuale e convincente nei suoi interventi.

Completano onorevolmente il cast Marcello Nardis (Malcom), il sempre corretto Armando Gabba, più psichiatra che medico in senso classico, Antonio Casagrande ed Elisabetta Martorana (rispettivamente domestico e dama), Emanuele Pedrini (Sicario) e Umberto Imbrenda, Araldo.

Delle tre apparizioni dei Piccoli Cantori Veneziani preparati da Diana D’Alessio ed Elena Rossi, almeno due sono molto buone.

In forma mondiale il coro diretto da Claudio Marino Moretti.

Alla fine accoglienza calorosissima per il cast, trionfale per Chung e alterna per regista e soci, sonoramente fischiati e buati da una fetta difficilmente quantificabile, ma minoritaria, del pubblico.

Recensione pubblicata su OperaClick

Foto Michele Crosera

23 novembre 2018

Jukka-Pekka Saraste e Christopher Park in concerto al GdU

Quanti grandi, piccoli e medi direttori sono usciti dalle mani di Panula? Lo spettatore meno accorto non se lo aspetterebbe mai, ma la scuola finlandese ha sfornato una sfilza di maestri, autoctoni o in “vacanza studio”, da fare impallidire molti confronti. Jorma Panula è il condottiero di questo esercito, una figura leggendaria per ogni aspirante direttore d’orchestra. Ancora oggi i suoi corsi richiamano musicisti da tutto il mondo, attirati da quel taumaturgo che pare essere in grado di infondere la scienza della bacchetta a chiunque sia disposto ad apprendere. Da lì è saltato fuori un certo Esa-Pekka Salonen, che del Teatro Nuovo Giovanni da Udine ha inaugurato la stagione poche settimane fa, o Mikko Franck, Sakari Oramo (anch’egli transitato trionfalmente sullo stesso palco il maggio scorso) e molti altri.

Anche Jukka-Pekka Saraste è uscito dallo stesso pozzo, proprio negli stessi anni di Salonen, e anch’egli ha affrontato la prova del teatro udinese, che da diversi anni è solito ospitare artisti di assoluto prestigio. Il suo approccio alla materia chiarisce la discendenza soprattutto da un punto di vista: l’analiticità. A Saraste non sfugge niente, e lo si avverte chiaramente soprattutto nell’Eroica di Beethoven. Non è il genere di direttore che imprime una propria identità al fraseggio e al colore, o che abbia il tocco magico dello stregone – anzi, la sua orchestra, per quanto eccellente, tende al bianco e nero –, ma è finissimo concertatore e vivisettore. Non c’è tema o inciso che gli sfugga, gli equilibri sono sempre pesati al microgrammo, il senso dell’architettura beethoveniana e della plasmatica evoluzione del materiale musicale chiarissimo. Insomma Saraste mette in bella mostra il testo, con attenzione capillare alla dinamica e all’articolazione, mentre pare poco interessato a connotarlo di una cifra propria. Il che non è affatto un male, beninteso, anche perché l’obiettivo è centrato senza eccessi di pesantezza o rigidità.

Nel Concerto n.1 op. 15 in re minore per pianoforte e orchestra che apre la serata il carattere dell’orchestra non è diverso, né è diverso il suono. La WDR Sinfonieorchester Köln è ottima compagine, precisa e scattante, asciutta negli archi senza enfatizzare troppo la secchezza (nonostante l’uso centellinato del vibrato) e con un’eccellente schiera di legni. Scappa via qualcosa ai corni, come capita spesso, ma sono peccati veniali. L’affiatamento col maestro è poi assai rodato – Saraste la guida dal 2010, quando succedette a Semyon Bychkov – e lo dimostra la perfetta rispondenza tra gesto, in verità non bellissimo, e suono.

Christopher Park è pianista dal tocco leggero, più morbido che brillante, che “virtuoseggia” senza clamore né smania d’imporsi, ma con sentimento. Non affonda mai i tasti con arroganza, né nei pianissimi, che sono perlati ma senza compiacimento, né quando c’è da pestare sull’avorio. Se questo approccio intimista può mostrare un po’ la corda nei primi due movimenti, ove alla lunga si avverte la mancanza della ricerca di qualche colore o intenzione più audace, esce vincitore nell’Allegro molto, risolto con gaiezza quasi irridente.

Grande successo personale per Park, che si congeda con un bis chopiniano, e trionfo finale per l’orchestra che saluta con lo Scherzo della Sesta di Schubert


Recensione pubblicata su OperaClick.

18 novembre 2018

I puritani aprono la stagione del Verdi di Trieste

Nei Puritani che aprono la stagione del Verdi di Trieste c’è una piacevole sorpresa: si chiama Ruth Iniesta ed è una giovane cantante di belle speranze e solido presente, catapultata sul palco all’ultimo minuto per sostituire la titolare Elena Moşuc. Voce di lirico leggero omogenea e penetrante, non particolarmente pesante ma sempre alta e timbrata, e tecnica agguerrita che le consente di legare, smorzare, dipanare la coloratura e fraseggiare come si deve. Canta bene, anzi benissimo, la Iniesta, ma è anche artista e siccome gli artisti si pesano sul minuscolo dettaglio, ecco un esempio. C’è un passaggio, nel terzo atto, in cui Arturo cerca di giustificarsi per l’assenza: “fur tre mesi” dice, e lei risponde esausta “no, no, fur tre secoli”. Ebbene, quei due “no” apparentemente insignificanti la Iniesta li colora e dice ognuno con un’intenzione e una verità da grande. Piccolezze che pesano tantissimo.

Poi c’è anche tutto il resto: la pazzia è ottima, il finale primo le vale un applauso a scena aperta e anche in quel duettone infinito che è il terzo atto la Iniesta arriva in fondo fresca come una rosa. Difetti? A voler essere pignoli qualche sovracuto esce leggermente stiracchiato, ma attaccarsi a queste inezie è tara da disturbo melomaniacale di personalità. Segnatevi il nome perché ne sentiremo parlare.

Foto Fabio Parenzan

Insomma è andata bene, ma non solo per merito di Elvira. Il teatro triestino ha messo in piedi un’inaugurazione di stagione di tutto rispetto, rendendo giustizia a quella summa di belcanto smisurato che è l’estremo capolavoro belliniano. Perché c’è sì un’ottima protagonista femminile, ma anche la controparte tenorile se la cava ottimamente. Antonino Siragusa esce indenne dalla tessitura folle di Arturo, ed è già molto (senza tagli e con da capo vari il terzo atto è un gioco al massacro per la gola di qualsiasi tenore). Canta da grande professionista, le note ci sono tutte, la resistenza è stupefacente e anche il tono dell’espressione è sempre quello giusto.

Certo, l’impressione che si ha è che la parte non sia l’ideale per la voce di Siragusa, che rimane quella di un (eccellente) rossiniano. Non è questione di pruriti vociologici, ma innanzitutto una faccenda di sostanza. Il tenore romantico dell’opera italiana di primo Ottocento è una delle tante emanazioni dei rinnovamenti culturali e di costume che modificarono la società, portando, tra le altre cose, proprio a uno svincolamento dall’estetica di cui Rossini fu ultimo baluardo e allo sviluppo di una vocalità nuova. Certo è un processo complesso di cui oggi è difficile individuare nettamente i tratti caratterizzandolo con precisione assoluta, ma la scrittura stessa di Arturo suggerisce la necessità di un corpo vocale più sostanzioso, soprattutto nel medium, una tornitura che consenta di fraseggiare con maggiore varietà di accenti e colori.

Foto Fabio Parenzan

Il terzo asse portante dello spettacolo è Fabrizio Maria Carminati che sul podio del Verdi è di casa (ed è un bene che sia così!). Dalle alte sfere del loggione lamentano una certa timidezza di volumi e piattezza di dinamiche – scherzi dell’acustica dei teatri all’italiana –, limiti che dalla platea non si avvertono affatto, tutt’altro. Equilibri calibrati al grammo – e che belli i concertati! – tempi agili e incalzanti, controllo perfetto del palco e, last but not least, una compattezza della narrazione incrollabile che non teme la riapertura di tutti i tagli.
L’Orchestra del Verdi suona bene anche se non al meglio delle sue possibilità per qualità dell’amalgama, idem il coro preparato da Francesca Tosi che sbarella un po’ all’inizio ma va migliorando.

Restano le voci gravi. Mario Cassi (Riccardo) parte con qualche difficoltà nel recitativo di sortita e risolve l’aria seguente senza convincere troppo, ma poi cresce. Ha voce che va irrobustendosi con l’acuirsi della tessitura e trova sfogo in acuti bombastici, ma in basso difetta ancora di un po’ di corpo e rotondità, almeno per questo repertorio. Alexey Birkus è un Sir Giorgio dal canto educato e volume modesto, ma è anche interprete tutt’altro che compassato. Bravissima la Enrichetta di Nozomi Kato, all’altezza il Sir Bruno Roberton di Andrea Binetti così come è sempre affidabile Giuliano Pelizon che dà corpo e voce (parecchia) a Lord Gualtiero Valton.

Foto Fabio Parenzan

Anche Katia Ricciarelli e Davide Garattini Raimondi vincono la loro sfida. Per un regista I puritani sono un’insidiosissima polpetta avvelenata: tre ore di arie, duetti e cori in cui succede poco o niente e una drammaturgia che fa un passo indietro a vantaggio del canto in sé per sé. E certo la scelta (sacrosanta) di riaprire i tagli e riprendere da capo le cabalette non aiuta l’incedere teatrale. La Ricciarelli e Garattini puntano sulla tradizione, scelta che a Trieste è sempre vincente in partenza e che nel caso specifico lo è doppiamente perché in quest’opera qualsiasi tentativo di “manomissione” è sempre una scommessa ad altissimo rischio. Costumi (Giada Masi) e luoghi sono da libretto: la scena fissa di Paolo Vitale riproduce una fortezza diroccata o in via di costruzione, difficile dirlo, che tra impalcature, rampe e scale, accoglie l’intera vicenda; un cielo in proiezione chiude il fondale. Ne esce uno spettacolo visivamente piacevole, talvolta eccessivamente statico – d’accordo, in certi momenti è davvero difficile inventarsi qualcosa che catalizzi l’azione, ma un briciolo di dinamismo in più sarebbe auspicabile – e che racconta in modo chiaro la storia. Il pubblico gradisce, molto.

Successo pieno e caloroso.

Gioventù mia, tu sei morta

Io conobbi questa Bohème - e il signor Carlos Kleiber che sta sul podio - registrandola su un’audiocassetta dalla Filodiffusione. Si sentiva da cani ma prima che internet spopolasse bisognava ingegnarsi in qualche modo. Ci ho pensato qualche giorno fa mentre un elegante signore mi raccontava di quando Kleiber lo invitò a colazione. Tra le altre cose gli disse che il valzer di Musetta dovrebbe esprimere il rimpianto e la malinconia, e anche secondo me è così. Non è forse il finale di Secondo Quadro il momento più straziante dell’opera? È l’ultimo raggio di felicità abbagliante e di spensieratezza, l’estremo respiro di gioventù prima che la vita presenti il conto (Così presto? Chi l’ha richiesto?). Da quel momento inizia la vita vera, quella in cui si deve lavorare per mangiare, in cui ci si scopre mediocri, in cui ci si ammala e si muore. Ficcarlo in un tripudio di bambini e soldati festanti è cosa da puro genio, è una sorta di “sabato del villaggio” all’ennesima potenza.
Il sipario successivo si alza su lattivendole e spazzini che sfidano il gelo per due soldi, il grande pittore è finito a fare l’imbianchino e la cantante dà lezioni ai passeggeri, i due innamorati hanno litigato e lei sta crepando. La bella età di inganni e d’utopie se n’è andata per sempre.



14 novembre 2018

Anna Moffo per me

Anna Moffo. Oggi molti giovani la amano, io per primo. Non nel senso che io sia giovane, ma che me ne sono innamorato da ragazzino, al primo ascolto (Musetta), senza nemmeno sapere quanto fosse bella. Difficile dire qualcosa di una cantante mai incontrata dal vivo, ma ci provo. Non penso che la Moffo fosse un genio musicale o di introspezione, non so come suonasse la sua voce a teatro ma immagino che non avesse niente di trascendentale. Eppure.

Andrea Bomben mi faceva notare quanto sia “vera” la sua Butterfly in rapporto alle contemporanee, in particolare alla Scotto (la Callas lasciamola fuori, gioca in un campionato a parte) così sono andato a riascoltarmele. Beh, ha ragione. La Moffo è pulita, asciutta, è sincera di una genuinità adolescenziale. Non matroneggia e non sbrodola mai in “oversinging”, non camuffa la voce, non gonfia, non ricerca colori su colori per sottolineare questa o quella sillaba o per far vedere che "lei sì che sa cantare”. È così com’è. Qualche traccia di birignao e un po’ di polvere ci stanno, d’altronde sono passati 60 anni.
E pensare che la Moffo è sempre stata sminuita proprio per questo suo non avere niente di speciale. Ma non è vero che non avesse niente di speciale, non aveva niente di troppo. Tempo fa mi è capitato di pensare la stessa cosa ascoltando la sua Susanna con Giulini: in mezzo all'ampollosità di Taddei e ai ricami della Schwarzkopf, così adorabilmente fasulli, lei sembra cinquant’anni avanti. Mi immagino gli ormoni del povero Cherubino, di fronte a una bonazza del genere.

Nonostante tutto, è anche l’unica che si avvicina in qualche modo al mio ideale di una Carmen dalla sensualità inconsapevole e dal sorriso disarmante alla Julia Roberts. Peccato che sia arrivata tardi e in un contesto deprimente. Poi ci sarebbero un migliaio di però, sì vabbè, ma, anche se... Ma “L’amo, l’amo e non ragiono!”



9 novembre 2018

L’Histoire du Soldat tra Stravinskij e Pasolini

Alla fine si ha l’impressione che Pier Paolo Pasolini venga tirato per la giacchetta con la scusa – nobilissima, beninteso – di celebrarne il ricordo. Intendiamoci, il progetto che il Teatro Giuseppe Verdi di Pordenone porta avanti da almeno tre anni è sacrosanto e merita tutti gli applausi del mondo, però nel caso specifico l’esito è quantomeno alterno.

Ma andiamo per gradi. Nei primi anni settanta Pasolini pensò a una trasposizione cinematografica dell’Histoire du Soldat, favola che Stravinskij e Ramuz trassero da Afanasiev. La storia va in parallelo a quella dei tanti Faust o Tom Rakewell che vendono l’anima al diavolo e finiscono malissimo: il soldato, che nel caso specifico si chiama Giuseppe, baratta il suo violino con le arti magiche del demonio. Inutile dire che alla fine a guadagnarci è il secondo.

Quale occasione migliore del centenario dalla prima (1918) combinato con l’anniversario della scomparsa dell’intellettuale friulano per mettere in scena una versione del lavoro di Stravinskij ibridata con gli appunti di PPP? Il Verdi ci ha pensato e l’ha fatto, almeno sulla carta, con tutti i crismi del caso, producendo uno spettacolo nuovo di zecca.

Il progetto parte da lontano e contempla anche un libro di Roberto Calabretto, di fresco dato fuori (L’Histoire du soldat, Edizioni ETS, 2018). Qual è dunque il problema? Che alla prova dei fatti, cioè del palcoscenico, di Pasolini in questa riscrittura non resta molto. L’adattamento che Gianni Farina fa del testo, proprio alla luce degli appunti di cui sopra, è debole nell’incisività di versi e drammaturgia ma soprattutto dà l’impressione di essere distante dalla poetica del modello. Certo ci sono alcuni riferimenti ai luoghi, ai film, alla critica sociale, alla sua estetica, ma non basta. Come sempre, quando si parla di arte, c’è un fossato che separa la teoria dalla pratica da scavalcare.

Lo stesso Farina cura la regia. La trama procede attraverso la narrazione non efficacissima di Consuelo Battiston e una serie di videoproiezioni (di Davide Maldi e Micol Rubini) che guarda al cinema pasoliniano e a quello muto – il mio vicino di seduta ha generosamente pensato a Dreyer – senza replicarne la forza dirompente.

Tra gli attori convince più il demonio disturbante di Roberto Pagura, un diavolaccio brutto e sudicio che a un certo punto irrompe in platea, che il soldato di Giacomo Pontremoli che è introverso e anti(em)patico ai limiti dell’inettitudine probabilmente per scelta, ma che in quanto tale non muta di un millimetro in corso d’opera. Michela Facca dà corpo alla Principessa e lo fa con certa mestizia alienata, quella sì vagamente pasoliniana.

Nelle proiezioni si intravede un alone di neorealismo che tuttavia non è emancipato dal modello con personalità sufficiente da dargli una connotazione pienamente convincente per la sensibilità odierna, anzi, a tratti sembra quasi riprenderlo facendogli il verso.

Fatta la tara dei limiti, lo spettacolo ha dalla sua un buon ritmo, e la brevità in ciò lo aiuta, resta però la sensazione dell’occasione buttata.

Il senso di incompiutezza del versante prosaico è parzialmente compensato dalla buona esecuzione musicale. Fabio Sperandio adempie a quello che dev’essere il compito principale di un direttore in questi casi: racconta una storia e lo fa senza trascurare le ragioni della musica. Incalza, colora e tiene quel po’ di palco che c’è senza esitazioni. Insomma si apprezza una vera regia musicale che tappa le falle di quella teatrale.

I musicisti dell’Ensemble Zipangu lo seguono bene, con duttilità, qualità e limitando al minimo le sbavature.

Applausi convinti ma sbrigativi.

Salva me, fons pietatis

Verdi, come tutti i grandi, si lascia capire un po’ come siamo capaci di fare e ci concede di leggere dentro alla sua opera qualcosa di noi. La spiritualità laica del Requiem per me è questa cosa qua. Nella furia degli ottoni e del coro maschile che invoca martellando un “Rex tremendae maiestatis” più impaurito che terrificante, ecco la luce di un’arcata vocale che parte dal basso e passa al soprano, al mezzo e poi al tenore: “Salva me, fons pietatis”. Una speranza che pare sollevarsi dalla tenebra. Le voci cercano una quadra, si rincorrono e si frammentano finché non si ritrovano, tutte insieme, su un do. La pietas, che intendo nella sua accezione più immanente e terrena, è la salvezza. E per me la pietas è l’amore al massimo grado, poiché totalmente disinteressato: il rispetto per l’altro, la disponibilità a pensarsi al suo posto ed entrare nei suoi patimenti, ad accettarne la fallibilità. Un’utopia probabilmente. Per chi ci crede è qualcosa che ha a che fare con la religione, io, ateo, la chiamo umanità.


Ho appena finito di ascoltare questa incisione di Gardiner: una meraviglia di rispetto al dettato e, una volta tanto, ai metronomi segnati in partitura. Consigliatissima

6 novembre 2018

Buona la seconda per il Requiem di Chung, peccato che io sia andato alla prima

Anche se manca un matrimonio formale, La Fenice e Myung-Whun Chung sono una coppia di fatto. L'inaugurazione di stagione è sua sul doppio fronte operistico e sinfonico, poi Capodanno, un paio di concerti e altre due produzioni teatrali. Bene, benissimo, visto che la relazione pare funzionare alla grande da diversi anni a questa parte.

D’altronde le doti stregonesche di affabulatore del suono del maestro coreano sono note e riescono sempre a cavare dall'orchestra una qualità che trascende la mera contemplazione edonistica del bello. Partendo dalle premesse di cui sopra la Messa da Requiem di Verdi parrebbe un puntello ideale per cementare il sodalizio, soprattutto se ci si ricorda l'intensità spirituale del suo ultimo Stabat Mater rossiniano.

Tutto a posto dunque? No. Perché l’arte non è scienza e non è sufficiente replicare le condizioni di partenza di un esperimento per ottenere il medesimo risultato. In musica per trovare la quadratura del cerchio bisogna provare, provare e riprovare finché non è abbastanza e, alla fine di questo Requiem, l'impressione è che orchestra e direttore di tempo insieme ultimamente ne abbiano passato poco.

Perché c'è sì il Chung-touch, quello che fa bisbigliare i contrabbassi come fossero suonati dallo sbuffo di una finestra lasciata aperta, c'è compattezza, c’è una concertazione molto attenta agli equilibri, ma ci sono anche troppi pasticci di struttura e di precisione. Se i violoncelli sbrodolano l'attacco dell’Offertorium non è certo per un loro limite intrinseco ma perché evidentemente quel passaggio non è stato rodato come si sarebbe dovuto. Lo stesso discorso vale per l'intonazione ballerina di archi e ottoni in taluni segmenti o per le sbavature del flauto, per certo imbolsimento dell'amalgama e per altri sgarri disseminati qua e là.

Per carità, l'esito non è affatto disastroso, anzi, è complessivamente molto buono, ma proprio perché la distanza che separa la pregevole esecuzione da quella grandiosa è questione di dettagli, l'amarezza raddoppia. E pretendere il meglio da un direttore di tal pasta non è un eccesso di severità.

Per il resto fila tutto più o meno liscio. Chung conosce il Requiem a menadito e lo sa pennellare con morbidezza di colori e dinamiche, riesce ad allargare il respiro senza ammorbare o buttarla sul misticismo, infiamma la corda della drammaticità con strappi che fanno vibrare il pavimento della Fenice e, fatto per nulla banale, sostiene il canto andandogli incontro e cullandolo. Le prime battute ad esempio sono magiche, dilatate allo spasimo ma rette con una tensione che le rende tutt’altro che estenuate, e ci sono molti altri passaggi che tolgono il fiato (il fugato finale del coro, bellissimo!). Però nel complesso si percepisce un sentore di incompiutezza, di un cammino che si è fermato a pochi passi dal traguardo. Tutto rimane lì, avvolto in un velo di prudenza, come un giocattolo imballato nel pluriball per evitare che si rompa.

Chi invece centra il bersaglio è il Coro di Claudio Marino Moretti. Sussurra, strepita, tuona, ruggisce, alita e sa piegarsi ad ogni altra suggestione espressiva senza perdere smalto o brillantezza. Meraviglioso.

Serata complicata per Maria Agresta. Difficile dire se per stanchezza o forma precaria, fatto sta che la voce risponde poco soprattutto in alto, dove ogni pianissimo è una roulette ed esce spesso fisso e calante. Ci sarebbe un’attenzione all’espressione da artista di razza, ci sarebbe il giusto legato, ci sarebbero tantissime buone intenzioni che però rimangono nove volte su dieci incompiute.

Veronica Simeoni ha un’ottava acuta svettante e luminosa sorretta da un’emissione morbida il giusto. Anche se scendendo manca un po’ di corpo, il mezzosoprano ha l’intelligenza di non pompare mai i suoni o di intaccare la linea: canta con la vocalità che gli appartiene, facendo della levigatezza il proprio punto di forza.

Antonio Poli si danna l’anima per risultare vario e incisivo: sfuma alla mezzavoce, colora e sa anche imporsi quando serve. La voce però tende a restare un po’ “indietro”, il che le conferisce una velatura che sacrifica qualcosa in termini di brillantezza e squillo; certo rispetto ai tempi andati il volume si è espanso notevolmente, soprattutto in basso.

Ottima la prova di Alex Esposito. È vero, di natura non gli appartengono l'ampiezza e la ricchezza della polpa nei gravi, ma poco importa; appena la tessitura sale il suo canto si espande sempre morbido e timbrato e la parola è dominata in ogni sillaba senza leziosaggini o sottolineature eccessive.

Buon successo a fine concerto con picchi di entusiasmo per Chung.

30 ottobre 2018

E se Amartuvshin Enkhbat fosse il baritono verdiano che stavamo aspettando?

Chi dice che non esistono più le voci di una volta mente, che poi lo faccia in coscienza o meno poco importa. Prendiamo Amartuvshin Enkhbat ad esempio. Lo scorso anno impressionò il Verdi di Padova con un Conte di Luna bastianiniano, si parva licet, sicché le alte sfere del teatro hanno ben pensato di richiamarlo per un'altra parte totemica del repertorio baritonale: Nabucco. Lui una grande voce ce l’ha indubbiamente, come volume e come qualità della grana, e ha anche una grande tecnica. Sale e scende senza intaccare un’omogeneità bronzea, sa sparare degli acuti che sono fucilate, sempre tondi e brillanti, e può permettersi persino di alleggerire la dinamica alla mezzavoce mantenendo un sostegno del fiato da mantice. È anche attore e interprete tutt’altro che compassato, che sa quello che dice e come lo deve dire.

Il suo Nabucco, che è già ben rodato nonostante la giovane età, si esalta doppiamente nello spettacolo di Filippo Tonon che, forse involontariamente ma centrando l’effetto, lo tramuta in una sorta di Gengis Khan; la fisionomia tipicamente mongola del baritono, che già di per sé disegna un carattere ben riconoscibile sul palco, finisce per accentuare lo scontro culturale ed etnico che regge la trama dell’opera e darle un inedito vigore.

Foto Nicola Fossella

In ogni caso l’allestimento di cui Tonon è pressoché unico firmatario e responsabile funziona a dovere. Un Nabucco di onesta tradizione che guarda al peplum e che eccede forse nell’ingenuità di qualche effetto e nell’abbondanza dell’oro (oro sui fondali, oro sulle vesti, oro sulle pelli) ma che ha una sua tenuta teatrale salda e in cui solisti e masse sono mossi quel tanto che serve per evitare la stagnazione del ritmo. La scenografia rimane quasi invariata per l’intero sviluppo dell’opera e riproduce un ambiente che va bene per tutte le stagioni: una parete di fondo che all’occorrenza può aprirsi su tre accessi delimita un praticabile di pedane parzialmente mobili che fanno pensare ai Giardini pensili di Babilonia. Tonon punta sul colpo d’occhio, soprattutto nelle grandi scene corali e nei concertati che guardano smaccatamente alla pittura, ma lo fa, va detto, con cognizione di causa.

Sono forse meno centrati i costumi (che, accanto a quello del regista stesso, portano il nome di Carla Galleri) e non perché siano brutti, non lo sono affatto, ma perché non si capisce bene dove vogliano andare a parare, mescolando un po’ di stili, gusti ed epoche senza troppa coerenza.

Foto Nicola Fossella

Se lo spettacolo regge senza sbandamenti o cali di ritmo lo si deve anche alla mano di Jordi Bernàcer che, sul podio di una buona Orchestra di Padova e del Veneto, non si perde il palco per un secondo, sa valorizzare la semplicità quasi barbarica della scrittura senza calcare eccessivamente la mano e imprime un bel passo alla narrazione. Una buca scattante e asciutta che mantiene sempre a bolla il livello della tensione grazie all’adozione di agogiche stringenti e di una pregevole plasticità della dinamica.

Anche il resto del cast si difende dal bene al benissimo. Rebeka Lokar è un’Abigaille dai mezzi notevoli, soprattutto nell’ottava acuta – in basso invece fatica un po’ – e dal canto splendido nei momenti più lirici: l’aria che apre la seconda parte e il finale sono pregevolissimi per legato e morbidezza, ma anche per varietà di dinamiche. Scivola un po’ sulle agilità di forza e negli sfoghi drammatici, benché non le manchino volume o note. L’interprete ricalca modelli convenzionali ma c’è e prova ad emancipare Abigaille dal prototipo dell’amazzone furiosa, cercando di mettere in luce anche i patimenti della figlia(stra) e di ispezionarne, dove possibile, l’anima.

Rafal Siwek ha un bel vocione scuro e ampio, ideale per una parte, quella di Zaccaria, che il basso risolve senza troppi patemi, almeno finché la tessitura non si fa troppo acuta; qui qualche sbavatura ci scappa, ma d’altronde la scrittura è assai impervia.

Foto Nicola Fossella


È splendida la Fenena di Annalisa Stroppa. Bella sulla scena, voce di velluto e musicista di grande raffinatezza: le basta il recitativo di sortita per dare subito la misura della sua classe. Ha voce e temperamento ma deve ancora rifinire i primi acuti Azer Zada, Ismaele, che dal passaggio in su tende ad aprire i suoni finendo per compromettere intonazione e brillantezza.

Ha la giusta ieraticità il Gran Sacerdote di Belo di Luciano Leone. Antonello Ceron è un Abdallo con squillo da Manrico, Fulvia Mastrobuono una Anna più che convincente.

Si comporta bene il Coro Lirico Veneto preparato da Giuliano Fracasso che dà il meglio di sé in un Va pensiero sussurrato come da partitura.

Trionfo per tutti, assolutamente meritato.

Recensione pubblicata su OperaClick

Foto Nicola Fossella

23 ottobre 2018

Dal Verdi al Verdi: la Traviata passa da Trieste a Pordenone

"Oh, come son mutata" dice attonita Violetta guardando il fazzoletto imbrattato di sangue che stringe in mano. È il terzo atto e dopo un’ottima lettera – quanti soprani inciampano nella prosa! – Claudia Pavone indovina il momento più intenso della Traviata in scena al Verdi di Pordenone, allestimento fresco di laboratorio dell'omonimo teatro triestino, dove ha chiuso la stagione pochi mesi fa. Nel complesso è proprio il terzo atto il meglio riuscito di questa produzione, o quantomeno il più sorprendente e calibrato.

Foto Fabio Parenzan

Tradizionale nell'impianto, anche se postdatato rispetto al primo Ottocento da libretto, lo spettacolo di Giulio Ciabatti è lineare e pulito, racconta la storia in modo chiaro e lo fa strizzando un po’ l’occhio al suo pubblico, cioè quello triestino e giapponese (che lo vedrà in tournée il prossimo anno), che non ama troppo essere sorpreso. Pur in un contesto pensato per non turbare le oneste e ben create coscienze, non manca la cura per alcuni dettagli né, soprattutto, per la narrazione, che è sempre limpida e ben condotta.
È di stampo classico anche la recitazione dei personaggi, che funziona benissimo per protagonista e alcuni comprimari, bene per baritono e controscene e un po’ meno bene per tenore e coro, che soffrono di qualche eccesso di staticità.

Le scene di Italo Grassi tendono a un’oleografia vagamente liberty nei primi due atti mentre virano verso una scabra povertà nel terzo, che racconta la "prigionia" di una Violetta ostaggio della malattia e dello stigma sociale. Lei rinchiusa in quella scatola nera e vuota come un leone ferito in gabbia mentre là fuori il carnevale impazza. D’effetto!

Claudia Pavone è una Violetta più che convincente. La voce è leggera ma penetrante e corre bene in sala ad alta quota come in basso, le note ci sono tutte e sembrano anche piuttosto facili, ma soprattutto c’è Violetta. Le si crede; a quello che dice, a come si muove, alla figura nel complesso. Un pizzico di coraggio in più nelle dinamiche e nel buttare il cuore oltre l’ostacolo in quei momenti topici in cui Violetta deve mettersi a nudo e l’interpretazione della Pavone potrà davvero ambire ad imporsi.

L’Alfredo di Francesco Castoro ha uno strumento non privo di qualità: il timbro è fresco e piacevole, lo squillo non manca né mancano buone intenzioni musicali e interpretative. C'è ancora qualcosa da levigare nel controllo dell'emissione, che talvolta esce eccessivamente aperta o inciampa in qualche piccolo slittamento d’intonazione, ma soprattutto – questo è un consiglio non richiesto – c’è da rinfrescare un gusto nella recitazione e nel canto che guarda più al passato che al presente.

A Trieste e Pordenone si ricordano ottime prestazioni donizettiane e rossiniane di Filippo Polinelli: proprio su questo palco qualche tempo fa cantò un Don Bartolo di livello. Germont invece non fa ancora per lui. Nonostante la buona volontà e la ricerca di un canto sfumato e pesato sulla parola, il fiato scarseggia e la voce non risponde come dovrebbe, arretrando pericolosamente in gola appena la tessitura si inasprisce. Meglio aspettare ancora un poco.

È invece eccellente la Annina di Rinako Hara, che canta bene e recita meglio, così come si segnala per ricchezza dei mezzi la Flora di Ana Victória Pitts: è giovane e ha un bel vocione caldo, chissà che non possa ambire e parti più importanti.

Completano il cast, tra alti e bassi, Paolo Ciavarelli (Douphol), Dario Giorgelè (Marchese D’obigny), Francesco Musinu, che è un Dottor Grenvil particolarmente empatico, Alessandro Turri (Gastone), Dax Velenich (Giuseppe), Fumiyuki Kato (domestico) e Giuliano Pelizon, un commissionario.

Resta da dire di Fabrizio Maria Carminati che probabilmente è il migliore in campo. Il suo feeling con l'Orchestra del Verdi di Trieste, che infatti suona molto bene, è cosa nota, ma ciò che ad ogni prova sorprende di questo direttore è la pregnanza stilistica e la capacità di essere dentro alla partitura. Che si tratti di belcanto, di Verdi, Puccini o anche Čajkovskij, Carminati non sembra mai fuori posto né si adagia su una comoda routine. Forse sì, talvolta può eccedere nella timidezza dei volumi e mancargli la zampata del grande, ma c'è sempre un controllo delle sonorità e della qualità orchestrale, dei dettagli e del palco, da vero direttore d'opera. Inoltre, pur nella varietà di risorse, Carminati non ricerca mai il facile effetto né la sottolineatura, ma sa fare uscire il gesto musicale scritto nero su bianco traducendolo in teatro. Che i Puritani in arrivo a Trieste siano affar suo è un'ottima notizia (lo è di meno il cambio di regia recentemente annunciato, transeat).

Come accennato l’orchestra, che ormai conosce la Traviata anche capovolta, è decisamente in forma: leggera ma sempre timbrata, nitida, impeccabile negli interventi delle prime parti.

Ineccepibile il coro dello stesso teatro triestino, al solito preparato dalla brava Francesca Tosi.

Meritano infine una menzione i ballerini Guillermo Alan Berzins e Marijana Tanasković, che danno prova della propria arte durante i cori di zingarelle e mattadori.

Buon successo a fine spettacolo, con ripetute chiamate per tutto il cast.

Recensione pubblicata su OperaClick

Semiramide torna a casa

Per capire dove voglia andare a parare la Semiramide in scena alla Fenice bisogna aspettare il secondo atto. Il primo Cecilia Ligorio lo butta un po' via, congelandolo in un affresco aureo che appaga l'occhio ma che dell'opera e dei personaggi racconta ben poco. Poi, come il sipario si alza sul duetto tra Semiramide e Assur, ecco la quadratura del cerchio. Lei, fin lì algida ai limiti dell’indifferenza, si mostra per quella che è: una donna che probabilmente non rifarebbe quello che ha fatto, che vive con un peso sulla coscienza che le toglie qualcosa ogni giorno ma che nonostante tutto continua a cedere a quell’attrazione malata per Assur che le ha tolto la luce dagli occhi. Da lì in avanti tutto scorre meglio: il duetto con Arsace e la sua aria sono essenziali ma sentiti, quelle del tenore e del basso due buoni momenti di teatro (anche perché Esposito è istrione fin nel midollo), il finale a palco vuoto, giocato solo su movimenti e luci soffuse, ha una sua antieffettistica efficacia. Certo la sensazione, alla fine della fiera, è che molto della colossale opera rimanga tra le pagine della partitura e che, a dispetto dell’oscurità che regna sul palco, le ombre inquietanti del Voltaire in salsa rossiniana rimangano in gran parte inespresse.



Ci sarebbe ulteriore margine di manovra insomma, e non è detto che nelle repliche che seguiranno le cose non vadano sciogliendosi e migliorando.
C'è meno opulenza nel secondo atto – la Babilonia tutta ori e dovizie che Nicolas Bovey racconta nel primo lascia spazio alla tenebra – ma in definitiva più teatro. Dicono poco invece le pantomime a sipario chiuso e i movimenti di danza, che non sono mal realizzati ma non aggiungono niente al racconto.
I costumi di Marco Piemontese non danno riferimenti temporali specifici, tendendo piuttosto a delineare delle maschere stereotipiche; certo quelli affidati al coro non brillano sempre per bellezza.

Jessica Pratt, come detto, è una Semiramide che campa sulla mestizia e sul rimpianto, il che funziona soprattutto nel secondo atto, ma necessariamente sacrifica qualcosa della complessità del personaggio (la sfera sensuale ad esempio non viene nemmeno sfiorata). La voce sta meglio in alto che in basso e pertanto non si sposa benissimo con la scrittura prevalentemente centrale della parte. Certo la qualità “strumentale” del canto, al netto di qualche sbavatura, è indiscutibile; ciò che la Pratt può (e dovrebbe) ulteriormente rifinire sono la varietà d’accento e di fraseggio, il lavoro sui colori e sulla parola e certa freddezza nella recitazione, tutti dettagli che amplierebbero lo spettro emotivo e psicologico del personaggio.

Teresa Iervolino, Arsace, ha bel timbro vellutato, più morbido che brillante, gran gusto musicale e ottime agilità. Soffre ancora un po' gli sfoghi più drammatici in cui si avverte la ricerca di un peso vocale che ancora non c'è, mentre si esalta nei passaggi più intimi, quelli in cui il figlio prevale sul guerriero, quindi in sostanza anche lei nel secondo atto.



Che Alex Esposito sia un signor cantante non è certo una scoperta, ma la sua grande scena che anticipa il finale lo ricorda ai più sbadati. Attacca un recitativo sconquassante per varietà di intenzioni e accenti, poi nel canto spianato c'è tutto quello che serve: dinamiche, legato e infine anche le agilità. Quello che nel complesso manca alla sua prova è il senso della misura, sia nella caratterizzazione del personaggio – d'accordo, questo Assur è un cattivone, per di più zoppo, ma a tratti scade nella parodia – sia nel canto vero e proprio. Esposito sceglie infatti una strada inedita per risolvere i recitativi, contaminandoli con il parlato, sporcandoli di graffi e accenti e, con la stessa veemenza, marca la recitazione. L’operazione è interessante e per certi versi spiazzante, anche perché quello che ne esce è un Assur di rottura, quasi mefistofelico, senz’altro “disturbante”, tutte cose che un intelligente lavoro di sottrazione finirebbe per esaltare anziché affievolire.

Enea Scala esce vincitore dalla sfida con una delle parti tenorili più atroci del repertorio: il suo Idreno ha volume, gusto, un bel medium, musicalmente è impeccabile e sale bene alle massacranti puntature. Che qualcuno dei tanti sopracuti esca schiacciato è il minimo sindacale.

Simon Lim è un Oroe roccioso e autorevole, Marta Mare un’Azema elegante e vocalmente a posto.
Imperioso Francesco Milanese nelle frasi dell’ombra di Nino (altro dettaglio che la regia risolve in modo discutibile, sia nelle intenzioni che nella pratica). Enrico Iviglia è un Mitrane squillante.

A reggere le fila dell'intero discorso c’è Riccardo Frizza, che si conferma direttore intelligente e di buonsenso. Sa che in questo repertorio ci sono momenti in cui l’orchestra può permettersi un passo in avanti, altri in cui deve farsi narratrice e dipingere, e altri ancora in cui è necessario scendere a patti con il canto per far quadrare i conti. Ebbene Frizza, per le quattro ore e mezza abbondanti di spettacolo – partitura in edizione critica integrale – non si perde il palco per un istante (neanche quando la Pratt tira un po' indietro nella coloratura della cabaletta Dolce pensiero) né allenta mai la tensione narrativa. L’Orchestra della Fenice è compatta e sbava pochissimo, anzi, va crescendo per qualità e morbidezza di pasta in corso d’opera.

Monumentale il coro preparato da Claudio Marino Moretti.

Alla fine è trionfo per tutti.

Recensione pubblicata su OperaClick.


17 ottobre 2018

Fra gli amplessi

Così fan tutte è l'opera che salverei dalla fine del mondo. Quel balzo dei violini dal mezzo forte al piano passa via inosservato (solo Solti nella sua prima incisione - peraltro bruttarella - lo fa sentire bene, e credo di averle ascoltate quasi tutte), eppure è una manifestazione assoluta del genio mozartiano. Dopo che Fiordiligi cede ("Fa di me quel che ti par") attacca un Andante: i due innamorati si sono scelti ed è il momento di passare dalle parole ai fatti. C'è un primo, timido tentativo di avvicinarsi, di toccarsi, poi un secondo, infine le linee iniziano a rincorrersi e intrecciarsi, quel che succede è inequivocabile. Però questo scarto, due battute, è ancor più sottile. È uno slancio istintivo che viene immediatamente represso, un avvicinarsi titubante ma irrefrenabile, è quel "che faccio, vado o non vado?" che ci siamo chiesti tutti almeno una volta. È una dinamica musicale che si fa dinamica psicologica, emotiva e teatrale. Così fan tutte non è un'opera, è un manuale di istruzioni dell'essere umano.

15 ottobre 2018

Falstaff all'Olimpico di Vicenza

Al Vicenza Opera Festival va in scena il Falstaff di Iván Fischer e, come d’incanto, anche quello di Giuseppe Verdi. D’accordo, è una provocazione, ma fino a un certo punto. Qui non si parla di ossequio al Verbo, inteso come libretto o partitura – anche se nel caso specifico la partitura è rispettata eccome! – ma di spirito dell’opera, di atmosfera, qualunque cosa possa significare. Un Falstaff che è innanzitutto commedia e non farsa proprio a partire dal gesto musicale, e poi lo è anche sul palco o quel che ne rimane. Per uno strano scherzo del melodramma, uno spettacolo d’impronta tradizionalissima e per di più in forma semiscenica, quindi senza quinte né fondali e con mezza orchestra dispersa tra i cantanti, diventa teatro al cubo, quasi il clima intimo e gli spazi contenuti della cavea semicircolare dell’Olimpico, che pare abbracciare la scena per entrarci, riuscissero a moltiplicare la reciproca immedesimazione di pubblico e artisti.

Foto: Kata Schiller

E poi c’è la mano di Fischer, il quale fa piazza pulita di vezzi e vizi della tradizione. Via pause e corone di routine, via rallentandi e compiacimenti ritmici assortiti, via tutte le pigre strizzate d’occhio al comodo o all’abitudine d’ascolto. Resta Verdi in sostanza, con tutto il suo genio musicale e teatrale ben esposto in vetrina. Un Verdi in salsa mozartiana per dimensioni dell’organico e leggerezza, sorridente ma ambiguo e sfaccettato, concertato con attenzione all’equilibrio più minuscolo e al dettaglio pulviscolare senza che la calligrafia prenda mai il sopravvento sul testo. L’eccentrica distribuzione dell’orchestra – archi sul palco e in buca, alle spalle del maestro, fiati e percussioni – restituisce un curioso effetto stereofonico che esalta quella prodigiosa scrittura in cui ogni nota sottotitola un gesto (il pizzicato sorprendentemente esposto del primo violoncello a dipingere l’“aria che vola”, solo per fare un esempio tra mille). E tanti, tantissimi colori, perché ogni frase è accompagnata da un tono diverso che sottintende una diversa intenzione.

In mezzo a tutto ciò Fischer non si perde una semicroma e “racconta” con virtuosismo quasi insolente la musica. I concertati scorrono via con una facilità persino spiazzante, tutto è limpido e chiarissimo senza che tanta levigatezza tradisca sentori di accademia o anche soltanto di superficialità.

La Budapest Festival Orchestra in assetto da camera è una delizia per le orecchie: tersa, ricca, corposa. Niente sbavature né frasi buttate via, solo musica ad altissimo livello.

Foto: Kata Schiller

Fischer firma, a quattro mani con Marco Gandini, anche una regia che di per sé non inventa niente di sconvolgente, ma che c’è e funziona. È vero, molte trovate sono viste e riviste, qualcuna anche un po’ ammuffita, ma in un Falstaff che guarda all’altro ieri ci possono stare, anche perché in compenso c’è un’attenzione alla recitazione e al ritmo della narrazione tutt’altro che banale. Pur su un palco disadorno, con le scene (di Andrea Tocchio) ridotte al minimo e dei costumi belli ma vagamente carnascialeschi (Anna Biagiotti), la sospensione dell'incredulità non esita un istante e si finisce tutti per credere d’essere catapultati in questa strana Windsor palladiana.
Non manca poi qualche trovata d’effetto: il direttore d’orchestra che gioca a fare l’oste della Giarrettiera e di tanto in tanto “cortocircuita” con la recita pare divertire molto il pubblico.

Foto: Kata Schiller

La vulgata vuole che Falstaff sia opera da direttore d’orchestra (come se poi le altre non lo fossero!) ma non di meno esige un cast di musicisti e attori di prima qualità che qui, con diversi gradi di eccellenza, non mancano.

Ambrogio Maestri è il Falstaff dei nostri giorni. La parte gli calza a pennello e l’ormai lunga frequentazione ha limato il dettaglio del dettaglio. Maestri dà senso e colore a ogni parola, giocando anche sulla dinamica e talvolta magari calcando un po’ la mano, ma il personaggio c’è tutto: un Sir John che centra quell’ineffabile mezza via shakespeariana in cui i registri si mescolano e contaminano a vicenda. Un po’ intristito e un po’ patetico, un po’ bonario e velatamente cinico, Maestri cammina sul filo di una radente ambiguità non senza un’irresistibile simpatia di fondo. La voce si impone ancora per ampiezza soprattutto nei centri e negli acuti a pieni polmoni, mentre soffre un po’ nei falsetti e nei pianissimi ad alta quota, ma sono inezie che nulla tolgono a una grande caratterizzazione.

Anche Tassis Christoyannis è un Ford di lungo corso, e si sente. La voce c’è ed è a posto, ma anche nel suo caso il canto non è mai il fine ma un mezzo a servizio del teatro, come dovrebbe essere sempre.
Eva Mei soffre un po’ la scrittura di Alice in basso mentre svetta ancora con insolenza quando la tessitura sale, ma è soprattutto il genere di artista che non si canta mai addosso, né spreca una parola o un gesto.

Xabier Anduaga, giovane tenore classe 1995, è un signor Fenton. Voce di bel timbro fresco e, a dispetto del gran volume, una capacità di sfumare e legare che promette benissimo. Da tenere d’occhio per domani e dopodomani: ne sentiremo parlare. Sua degna controparte la Nannetta di Sylvia Schwartz, vocalità leggera ma non priva di corpo ed emissione d’alta scuola che dà pieno sfoggio di sé nei filati acuti.
Ottima anche la Quickly di Yvonne Naef: bel velluto e una cavata da violoncello al servizio di un gusto che bandisce ogni effettaccio (finalmente!).

Laura Polverelli è una Meg Page di lusso, così come convince senza riserve lo squillante Dottor Cajus di Francesco Pittari. Completano degnamente il cast Stuart Patterson (Bardolfo), che sa essere caratterista senza scadere nella macchietta, e Giovanni Battista Parodi, Pistola dalle scarpe grosse e dal canto fino.

Foto: Kata Schiller

Due parole le merita il coro che non c’è, almeno nominalmente, ma c’è eccome: nel terzo atto una manciata di violiniste abbandona il leggio per intonare a passo di danza i versi delle ninfe. Se lo fanno come lo fanno, cioè cantando splendidamente, il merito è senz’altro di György Philipp che le ha preparate, ma anche della loro statura artistica. Il che vale più o meno per tutti i professori della BFO, non ultimo quel violinista di fila che imbraccia la chitarra per accompagnare (e come!) l’ingresso di Falstaff a casa Ford.

Alla fine è trionfo fragoroso che rischia di far crollare le gradinate lignee dell’Olimpico, tra le apprensioni delle maschere che osservano impotenti un pubblico indisciplinato che pesta forsennatamente i piedi.

Recensione pubblicata su OperaClick

Foto: Kata Schiller

26 settembre 2018

È di Salonen il Bruckner di domani?

A cinque anni dal debutto, Esa-Pekka Salonen e la sua Philharmonia Orchestra sono tornati al Teatro Nuovo Giovanni da Udine per inaugurare la Stagione 2018/19. Ne ho scritto qui, su OperaClick.



I grandi artisti sono quelli che aprono nuove vie dove gli altri si accontenterebbero di ripercorrere i vecchi sentieri. Esa-Pekka Salonen è quel tipo di uomo, un esploratore del suono e dell’interpretazione musicale, il genere di direttore capace di rinsaldare e rinnovare il rapporto di contiguità che c’è tra il grande repertorio e la contemporaneità.

Anton Bruckner, sulle cui spalle grava ancora il peso di una tradizione esecutiva gloriosa ma invadente, ha bisogno di interpreti di tal pasta, che abbiano il coraggio di svincolarlo dall’onda lunga della sensibilità tardoromantica: vibratoni struggenti e sonorità mastodontiche, seriosità ed esaltazione dell’architettura, drammaticità e trionfalismo. Tinte forti e testosterone.

Poi ecco che arriva Salonen a sparigliare le carte. La sua Sinfonia n. 7 in mi maggiore non è solo alleggerita e spogliata di ogni retorica, flessibile come una betulla mossa dal vento, è innanzitutto rivelatoria. Salonen esalta la continua invenzione della scrittura, ne accentua la plasticità e la vivacità con una tecnica di narrazione che pare cinematografica: non è il solito Bruckner catturato in campo lungo per mettere bene in mostra tutta la sua possanza e la sua marmorea bellezza, ma un continuo scorrere di dettagli su dettagli. L’obiettivo balza da un’espressione all’altra, zoomando sul minimo particolare e cavandolo fuori dal tessuto orchestrale. Quella di Salonen, ancor prima che una grande concertazione, è una lezione di “regia musicale”, di utilizzo dell’inquadratura. Ora i violini saltellano, ora seducono, ora i contrabbassi borbottano corrucciati, ora muggiscono, gli ottoni ora svettano in trionfo, ora scattano in sferzate minacciose. Non c’è tregua e non c’è monotonia: il grande vecchio, monolitico Bruckner si scompone in uno sciame di microframmenti che si ammucchiano, dialogano, mutano, bisticciano e si riappacificano continuamente. Ogni inciso ha una sua caratterizzazione, un suo colore e fraseggio e, soprattutto, un senso nella dinamica cangiante del tutto.

Non è meno entusiasmante la lettura della Notte Trasfigurata (Verklärte Nacht) nella versione per orchestra d’archi. I colori non si contano, la scrittura cameristica è esaltata dalla trasparenza e dalla ricchezza di risorse dei professori della Philharmonia Orchestra (su tutti la straordinaria prima viola di Yukiko Ogura) e illuminata dalle improvvise folate di brezza del podio. Quando la musica si spegne nel silenzio – Schönberg scrive pppp per gli archi con sordina e Salonen lo prende alla lettera – si resta senza fiato.

Insomma il Teatro Nuovo Giovanni da Udine ha inaugurato la sua stagione in grande stile, e non è una novità.

Resta la Philharmonia, che non è solo la straordinaria orchestra che tutti conoscono, ma pare sempre più un prolungamento del braccio di Salonen, tanto sono consolidate la complicità e la capacità di respirare insieme. Sulle qualità dei musicisti c’è poco da aggiungere, basterebbe quell’attacco dei violini nella Settima, bisbigliato ai limiti dell’udibile, per darne conto. Gli archi sono un prodigio di delicatezza e sfumature, i legni di nitore, gli ottoni di brillantezza (con i corni un passo indietro, probabilmente per via dei molti aggiunti in organico).

A fine concerto è trionfo che si prolunga finché Salonen non congeda l’orchestra.

Recensione pubblicata su OperaClick

25 settembre 2018

Baroque Unlimited, Junges Musikpodium incontra il Festival Risonanze

Il Friuli è terra di confini, incroci e rimescolamenti. Verrebbe da pensare che l’introversione rocciosa del suo popolo sia un effetto paradosso dei millenni di scorribande e passaggi di mano, quasi si potesse trovare una via di salvezza, o rinsaldare la propria identità, nell’impermeabilità e nel distacco. Tuttavia quest’angolo d’Italia che vive tra le Alpi e il Mediterraneo, con un occhio alla Mitteleuropa e l’altro puntato sui Balcani, il bisogno di guardarsi intorno e dialogare con il circostante ce l’ha da sempre, nonostante le dissimulazioni.



Capita così che un festival regionale nato tra le cime della Carnia, Risonanze, stringa la mano a un’Accademia italo-germanica per raccontare la musica barocca di ascendenza veneziana. Messa giù così sembra complicata, ma non lo è. L’associazione Junges Musikpodium organizza da una ventina d’anni dei laboratori di approfondimento per giovani musicisti con il duplice obiettivo di aiutarli a crescere e, parallelamente, di rinsaldare quello storico rapporto che univa Venezia alla corte di Dresda, non a caso due capitali europee della musica nei tempi che furono. Una manciata di concerti in giro per l’Italia, poi a Dresda stessa e a Berlino e, nel frattempo, una puntata nel cartellone di Risonanze. Il crocevia di questo ginepraio di relazioni è Udine con il suo Castello, che ha accolto i musicisti di Junges Musikpodium per un centone di composizioni barocche collocabili a cavallo dei secoli XVII e XVIII. In cartellone musiche di Vivaldi, Caldara, Galuppi e Hasse.

Due parole il Festival Risonanze le merita: nasce a Malborghetto-Valbruna, vicino al confine nordorientale che separa Italia e Austria, dove cresce l’abete rosso di risonanza della Valcanale, con l’idea di riportare gli strumenti nei boschi in cui sono nati, almeno idealmente. Gioca in trasferta nel concerto di cui si riferisce, per lo meno rispetto agli appuntamenti del Festival vero e proprio, che si svolge nelle prime settimane d’estate.

I musicisti qui impegnati sono per lo più giovani studenti, ma liquidarli come tali farebbe torto alla loro professionalità che ha poco o nulla da invidiare ai mestieranti di lungo corso. Scattanti e limpidi in ensemble, sicuri e precisissimi nei momenti solistici (almeno quelli a cui toccano), sono la prova tangibile di come molte piccole realtà, spesso poco note, sappiano fare musica come si deve, rendendo piena giustizia a pubblico e compositori. È giovane anche Giulia Bolcato, soprano, che padroneggia con disinvoltura le agilità nella sua aria di furore, svetta con insolenza in acuto (il grave è ancora fioco, ma si farà) e soprattutto cesella e “dice” con sensibilità. Sono invece più esperti Alberto Busettini e Ivano Zanenghi che, al cembalo e al liuto, reggono il basso continuo.

Alessandro Cappelletto si esalta nel virtuosismo del Concerto per violino in re maggiore RV 232 centrando tutta l’olimpica brillantezza che Vivaldi pretende, senza certi eccessi di nervosismo in cui ci si imbatte più spesso di quanto si vorrebbe.

Massimo Raccanelli regge le fila dell’insieme garantendo coesione, pulizia esecutiva e una tensione narrativa tutt’altro che banale.

Una bella serata, il pubblico del Salone del Parlamento applaude e ringrazia, giustamente.

11 settembre 2018

La Staatskapelle Dresden in concerto con Alan Gilbert e Lisa Batiashvili

Ammettiamolo, qualche sentore di accademia – il pessimo gioco di parole non è voluto – dopo il primo movimento del Concerto per violino e orchestra n.2 in sol minore Op. 63 di Sergej Prokof’ev lo si è avvertito. D’altronde è comune che il divino abbia qualcosa a che fare con l’indifferenza, o se non vera e propria indifferenza la si può chiamare gelida perfezione. Poi però attacca l’Andante assai e con il dialogo tra il violino solista di una Lisa Batiashvili in stato di grazia e i primi della Staatskapelle Dresden il gelido marmo inizia a destarsi e a prendere vita. A questo punto l’unica Accademia che rimane in mente è quella che dà il nome al pregiatissimo Settembre veronese, una delle iniziative musicali più stimolanti su scala nazionale da qualche anno a questa parte, perché sul palco del Filarmonico inizia ad ascoltarsi la musica vera, a un livello tra i più alti immaginabili.



Lei ha quel suono tendenzialmente carnale ma penetrante che le conosciamo, con qualche punta graffiante e la plasticità mutevole di infinite screziature, ma anche il dominio dello strumento che basta a mangiarsi ogni insidia tecnica come fosse una bazzecola. Fraseggia imprimendo al violino una tensione mai nervosa che dà carattere alla musica senza sconfinare nella schizofrenia, che la rende viva pur nella sostanziale assenza della minima umana imperfezione. E poi sa modellare dinamica, timbro, intenzione. Insomma la Batiashvili è una artista di prima classe, ma si sapeva già.

La Staatskapelle d’altro canto altro non è che la macchina straordinaria che il mondo conosce da mezzo millennio. Anzi, è qualcosa di più: è un prodigio di colori – gli archi su tutti sono impressionanti per duttilità timbrica – che va ben oltre la qualità sopraffina dell’amalgama e la compattezza. Difficile ascoltare, anche tra le orchestre di primissima fascia, una tale leggerezza di suono, che non perde mai trasparenza e struttura in qualsiasi gradazione dinamica.

Che il pubblico si scateni (guadagnandosi una peculiare trascrizione per violino solista e orchestra de I Capuleti e i Montecchi dal famosissimo balletto di Prokof’ev) non sorprende affatto.



Al netto delle qualità di violinista e orchestra, qualche merito va riconosciuto anche al direttore, che nella fattispecie è un grande direttore. Alan Gilbert non gode forse in Europa della fama che meriterebbe, ma oltreoceano è una stella di prima grandezza, al punto da essersi meritato il timone della New York Philharmonic per un decennio. Non sorprende dunque che l’approccio alla materia sia molto “americano”, nell’accezione più nobile del termine: Gilbert arriva da quella scuola e si sente, anche nella Prima sinfonia di Mahler che segue. Estroversione, tecnica mostruosa e precisione assoluta (dirige a memoria e non si perde un attacco), così come totale è il controllo delle sonorità e del ventaglio dinamico.

Tutto ciò si rivela in un approccio alla musica tendenzialmente apollineo che fa della chiarezza espositiva e della levigatezza le sue cifre distintive. Non che la questione si risolva in un’esibizione di magistero tecnico, sarebbe ingiusto sostenerlo e pensarlo, anche se ad un primo momento il sospetto lo si avverte. In realtà quello di Gilbert è un modo di fare musica che rifugge il grande gesto e la sottolineatura estenuata per lavorare piuttosto di cesello. Sembra partire dall’idea che il compito di un direttore sia quello di tradurre in suono il testo scritto con la massima fedeltà possibile, senza il bisogno di leggerci un sottotesto o imprimervi una visione che sia necessariamente rivoluzionaria o personale. Ciò non comporta la riduzione del direttore a spartitraffico, tutt’altro. Gilbert gioca sul dettaglio, su una delicatissima flessibilità di tempi e sviluppo, sul minimo scarto: basti vedere come pennella il fraseggiare degli archi nel secondo movimento o come anticipa, con un cenno della sinistra, i re acuti dell’oboe nel suo tema che apre il terzo.

Quello che si ascolta è in definitiva un Mahler talmente equilibrato e cesellato che pare mixato alla console, che rinuncia forse a un pizzico di vertigine e di ombra a favore di una luce abbagliante.

L’orchestra si concede qualche minuscola sbavatura degli ottoni in apertura per poi attestarsi su quote siderali.

Pubblico in delirio salutato da un Preludio al terzo atto del Lohengrin elettrizzante.

Recensione pubblicata su OperaClick