14 dicembre 2017

Arenskij, Čajkovskij e il trio con pianoforte

«A la mémoire d'un grand artiste», scrive così Pëtr Il'ič Čajkovskij sulla partitura del suo Trio con pianoforte in la minore op. 50, terminato dopo un anno di turbamenti e sofferenze nell’inverno romano del 1882. Il “grand artiste” in questione è Nikolaj Grigor'evič Rubinštejn, fratello del più noto Anton, che al più giovane compositore era legato da un rapporto intenso ma accidentato e che proprio da lui si stava dirigendo quando la morte lo sorprese, a Parigi, nel marzo del 1881. Composizione eccentrica e peculiare nel catalogo di Čajkovskij, sia perché costituisce il suo primo e unico avvicinamento al trio con pianoforte – che, parole sue, detestava – sia per l’originalità della struttura: due parti, una prima malinconica ed elegiaca, una seconda articolata come tema con variazioni, su una melodia dalla chiara impronta popolare, l’ultima delle quali risulta prevalere per dimensioni e complessità della forma (di fatto una sonata), imponendosi quasi fosse una terza frazione a sé stante.


Di poco successivo, il Trio per violino, violoncello e pianoforte n.1 in re minore op. 32 di Anton Arenskij, russo anch’esso, non si discosta troppo nel carattere intensamente lirico (soprattutto nei movimenti dispari), ma risulta più tradizionale nella costruzione e nelle soluzioni armoniche.

Insomma il ritorno di Maurizio Baglini sul palco del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, di cui è direttore artistico ormai da diversi anni, si è celebrato all’insegna del tardo romanticismo russo. Repertorio che, alla prova dei fatti, pare calzare come un guanto al pianista, forse ancor più che agli altri due terzi dell’ensemble: la violoncellista Silvia Chiesa e il celebre Shlomo Mintz, violinista.

Baglini si impone sin dall’attacco del Trio di Arenskij per la bellezza del suono, che rimane immutata fino a termine del concerto. Il tocco sa essere leggerissimo o poderoso mantenendo la stessa brillantezza, ma ciò che più colpisce è la fluidità dell’esecuzione, che scorre senza fratture e senza rigidità, innervata dalla sottile flessibilità dell’agogica. Davvero una prova da incorniciare.

Silvia Chiesa fa sfoggio di un ottimo legato e di una pregevole rotondità di cavata, tuttavia, come capita spesso ai timbri più morbidi che brillanti, a pagare dazio è il volume, che a tratti soffre la maggiore esuberanza dei compagni di palcoscenico. Di contro si apprezza un’artista sensibile, che rifugge il sentimentalismo che in questo repertorio è un’ombra sempre in agguato, puntando sulla raffinatezza dell’articolazione e sulla dinamica.

Più controversa la prova di Shlomo Mintz il quale è sì musicista di grande sostanza, e lo si evince dalla pulizia della linea e dall’asciuttezza del fraseggio, ma che scansando ogni concessione all’edonismo finisce per trascurare la qualità del suono e, qua e là, incespica in qualche sbavatura d’intonazione. Insomma se da un lato conquistano la musicalità e il rigore di chi mira all’essenza della musica, dall’altro sorprende la pasta quasi metallica delle sonorità, a tratti persino graffianti (che paiono sposarsi assai meglio con la scrittura più tempestosa del bis, firmato Šostakovič).

Ciò che è fuori discussione è che Baglini, Chiesa e Mintz parlino la stessa lingua: c’è un comune sentire che giova alla coerenza interpretativa dei due lavori. Non c’è spazio per languori estatici, vibratoni svenevoli e ammiccamenti vari ma, viceversa, ciò che permea le due opere è un’urgenza incalzante e spoglia d’ogni retorica, che emerge sin dall’impronta drammatica e tagliente con cui viene affrontato l’Allegro moderato che apre il Trio di Arenskij. Non che ciò si traduca in un’omogenizzazione delle tinte e delle intenzioni lungo tutto l’arco del concerto; c’è la giusta malinconia ove richiesta (Elegia), il brio necessario nelle pagine più leggere, c’è un’apprezzabile diversificazione dei caratteri nelle Variazioni di Čajkovskij, eppure sempre senza calcare la mano.

Ottima l’accoglienza del pubblico a fine concerto.

4 dicembre 2017

Il Libro della Scienza della Musica

Partendo dalla definizione di Leonard Bernstein secondo cui la musica cosiddetta “classica” andrebbe più correttamente chiamata “esatta”, poiché strettamente vincolata ad un testo che la definisce in modo stringente, si incontrerebbe qualche difficoltà ad incasellare in questo ambito la produzione ottomana e mediorientale, che tuttavia classica lo è nei fatti. Per evitare di inciampare nel pozzo della terminologia, è sufficiente attenersi al buon vecchio adagio secondo cui esistono solo due tipi di musica: quella buona e quella cattiva. La musica che Jordi Savall ha portato al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone non è solo buona, anzi ottima, ma è musica fondamentale, ancestrale, è un condensato di civiltà.





Si parla di una tradizione secolare che è sopravvissuta grazie alla trasmissione orale e pratica, spesso, o a specifici codici di scrittura. Certo per noi, che siamo abituati ad associare la musica “colta” non solo ad una stretta relazione con il testo scritto – che negli ultimi decenni con l’evolversi degli studi filologici si è ulteriormente rinsaldata – ma anche ad un’identità autorale ben definita e storicamente inquadrata, può essere complicato avvicinarsi con la medesima disposizione intellettuale a un’arte senza padre e senza Vangelo, che ha resistito al tempo solo perché qualcuno l’ha insegnata a qualcun altro. Non solo: sovente in questo genere di espressione musicale, a differenza del repertorio classico per come lo conosciamo, viene lasciata grande libertà di manovra all’interprete, sia perché parte dell’esecuzione è basata sull’improvvisazione, sia perché alcune melodie sono talmente antiche che non si sa per quale strumento siano state concepite, non si sa dove, ed è pertanto impossibile stabilire quale sia il modo “corretto” di affrontarle.

Ci si chiede come sia possibile che il prodotto di culture tanto lontane, un prodotto per di più effimero e volatile come il suono, sia sopravvissuto inalterato generazione dopo generazione. La risposta che si è dato Savall è semplice ma convincente: perché le persone ne avevano bisogno, per ritrovare la pace e la serenità e soprattutto per rinnovare quotidianamente il legame con le proprie radici. Ed è proprio così. Ritrovarsi immersi in queste antiche melodie, così lontane dal nostro linguaggio eppure tanto vicine, pare un viaggio alla sorgente del Logos, un ritorno alla culla dell’umanità. È difficile afferrarne le ragioni ma si percepisce che questa tradizione è parte di noi e che di noi racconta qualcosa. Tali litanie circolari e liquide, per l’assenza di una scala temperata, riescono a pennellare – è davvero il caso di dirlo – il suono con un ventaglio di sfumature e cromatismi sorprendente. Inoltre reggono su un ritmo costituito da tempi composti e complessi, quasi tribali, che mutano continuamente senza lasciarsi afferrare.

Non è un caso in fondo che l’interesse per la tradizione del vicino Oriente abbia travolto molti dei più importanti compositori europei del XX secolo e che ancora oggi trovi adepti un po’ in tutti i campi, dal neoimpressionismo alla musica leggera, sia esso interpretato in chiave misticheggiante o New Age, sia con il rigore dello studioso, come nel caso appunto di Savall.

Il quale Savall parte da un testo, Il Libro della Scienza della Musica, scritto da Dimitrie Cantemir agli inizi del Settecento. Cantemir fu un filosofo, letterato, storico, musicologo,compositore, linguista ed etnografo, insomma un umanista a tutto tondo, ma fu anche ottimo interprete del tanbur (una sorta di liuto orientale le cui origini si perdono nella notte dei tempi) che dedicò parte delle sue energie allo studio e alla codificazione della musica colta ottomana, quella che si poteva ascoltare nella corte di Istanbul nei decenni a cavallo tra diciassettesimo e diciottesimo secolo. Figlio di un nobile moldavo, com’era costume dell’epoca il giovane Dimitrie fu inviato alla corte ottomana in qualità di ostaggio – la Moldavia era soggetta al dominio ottomano e queste erano le usanze – dove poté ricevere un’istruzione completa, entrando a contatto con tutte le culture che si incrociavano nella capitale dell’impero. Il palazzo del sultano Ahmed III, cui Cantemir dedicò il trattato, era infatti un centro di straordinaria varietà e tolleranza, che raccoglieva e mescolava conoscenze e tradizioni islamiche, orientali ed europee. Anche la musica che vi si poteva ascoltare, considerata all’epoca per raffinatezza e complessità persino superiore alla contemporanea occidentale, affondava le proprie radici nel folclore ma anche nella stessa musica europea, grazie all’immigrazione in Turchia di vari gruppi etnici esuli.

Nel Libro della Scienza della Musica Cantemir raccolse 355 brani, di cui 9 composti di suo pugno, ideando un sistema di notazione musicale ad hoc. Il testo raccoglie fondamentalmente dei makam, cioè delle melodie arabe strettamente codificate (sia per la composizione che per l’esecuzione), che tuttavia nella “prassi esecutiva” devono essere precedute da dei taksim, cioè dei “preludi” basati sull’improvvisazione.

Così si spiega la scelta di accostare alla musica “di corte” ottomana quella proveniente dalle tradizioni popolari circostanti, quindi sefardite, armene e greche, tramandate spesso, come si diceva, oralmente, e poi raccolte talvolta in testi specifici, com’è il caso del Voskeporik in cui il musicologo armeno Nigoghos Tahmizian ha fissato parte della storia delle sue terre.

Come detto si tratta di un repertorio di grande complessità tecnica, che pure sembra un gioco da ragazzi nelle mani degli artisti dell’Hespèrion XXI “Istanbul”, un ensemble già noto al pubblico pordenonese, composto da strumentisti di provenienza e formazione delle più eterogenee.

Haïg Sarikouyoumdjian (armeno) al duduk, una sorta di oboe dal suono ovattato ma ampio, dipinge la musica come un incantatore di serpenti. Pedro Estevan è un mago delle percussioni, non solo per il senso del ritmo ma soprattutto per i colori che riesce a trarre dai suo strumenti.

Hakan Güngör suona prodigiosamente il kanun, che ricorda un'arpa orizzontale, mentre Yurdal Tokcan, turco anch’esso, è un virtuoso dell’oud, un liuto a manico corto senza senza tasti, cosa che consente di pennellare la musica anche in intervalli più ristretti del canonico semitono.

Nedyalko Nedyalkov, bulgaro, maneggia il kaval, un flauto cromatico dal timbro flebile e “ventoso”. Il polistrumentista greco Dimitri Psonis si divide tra il saz turco, un cordofono a manico lungo, e il santoor, uno strumento antichissimo, probabilmente di origini mesopotamiche, che produce un suono tramite le percussione, con delle leggerissime bacchette, di corde disposte orizzontalmente.

E infine c’è lui Jordi Savall, viola d’arco e lyra. Seduto all’estrema sinistra del palco, quasi in disparte senza alcuna posa divistica, non solo suona da padreterno ma capisce anche quando è il momento di spiegare alla platea le ragioni del concerto, riuscendo a portarlo immediatamente dalla sua parte. E in tal senso il pubblico pordenonese è una spugna: sia forse per la giovinezza del teatro, sia per la mentalità della città, nella sala del Verdi si giudica sempre e solo dopo avere ascoltato e si affronta ogni cosa senza preconcetti e con una curiosità verginale. Poco importa se qualche applauso rimane inceppato o parte anzitempo, questo è l’atteggiamento giusto.

Dopo due ore ininterrotte di (bellissima) musica è trionfo.

1 dicembre 2017

Un Ballo in Maschera apre la stagione della Fenice

La tara che affligge il Ballo in Maschera in scena al Teatro La Fenice è una sorta di strabismo divergente: Aliverta guarda da una parte, Chung da quella opposta. Se il regista la butta in politica, o in sociologia, per il maestro coreano l’opera verdiana è fondamentalmente un affare intimo e privato. Il problema è che a entrambi manca un pezzo del puzzle e, soprattutto, che non riescono a incontrarsi a metà strada.


Myung-Whun Chung, che come da regola firma una splendida concertazione, estremizza l’interpretazione in senso “lirico”. Il suo Ballo, diretto in punta di fioretto, è un prodigio di raffinatezza e sfumature, persino di leggerezza e ironia, e funziona benissimo nel tratteggiare la vicenda amorosa soffocata dei protagonisti: il duetto del secondo atto è tutto mezzetinte e passioni trattenute, l’inizio del terzo, nella sua pudicizia cameristica, è in odore di dramma borghese. Quando invece si tratta impastare le atmosfere fosche dell’antro di Ulrica, o di spalancare gli abissi d’orrore nella scena dell’urna, ecco che manca qualcosa, sia pure soltanto un pizzico di spudorato effettismo, cosicché certe esplosioni improvvise paiono effetti senza causa, avulsi dalla linearità molto “zen” che li precede e segue. Manca il puzzo di Satàno, insomma.

Certo con Chung si vola sempre ad altissimo livello, l’Orchestra della Fenice è in ottima forma e dà il meglio di sé, gli equilibri sono soppesati al grammo, buca e palco sono un unico, oliatissimo meccanismo, l’accompagnamento alle arie è pura poesia et cetera, ma sul piano della coerenza della narrazione è lecito aspettarsi qualcosa di più da uno dei più autorevoli interpreti verdiani in circolazione.

Non si può poi escludere che una certa prudenza di fondo sia dettata dalla necessità di scendere a patti con un cast non privo di limiti. Limiti che si palesano principalmente nella protagonista femminile Kristin Lewis che, annunciata indisposta nel secondo intervallo (alla recita del 29 novembre), firma due atti al di sotto del livello di galleggiamento mentre pare riprendersi, almeno in parte, nell’ultima frazione.

Francesco Meli ha una splendida voce tenorile per pasta e volume, soprattutto nel medium, e sa manovrarla come Dio comanda (musicalità, bel legato, fraseggio elegante, dovizia di sfumature). A tratti si ha tuttavia l’impressione che la tentazione di “cantarsi addosso”, compiacendosi delle proprie virtù a discapito delle ragioni drammatiche del personaggio, prenda il sopravvento, ed è un peccato perché lo spazio per disegnare un Riccardo più asciutto e moderno ci sarebbe tutto.

Risulta corretto ma pallido il Renato di Vladimir Stoyanov, che pur sforzandosi di cesellare il canto con espressività e varietà d’accenti e dinamiche, soffre di qualche sbandamento nell’intonazione e di scarsa incisività. È viceversa inappuntabile l’Oscar di Serena Gamberoni: squillante, fresco, musicalmente a prova di bomba e padrone assoluto del palco. Una caratterizzazione da incorniciare.

A Silvia Beltrami la scrittura di Ulrica sembra stare ancora larga ma riesce in ogni caso a venirne a capo con mestiere mentre sono eccellenti tutte le parti minori, dai Samuel e Tom di Simon Lim e Mattia Denti al Silvano di William Corrò, passando per il giudice di Emanuele Giannino. Il Coro della Fenice preparato da Claudio Marino Moretti è come sempre superlativo.

Resta da dire dell’allestimento. Gianmaria Alivertache un paio d’anni fa qui aveva firmato una Mirandolina deliziosa – sposta l’azione in un’America di fine Ottocento più stereotipata che realistica, dominata dal conflitto etnico tra bianchi e neri.
L’idea potrebbe essere geniale o capziosa, poco importa, sta di fatto che non viene sviluppata in modo pienamente convincente. La questione razziale rimane sullo sfondo e poco aggiunge a un incedere drammaturgico e tecnico tendenzialmente monocorde. Alcune trovate sono indovinate, così come risulta ben realizzato qualche spezzone di spettacolo, ma nel complesso non si riesce a scansare la sensazione di un progetto arenato in quel guado che separa la tradizione più intransigente dall’innovazione, senza dire niente di rilevante né per l’una né per l’altra istanza. Lo si deve anche a una recitazione che non è particolarmente ricercata né dinamica, soprattutto per quanto riguarda i movimenti delle masse, e che fatica a calarsi nell’impianto scenografico; in tal senso è decisamente problematica la festa finale, confusionaria e rigida (e la responsabilità va condivisa con Barbara Pessina, coreografa), o la morte di Riccardo, che inizia con un improbabile sparo ad alta quota e termina con il tenore che si congeda in proscenio, senza preoccuparsi troppo di dare credibilità all’agonia che lo sta sfiancando.

Spesso si suol dire che le scene sono “funzionali” alla regia. Queste, firmate da Massimo Cecchetto, sono di gusto alterno ma se hanno un difetto è proprio la disfunzionalità: non è ammissibile che un cambio scena a sipario chiuso duri dieci minuti; la tensione si spezza e il pubblico inizia a pensare ad altro. Ad esempio a tutto ciò che poteva esserci e non c’era.

Paolo Locatelli
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19 novembre 2017

Evgenij Onegin apre la stagione del Verdi di Trieste

Čajkovskij non era certo uno sprovveduto e sapeva benissimo che nell’Evgenij Onegin succede poco o nulla, tuttavia egli capì che la profondità poetica del ritratto umano che vi è racchiuso, così semplice e universale per Tat’jana, così lambiccato per il protagonista, poteva supplire a qualsiasi carenza. Certo non è un’opera da grandi gesti o pose tragiche ma da mezzetinte e sfumature, da finezze e dettagli, nel libretto come nella musica, perché non ci sono effetti da esasperare ma emozioni soffocate, occasioni perse, ironie, silenzi, illusioni e allusioni. Non c’è nemmeno una grande morte catartica finale che stemperi la tensione ma l’ergastolo da scontare in un’esistenza patetica e infelice. Insomma Onegin non è il classico triangolo operistico “lui-lei-l’altro” e se finisce per sembrarlo vuol dire che qualcosa non va.



Giustissima la scelta di puntare sul capolavoro di Čajkovskij per l’inaugurazione di stagione del Verdi di Trieste, dove mancava dal 2009, meno quella di ripescare un allestimento dell’Opera di Stato di Sofia che sembra uscito dalla soffitta della nonna. E non è questione di tradizione o meno, di ossequio al libretto o libertà creativa, ma esclusivamente di qualità della realizzazione. Un Onegin ambientato a inizio XIX secolo è legittimo, un Onegin che non si cura minimamente delle ragioni psicologiche dei personaggi o che, peggio, le risolve affidandosi a pochi stereotipi triti e ritriti, no.

Le scene di Alexander Kostyuchenko raccontano una nobiltà ottocentesca indefinita e potrebbero andare bene per tre quarti di repertorio – niente di strano, quando debuttò al Bolshoi nel 1881 per il finale dell’opera venne riciclata una scenografia della Traviata – ma non brillano nemmeno per qualità di fattura. Una manciata di pannelli rotanti incornicia uno spazio che talora diventa un palazzo, talora un giardino stilizzato. Tutto qua. Qualche proiezione aggiunge deboli variazioni sul tema.

Su questo impianto nato vecchio Vera Petrova ci mette il carico: la sua è una non-regia povera di azione, dinamica e interazione tra i personaggi ed è un peccato perché il cast, oltre ad essere vocalmente convincente, è composto da artisti giovani, belli e sicuramente in grado di prestarsi a una recitazione più moderna e approfondita. Il primo atto è un tripudio di bamboleggiamenti, la rissa tra Onegin e Lenskij è talmente imbalsamata da sfiorare il gandhismo, il finale pare lasciato all’iniziativa dei cantanti, persino le uscite per gli applausi sono governate con imbarazzo. Il teatro, oggi, è un’altra cosa. Lo sviluppo della narrazione come flashback del protagonista è un espediente che non aggiunge nulla e non brilla nemmeno per originalità.



Fortunatamente le cose vanno molto meglio all’ascolto. Cătălin Ţoropoc ha il phisique du role del bel dandy affascinante e può fare affidamento su un vocione baritonale scuro e ampio ma ancora da sgrezzare nell’emissione e da rifinire nell’intonazione. Si gioverebbe tuttavia anch’esso di qualche indicazione di regia più dettagliata e coraggiosa che lo schiodi dal proscenio.

La Tat’jana di Valentina Mastrangelo è una piacevolissima sorpresa. La voce ha la luminosità e il candore della (quasi) debuttante e corre in sala limpida, senza incrinature e senza trucchi, soprattutto in un registro medio-acuto che suona facile e naturale. L’interprete deve ancora prendere la confidenza col palcoscenico necessaria per la grande interpretazione ma è convincente, sensibile e molto, molto preparata. C’è da scommettere che questa giovane artista, se saprà fare le scelte giuste, andrà lontano.

Il Lenskij di Tigran Ohanyan è leggerino ma ha bel timbro ed è vocalmente garbato. Anastasia Boldyreva è una splendida Olga per velluto della vocalità, bellezza della figura e personalità. Molto positive le prove di Giovanna Lanza (Larina) e Alexandrina Marinova Stoyanova-Andreeva (balia). È cavernoso ma carismatico il principe Gremin di Vladimir Sazdovski mentre Dmytro Kyforuk si disimpegna dignitosamente nei couplets di Triquet. Completano il quadro Hiroshi Okawa e Roberto Gentili, rispettivamente Capitano e Zaretskij.

Fabrizio Maria Carminati, alla guida di una buona Orchestra del Verdi, garantisce solidità, precisione e ottimo sostegno al palco ma anche un buon passo teatrale. Con il procedere delle repliche è lecito pensare che si limeranno certe piccole rigidità e che si ammorbidirà ulteriormente il suono che il direttore, giustamente, restituisce nella sua scrittura quasi cameristica.

Formidabile il Coro del Verdi preparato da Francesca Tosi.

Buon successo per tutti.


13 novembre 2017

La Quinta di Mahler secondo Myung-Whun Chung alla Fenice

L’Adagietto può spiegare per sommi capi dove risieda l’arte stregonesca di Myung-Whun Chung. Per undici minuti il suono scorre, si espande e si assottiglia, attraversa una miriade di sfumature senza mai spezzarsi. Tutto sembra svilupparsi in un’unica, infinita arcata, in un solo respiro.

È questo il suo Mahler: un prodigio di fluidità, di legato, di continuità e morbidezza. Dalla fanfara della tromba – l’ottimo Piergiuseppe Doldi – che apre la Marcia funebre fino a quella chiusa parossistica e furibonda tutto appare consequenziale, non c’è una frattura, non c’è un’idea che stoni o sembri vagamente forzata. Insomma, ancor prima che una grande lettura, quella di Chung è una lezione di concertazione in cui la cura quasi edonistica per la qualità del suono, per gli equilibri e per l’omogeneità dell’amalgama sono il punto di partenza su cui costruire il resto.


L’interpretazione diventa poi un affare di colori e articolazione, di dettagli. Chung non ostenta, non rimarca l’effetto né ipertrofizza – non ha quella propensione di certa tradizione mitteleuropea per un Mahler titanico e magniloquente - ma piuttosto ripulisce, scava, e infine, giunto all’osso, pennella. Ci sono così passaggi dalla delicatezza cameristica – la sezione centrale dello Scherzo ha una tinta lunare – ma anche risvolti demoniaci, minacciosi (certi strappi degli archi gravi fanno tremare i muri), senza mai rinunciare alla cantabilità e, soprattutto, senza alcuna traccia di meccanicità o di artificio.

Non che il discorso si riduca a un approccio esclusivamente lirico o ascetico alla Sinfonia, tutt’altro. Se c’è da scatenare l’orchestra Chung non si tira certo indietro e neppure quando si tratta si infiammare la musica, con i professori d’orchestra che in certi momenti vengono spremuti da un gesto che chiede intensità e passione, o che addensa il turgore del suono quasi scavandoci dentro con le mani. Il risultato è straordinario per ricchezza di colori, di dinamiche e di soluzioni espressive ma soprattutto per vitalità e plasticità dello sviluppo.

I violoncelli che ora borbottano, ora scalpitano nervosi, ora cantano, i violini centrano con la stessa apparente semplicità una calda pastosità, ove sollecitata, o una leggerezza straniante (nel delicatissimo inizio dell’Adagietto), gli ottoni scintillano ma sanno anche rendersi morbidi e delicati. Persino le percussioni trovano un carattere timbrico peculiare, con il timpano della brava Barbara Tomasin che pare quasi mormorare allorché riprende, in pianissimo, il tema della tromba nel primo movimento.

Insomma se il concerto esita in un successo i meriti vanno equamente condivisi con l’Orchestra del Teatro La Fenice che si presenta in forma smagliante e risponde, per precisione e soprattutto per qualità timbrica, al meglio delle proprie possibilità. Qualche minuscola sbavatura, più del collettivo che dei singoli, ci scappa ma è poca cosa, tanto più se si considera il fatto che Mahler non è pane quotidiano da queste parti, e sarebbe bello lo diventasse visto che il potenziale per suonarlo come si deve c’è tutto.

Si comporta assai bene anche Konstantin Becker, corno obbligato, che pur senza imporsi per estroversione garantisce solidità, precisione e anche bel suono (l’attacco del Rondo-Finale, ad esempio, è pregevolissimo).

Teatro strapieno e trionfo sacrosanto.

6 novembre 2017

Un'orchestra scozzese per la Scozzese

E se vi dicessi che la BBC Scottish Symphony Orchestra è una signora orchestra? L'ho ascoltata per la prima volta un paio di giorni fa al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, per l'inaugurazione della stagione musicale, e mi ha decisamente sorpreso. Sul podio il bravo Thomas Dausgaard, al suo fianco un alterno ma affascinante Nikolaj Znaider; Britten, Brahms e Mendelssohn in programma.



Oltremanica succedono cose cui non siamo abituati. Capita ad esempio che il principale operatore radiotelevisivo abbia a libro paga non una, non due, bensì cinque orchestre stabili, dalla celeberrima BBC Symphony Orchestra londinese in giù. Tra queste, all’estremo nord, c’è la BBC Scottish Symphony Orchestra, compagine poco nota dalle nostre parti ma non priva di sorprese, sia ad un approfondimento dei trascorsi, sia alla prova dal vivo. Basta spulciare nella cronologia per imbattersi in nomi di spicco, come i giovanissimi Colin e Andrew Davis, o Simon Rattle, che a Glasgow mossero i primi passi, o ancora Donald Runnicles, che ne è stato direttore principale dal 2009 fino all’arrivo di Thomas Dausgaard. Ed è proprio Dausgaard a portare la sua orchestra al Teatro Nuovo Giovanni da Udine per l’inaugurazione della stagione musicale, con un concerto che li ha visti condividere la scena con il violinista Nikolaj Znaider.

Danese, classe 1963, il direttore parrebbe un perfetto epigono della scuola nordica: concertazione capillare che non si perde un dettaglio e soprattutto non sgarra mai negli equilibri, suono intrinsecamente bello ma leggero e brillante, poca retorica e molta chiarezza. Sia nell’aspetto, sia nel gesto, mi ha ricordato il grande Herbert Blomstedt, cui lo accomuna anche la serenità gioiosa del vivere podio e musica, oltre che la consuetudine con molte orchestre scandinave e danesi.

Si presta bene, al di là dell’affinità nominale, la Scozzese di Felix Mendelssohn-Bartholdy a mettere in luce le peculiarità di orchestra e direttore. All’eccellente pulizia esecutiva si unisce infatti una luminosità del suono tipicamente british ma anche una pregevolissima vivacità narrativa, frutto di una cura minuziosa per le dinamiche e per l’articolazione.

Benché la tinta orchestrale sia più versata alla trasparenza che al calore, il suono si espande con un nitore che non scade mai nell’inconsistenza né, come capita spesso con le orchestre più “chiare” che pastose, nella secchezza. Tutt’altro, il suono è sì limpido ma bello levigato, sia nell’ottimo Mendelssohn, dipinto da Dausgaard con una spensieratezza bucolica e sorridente, a tratti con dolcezza, sia negli Interludi Marini del Grimes. I quali sono affrontati forse con poca teatralità ma con mirabile spessore sinfonico e un’attenzione meticolosa al suono (il colore delle viole è stupefacente, con la prima parte Scott Dickinson sugli scudi).

Rimane da dire di Nikolaj Znaider, celebre violinista e – meno noto – direttore d’orchestra, impegnato come solista nel Concerto op. 77 per violino e orchestra di Johannes Brahms. Tempo fa, ascoltando una straordinaria esecuzione del medesimo lavoro, ricordo di aver pensato che in quell’esecuzione splendida, rotonda e preziosa, da dieci e lode, sentissi la mancanza di qualche asperità, di una storpiatura che spezzasse l’impeccabile – ma in fondo prevedibile – perfezione. Znaider sta sull’altra sponda del fiume. La tecnica è sì quella del grande virtuoso, e la cadenza lo dimostra oltre ogni ragionevole dubbio, ma non è il tipo di solista che non si perde una nota neanche gli puntassero una pistola contro. Le sbavature ci sono, le note non perfettamente intonate pure, e c’è, a tratti, l’impressione di un navigare a vista, o quantomeno di affidarsi all’ispirazione del momento, che può lasciare perplessi. D’altro canto è innegabile che Znaider sia uomo di personalità e fantasia. Non c’è, nel suo Brahms, la ricerca meticolosa della bellezza, della fluidità, del grande legato, anzi, certi caratteri sgraziati e dissonanze sono persino sottolineati con veemenza. Eppure, nel suo approccio non sempre condivisibile, c’è coraggio, c’è istinto e c’è, senz’altro, un’urgenza comunicativa che scansa ogni traccia di affettazione. C’è poi, inutile dirlo, un controllo totale della tastiera e del ritmo nei passaggi più indemoniati che conquista il pubblico e gli vale un trionfo personale.

Dausgaard poi lo asseconda come meglio non si potrebbe: senza staccagli di dosso gli occhi, piega l’orchestra - ottima anche in Brahms - ad ogni capriccio del solista.

Trionfo generale a fine concerto, incoraggiato da due bis strappa-applausi.

29 ottobre 2017

Deserto sulla scena

C’è tradizione e tradizione: quella che – parafrasando Mahler – custodisce il fuoco della memoria e, suo contraltare, la venerazione della cenere. Affinché la fiamma non si spenga, lasciando dinanzi al pubblico un mucchietto di tiepide e languenti braci, è necessario innovare e rinnovare i topoi del passato, ridisegnandoli in funzione di una sensibilità che muta continuamente. Filippo Tonon, firma pressoché unica del Trovatore in scena al Verdi di Padova, intenderebbe farlo ma, a conti fatti, ci riesce ben poco. Sia forse per la modestia dei mezzi a disposizione, oppure per la scarsa malleabilità di cantanti e coro, quello che ne risulta è un allestimento fuori tempo massimo, statico e convenzionale – per non dire stereotipato – nella recitazione e povero sotto il profilo scenotecnico. Senz’altro, guardando all’intero arco di sviluppo dello spettacolo, ci sono una manciata di momenti felici in cui scene, artisti e luci (a tratti davvero suggestive) si fondono nel dipingere un affresco corale di forte impatto: l’apertura di sipario sulla Scena prima della “Gitana” e il carcere finale. Per il resto l’azione procede stancamente, su un palco ora troppo vuoto, ora eccessivamente affollato, senza mai (o quasi) trovare la giusta misura e scorrevolezza. I pochi orpelli in scena non riescono da soli a “fare atmosfera”, anzi, paiono ancor più futili e avulsi dinanzi alla quinta nera che li circonda e sovrasta.

Anche i costumi di Cristina Aceti, benché di pregevole fattura, ricalcano il già visto senza porsi troppe domande (perché tutta quell’opulenza per le vesti della povera Azucena?).

Foto Giuliano Ghiraldini

Non ci va tanto per il sottile Alberto Veronesi, né quando si tratta di dosare le dinamiche, costantemente impostate sul mezzoforte, né per pennellare la tinta orchestrale. Però l’Orchestra di Padova e del Veneto risponde tutto sommato bene, compatta e precisa – fatti salvi un paio di piccoli sbandamenti – e i tempi, pur soffrendo di qualche dilatazione troppo estenuata per le possibilità dei cantanti, trovano anche momenti di brillantezza incisiva, pienamente giustificata dalle indicazioni verdiane (il duetto soprano-baritono nel quarto atto è Allegro vivo come da partitura, più teso e incalzante di quanto sia dato ascoltare comunemente). I limiti veri della concertazione di Veronesi si concretizzano piuttosto nel sostegno al canto, sia per quanto concerne le arie, che scorrono costantemente su rette parallele e inconciliabili per solisti e orchestra, ma anche nei momenti d'assieme, in cui più d'un esitazione negli attacchi manda fuori giri il palcoscenico. I tagliuzzi di tradizione e le cabalette deprivate delle riprese faranno storcere il naso ai puristi ma sono l’ultimo dei problemi.

Amartuvshin Enkhbat, giovane baritono mongolo impegnato nei panni del Conte, è un'autentica rivelazione. La voce è di prima qualità per smalto e brunitura del timbro, per brillantezza, per ampiezza, non di meno la sostiene una consapevolezza tecnica d’alta scuola che le dona omogeneità, rotondità d’emissione e fluidità di legato. L’interprete è meno straordinario ma non sprovveduto sicché accenta, colora e “dice” con proprietà e consapevolezza. Il teatro esplode dopo il suo Balen e non potrebbe essere altrimenti.

Ha mezzi di rilievo, per colore ed estensione, anche l’Azucena di Judit Kutasi, la quale canterebbe anche con gusto e sensibilità, cercando in più d’un occasione di modellare la dinamica verso il pianissimo, senza accontentarsi di esibire il vocione. Purtroppo l’indugiare eccessivo in pose tragiche e l'esasperazione costante della drammaticità di toni e accenti, anziché aggiungere spessore alla performance del mezzosoprano, finiscono per metterne in evidenza i limiti di maturità e temperamento.

Più problematiche le prove delle due voci acute. Maria Katzarava è una Leonora promettente ma ancora acerba, non tanto per vocalità - ampia e ben impostata ma incostante nell’emissione - quanto nell'approfondimento musicale e soprattutto nel dominio della parte, che scende a patti con troppi vuoti di memoria ed esitazioni.

Sottotono la prova del protagonista Walter Fraccaro, il quale può sì contare su un registro acuto squillante e solido - ancorché eccessivamente nasale - ma che pare scansare sistematicamente la tentazione di alleggerire il canto, di sfumare e rifinire. Ne esce una prova muscolare ed esteriore, non sempre irreprensibile nell’intonazione e nemmeno nella musicalità, spesso sacrificata agli aggiustamenti di fonazione e posizione.

Convince il solido Ferrando di Simon Lim, il quale domina senza patemi l'intera scrittura scivolando soltanto sulle semicrome del racconto.

L’Ines di Carlotta Bellotto non demeriterebbe ma paga l'impressionante scarto di volume che la separa dalla protagonista femminile, Orfeo Zanetti è un buon Ruiz. Non si copre di gloria Luca Favaron, messo, nel suo breve inciso. Puntuale e corretto il Vecchio Zingaro di Luca Bauce.

Si comporta bene nel canto, meno sulla scena, il Coro Lirico Veneto preparato da Stefano Lovato.

Pieno successo di pubblico a fine recita, già preannunciato dai numerosi applausi a scena aperta che hanno inframezzato la recita.


24 ottobre 2017

Dal sacro al profano: Taralli e Orff al Verdi di Pordenone

Per un curioso incastro di circostanze, capita che il concerto che ha chiuso la stagione sinfonica del Verdi di Trieste apra quella in abbonamento dell’omonimo teatro pordenonese, di fatto già inaugurata dal doppio appuntamento settembrino con la GMJO.

Foto Luca A. d'Agostino/Phocus Agency © 2017
Una prima in grande stile, di quelle che spettinano il pubblico con la cascata di decibel che solo un’orchestra imponente unita a un coro bello folto - uno e trino per l’occasione – può scatenare.

Insomma c’è da ben sperare per il prosieguo di una stagione che si annuncia all’insegna dell’eterogeneità e che esplorerà generi e stili differenti, spaziando dal Novecento americano di Ellington, Gershwin e Bernstein all’archeologia musicale di Savall, dal glorioso Krzysztof Penderecki al recital della giovane Regula Mühlemann, dal grande sinfonismo, con l’Orchestra della Rai che ormai è ospite fissa del teatro friulano, ad un progetto di approfondimento sul quintetto. E molto, molto altro.

Questo primo appuntamento, già recensito da Paolo Bullo in occasione della prima triestina, cui rimando anche per approfondire la genesi dei lavori in programma, si sviluppa come un ardito percorso di “discesa” dal sacro del Psalmus pro humana regeneratione di Marco Taralli – una nuova commissione su testi biblici e francescani – al profano dei Carmina Burana. Discesa che muta in escalation se si guarda all’accoglienza del pubblico, che va scaldandosi man mano, ma anche alla qualità delle prove di orchestra, quella del Verdi di Trieste, e coro, o sarebbe meglio dire cori. Quest’ultimo infatti è formato da un trittico composto dal Coro della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, dal Coro del Teatro Nazionale Sloveno di Maribor e dal Coro di voci bianche I Piccoli Cantori della Città di Trieste, preparati da un terzetto interamente al femminile: Francesca Tosi, Zsuzsa Budavari Novak e Cristina Semeraro.

Certo non è impresa facile mettere insieme tre complessi vocali e fonderli con il giusto amalgama: il miracolo non riesce come dovrebbe nella prima parte, ove soprattutto le voci sopranili faticano a calarsi nel tessuto corale, mentre si realizza al meglio nell’operona di Orff, che suona rotonda e compatta.

Si sviluppa parallelamente la prova di Alessandro Cadario, il quale parte guardingo nella Cantata di Taralli, in cui si percepisce una prudenza dettata dalla necessità di centrare la giusta quadratura musicale, ma prende progressivamente confidenza e si sbottona completamente nei Carmina Burana, che plasma con una maggiore libertà e una più spontanea estroversione. Qui c’è tutto quello che occorre: la delicatezza e la poesia dove richieste, la trivialità nei passaggi più popolari, il coraggio di scatenare la cavalleria quando c’è da suonare un bel fortissimo. E il risultato premia direttore ed artisti, poiché il pubblico dimostra di gradire questo Orff serrato e teatrale.

Tre sono i cori, tre i solisti. Ágnes Molnár, soprano, ha voce piccola piccola ma garbata che soffre tuttavia di qualche defaillance nel sostegno quando si sale agli estremi acuti – decisamente problematici in Dulcissime - o si naviga in acque basse, ove viene sommersa dall’orchestra.

Il controtenore Jake Arditti ha anch’esso poco volume e ancor meno squillo ma si prodiga per dare senso ed espressione a quanto va cantando, talvolta eccedendo nella mimica.

Discorso opposto per Domenico Balzani, il quale ha voce di bella pasta e apprezzabile ampiezza nel medium ma soffre in alto, soprattutto nei falsetti di Dies, nox et omnia.

Buona la prova dell’Orchestra del Verdi di Trieste: precisa, pulita, solida.

20 ottobre 2017

Don Giovanni e il tempo che passa

Vedendo il bicchiere mezzo pieno, ci si può rallegrare per il successo di pubblico che il Don Giovanni di Damiano Michieletto, e incidentalmente di Mozart, sta registrando alla Fenice, marciando al ritmo di un sold out dietro l’altro. D’altro canto c’è anche un rovescio della medaglia: questo non è più - o almeno non lo è per questo giro di riprese - lo spettacolo che fu. Certo l’idea di fondo è sempre la stessa, così come rimane immutato, anche se invecchiato e con qualche cigolio di troppo, il fenomenale impianto scenico di Paolo Fantin; però vi si avverte un’inerzia stanca e iniziano a latitare quella tensione e quel senso di coerenza dello sviluppo che parevano incrollabili ma che, probabilmente, tali non erano. Lo si deve in parte alle rivoluzioni nel cast – difficile sostituire il Leporello di Alex Esposito senza stravolgere il senso dello spettacolo – o forse a una ripresa della regia meno accurata del dovuto, con qualche sottolineatura di troppo e certi momenti buttati via. 



Insomma, entrando nel repertorio del teatro, anche Don Giovanni si sta adagiando verso la routine. Niente di male, beninteso, si parla pur sempre di un grande spettacolo, che ha raccolto premi e consensi pressoché unanimi e che regge ancora su un’idea drammaturgica valida e forte. A tal proposito ribadisco quanto scritto in precedenza:

Viva la libertà! La libertà morale, intesa come coraggio di svincolarsi dagli obblighi sociali e dalle “imposture della gente plebea”, irrealizzabile chimera di uomini schiavi del sistema ed inevitabilmente attratti da chi riesce a spezzare le proprie catene per inseguirla, a costo della vita. Questo è Don Giovanni secondo Damiano Michieletto, regista cui il Teatro La Fenice di Venezia ha affidato la trilogia dapontiana, inaugurata da questo stesso titolo, ormai diversi anni fa, con un fortunatissimo e pluripremiato allestimento (scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti e luci di Fabio Barettin).

L’impianto scenografico presenta gli interni di un palazzo tardosettecentesco, claustrofobico e vagamente decadente. Un efficace gioco scenico produce un continuo mutamento degli ambienti attraverso la rotazione delle pareti, restituendo l’impressione di un labirinto privo di vie di fuga. Don Giovanni è onnipresente, proiezione dei desideri femminili e delle aspirazioni (o dei complessi di inferiorità) maschili, signore del palazzo e delle vite altrui. La sessualità – in luogo della sensualità – è esasperata, la violenza esplicita ed abusata, massimamente nella figura del protagonista, guardato con orrore e disapprovazione dagli altri personaggi (quasi dei proto-borghesi) eppure continuamente inseguito. Un Don Giovanni rifiutato ma blandito, come fosse per loro, se non personificazione dell’inconscio, il lato oscuro di sé, il desiderio di assecondare i proprio istinti più biechi, animaleschi ed immorali. E tale è l’immedesimazione tra il libertino e i suoi interlocutori che nessuno di loro saprà sopravvivere alla morte del protagonista nel colpo di teatro finale.

Anche Stefano Montanari risulta meno convincente che in occasione della scorsa ripresa, perdendosi nella smania di voler dire troppe cose. La continua ricerca dell’effetto, la sottolineatura della sottolineatura, il procedere per strappi e distensioni, le esasperazioni delle dinamiche e delle modulazioni agogiche, oltre a dare un senso di frammentarietà, finiscono per rendere questa direzione – nemmeno troppo alla lunga – leziosa e barocca. Certo ci sono momenti felici, non mancano idee e intuizioni interessanti, però il quadro complessivo lascia il sentore di un horror vacui musicale che traballa sul confine della stucchevolezza.
L’orchestra è meno in forma del solito – almeno alla recita del 18 ottobre – mentre è sempre una garanzia la bravissima Roberta Ferrari al clavicembalo.

Alessandro Luongo è un Don Giovanni di bella voce e presenza, sa cantare – la Serenata lo dimostra alla perfezione – ma eccede nel cercare il grande gesto.  
Francesca Dotto è una Donna Anna molto espressiva e musicale, in netta crescita rispetto alle prove passate, Omar Montanari un buon Leporello.
Stanno ormai stretti i panni di Don Ottavio ad Antonio Poli, che fatica a manovrare il suo vocione nella scomoda tessitura della parte, soprattutto sulle note di passaggio. Carmela Remigio ripropone la sua collaudatissima e temperamentosa Elvira.
Sorprende positivamente la Zerlina di Giulia Semenzato, voce di bella pasta e giusta verve, mentre risulta più pallido il Masetto di William Corrò. Per il Commendatore di Attila Jun vale un vecchio adagio: la potenza è nulla senza controllo.

Bene come sempre il coro preparato da Claudio Marino Moretti.

Teatro esaurito e successo pieno per tutti.



22 settembre 2017

Salonen e l'orchestra invisibile

Sul finale de La mort de Mélisande, Esa-Pekka Salonen riduce l’orchestra a una fiammella lontana e fioca, quasi assorbita dal buio della sala. L’impressione è che le corde degli archi siano sfiorate da una bava di vento o dal solo pensiero. Un suono sottile, inafferrabile, sospeso in una dilatazione dei tempi talmente estenuata da sembrare insostenibile.


ph. Maurizio Brenzoni

Il matrimonio tra Esa-Pekka Salonen, cinquantanovenne compositore e direttore finlandese, e la Philharmonia Orchestra di Londra è questo: un’identità timbrica e stilistica inconfondibile, una reciproca identificazione che si rivela nella musica, nella qualità del colore orchestrale, dal caratteristico tepore, nella sua trasparenza prodigiosa, in una morbidezza luminosa ma sobria. In tal senso l’impronta del Maestro è evidente, basta fermarsi ad analizzare l’evoluzione dell’orchestra, del suo carattere, nel corso degli anni; e fortunatamente non mancano le opportunità per farlo.

La storia della formazione inglese è curiosa: nacque nel 1945 per volontà di Walter Legge, leggendario producer della Emi, il quale radunò alcuni tra i migliori musicisti europei e li mise sotto lo stesso tetto (con Herbert von Karajan padrone di casa), al fine di garantire uno standard qualitativo di altissimo livello per le sue incisioni. Quando, nei primi anni ‘60, il progetto divenne insostenibile per l’etichetta inglese, l’orchestra fu dismessa. I musicisti e l’allora direttore principale, Otto Klemperer, non si arresero e decisero di rifondarla, con il prefisso “New” che sarebbe poi decaduto. Di lì in avanti la Philharmonia è cresciuta sotto la guida di alcuni tra i più grandi direttori del secolo (vi si sono avvicendati anche gli italiani Riccardo Muti e Giuseppe Sinopoli), fino a giungere all’attuale “era Salonen”, ormai prossima al giro di boa dei dieci anni. Un connubio felice, come si diceva, sia per l’estensione del repertorio, sia appunto per la tipicità del suono, sia – in fondo lo si dà per scontato – per la qualità tecnica mostruosa dei professori d’orchestra.

Se ne è avuta una riprova in occasione del recente ritorno in Italia, al Teatro Filarmonico di Verona, per Il Settembre dell’Accademia 2017.

Sibelius e Beethoven in programma. Diverso l’approccio, com’è ovvio che sia (orchestra sontuosa per il finlandese, più scarna per il tedesco), ma medesimo percorso di avvicinamento alla partitura. Salonen parte dalla forma, analizza, spiega, e poi si spinge oltre, a pennellare e raccontare. Sia nella Mort de Mélisande da Pelléas et Mélisande Op. 46 che nella Sinfonia n.6 in re minore Op. 104 di Jean Sibelius, sia nella Sinfonia n.3 in mi bemolle maggiore, Op.55 di Ludwig van Beethoven, il punto di partenza è la struttura. Ogni elemento architettonico della musica è inquadrato e pensato all’interno di un disegno, come fossero tutte tessere di un puzzle necessarie dalla prima all’ultima per la restituzione dell’immagine nella sua interezza. Salonen però non si ferma all’accademia ma riesce a infondere a un processo di analisi tanto accorto una vitalità travolgente. Le cellule ritmiche e tematiche sono sviluppate ad una ad una, si inseguono, si guardano ed intrecciano, in una narrazione dinamica e sorprendente. Ed è così perché ogni dettaglio è curato minuziosamente ma contestualizzato, ogni strumento dialoga con il resto dell’orchestra e la ascolta. Poi, inutile dirlo, il controllo tecnico del podio è pressoché perfetto: la tenuta ritmica implacabile, gli equilibri della concertazione bilanciati al millimetro, gli attacchi e la struttura del suono non temono la minima sbavatura.

Se Sibelius pare fluttuare tra le brezze nordiche della Finlandia per flessibilità e ricchezza di sfumature – Salonen lo ama e si sente: riesce ad infondervi una passione e un’intensità emotiva uniche –, il suo Beethoven è leggero e levigato ma più essenziale nelle sonorità e nell’agogica (non c’è spazio per compiacimenti ritmici esasperati, rallentandi, ammiccamenti).

Tutto riesce estremamente fluido perché vivacizzato dalla cura maniacale per l’articolazione e per i colori, e perché i cambi di tempo sono gestiti con una naturalezza che scansa ogni rischio di frattura.

La Marcia funebre è in tal senso emblematica, segnata da una drammaticità asciutta che sgorga dal contrasto dialettico tra la timida luminosità dei legni e l’ostinata, spenta cupezza di archi e timpani. Lo è forse ancor di più, per virtuosismo, il Finale, pervaso da un’elettricità danzante che va accumulandosi senza intaccare la limpidezza del contrappunto.

Trionfale l’accoglienza a fine concerto, chiuso da un ipnotico Valse triste.

ph. Maurizio Brenzoni

ph. Maurizio Brenzoni

9 settembre 2017

Un doppio inno all'amore (per la musica)

Partiamo dalla fine, dalla Turangalîla-Symphonie di Olivier Messiaen. L’inno alla vita e all’amore, alle forze creatrici e distruttrici, che fonde linguaggi antichi e remoti – vi si trovano richiami a soluzioni ritmiche della tradizione balinese, ai tāla indiani, alla musica popolare andina – con le conquiste più audaci della prima metà di Novecento, ma che guarda senza sospetti anche al pop o al jazz e, certo non ultima, alla nascente elettronica. Un’opera universale e mastodontica, per ampiezza di vedute e respiro, per ambizione e – oggi possiamo dirlo! – rilevanza storica.

Il nome stesso del lavoro, ispirato all’abbraccio di significati del wagneriano Liebestod, è un incastro sanscrito complesso e sfuggente: Lîla definisce il gioco dell’azione divina sul cosmo, in positivo e negativo, e, unita a Turanga (la misura del tempo e del movimento, il ritmo), riconduce a un moto cosmologico perenne che si fa amore, gioia e dolore, vita e morte, e così via. Tutto ciò si collega alla religiosità di Messiaen e alla sua concezione di una divinità immanente che permea la natura e che in essa si manifesta continuamente.

Anche per quanto riguarda la struttura e l’orchestrazione Turangalîla ha proporzioni colossali e rivoluzionarie: lo sviluppo in dieci movimenti ridisegna la forma della sinfonia tradizionale, l’organico mastodontico, grazie all’ampliamento della sezione percussioni e all’integrazione di una serie di strumenti inconsueti, oltre chiaramente dell’Ondes Martenot, (una sorta di theremin a tastiera creato nel ‘27 da Maurice Martenot, ingegnere e musicista), spalanca le porte verso risorse timbriche finora impensabili.

Non sorprende quindi che Ingo Metzmacher e le alte sfere della Gustav Mahler Jugendorchester, nello stilare il programma del tour estivo, siano partiti da lì, da Turangalîla, che doveva essere il centro attorno a cui costruire tutto il resto, non solo perché si tratta di uno dei massimi capolavori del secolo scorso, che il pubblico merita di conoscere ed ascoltare, ma soprattutto perché in esso, nella sua complessità e stratificazione di linguaggi e stili, si può ritrovare una sorta di condensato della musica che è stata prima e di quella che sarebbe venuta. Insomma, se la grande musica classica è sempre contemporanea, Turangalîla forse lo è un po’ di più.

Al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone quest’anno si è deciso di fare le cose in grande e di spalmare l’inaugurazione della stagione su un doppio appuntamento con protagonista appunto la Gustav Mahler Jugendorchester, che ormai possiamo ritenere l’orchestra di casa. Così, dopo una prima serata dedicata al “Novecento spettacolare”, è toccato proprio all’operona di Messiaen suggellare il progetto.

Inutile aggiungere altre parole a quanto già detto sulle qualità della GMJO che è sì, nominalmente, un’orchestra giovanile, eppure si conferma in grado di reggere i massimi paragoni in termini di perfezione tecnica, struttura del suono e identità timbrica. Ormai a Pordenone la conosciamo bene eppure ogni ritorno riesce a ridefinire, in positivo, il ricordo che se ne aveva (a maggior ragione considerando la difficoltà del duplice programma di quest’anno).

Chi invece debutta sul palcoscenico del Verdi è Ingo Metzmacher, il quale affronta questo capolavoro con l’approccio che non ci si aspetterebbe da uno “specialista” del repertorio novecentesco come lui, almeno in parte. Il suono non mira a una limpidezza analitica ma è sempre caldo, denso, quasi tardoromantico. Non che questo comporti la riduzione dell’amalgama orchestrale a una poltiglia indistinta, tutt’altro: pur nella pienezza degli impasti, Metzmacher sa sempre distillare con la necessaria trasparenza le sonorità e, soprattutto, sa dosare i volumi delle diverse sezioni in modo che nessuna finisca mai per sovrastare le altre, né per togliere spazio o risalto agli interventi solistici.

L’unico limite riguarda le dimensioni di sala e orchestra: il Verdi non è un auditorium vero e proprio e non può offrire spazi in grado di accogliere al meglio il suono oceanico dell’orchestra di Messiaen, tanto più che Metzmacher non si tira certo indietro se si tratta di scatenare i volumi o picchiare forte sulla grancassa. E in fondo è giusto così, la grandiosità dell’orchestrazione non va nascosta e non ne vanno stemperati gli spigoli, che infatti sono sempre ben in vista. Né chiaramente si rinuncia alla delicatezza, laddove necessaria (quel punteggiarsi di clarinetti, Onde Martenot, vibrafono e contrabbasso solo a inizio del Terzo movimento è pura magia, così come cattura la bellezza del Jardin du sommeil d'amour, quasi sussurrato dai musicisti).

L’approccio all’agogica, tendenzialmente rigido, è in perfetta linea con il disegno del Maestro, più versato ad esaltare l’architettura piuttosto che a pennellare i dettagli e, in tal senso, aderisce come meglio non si potrebbe al turgore del suono.

Cosa chiedere di più? Certo, ci si potrebbe aspettare qualche azzardo più deciso nell’evidenziare quel lato grottesco che in fondo qua e là ci sarebbe, o si potrebbe desiderare qualche carezza più tenera nei passaggi di lirismo, ma sono inezie. Metzmacher fa la sua Turangalîla-Symphonie e riesce, in tal senso, perfettamente coerente e compatto. Il pubblico lo capisce e lo saluta con un trionfo forse inatteso ma sacrosanto.

Valerie Hartmann, poi, è un’autorità all’Ondes Martenot e se ne capisce facilmente il motivo. Il suono straniante ed ectoplasmatico di questo proto sintetizzatore nelle sue mani si piega ad una miriade di effetti e mezzetinte. Jean-Yves Thibaudet allo Steinway è un lusso, eccezionale per virtuosismo e personalità.

Andando a ritroso lungo il cammino della doppia inaugurazione di stagione del teatro pordenonese, e passando dalla seconda serata alla prima, si fa un saltello all’indietro anche nella cronologia, pur restando in pieno XX secolo. Da Messiaen a Ravel, per rimanere in Francia, ma anche Schönberg, Gershwin e Bartók.

Anche qui Metzmacher non raffredda il suono ma piuttosto, se così si può dire, lo coccola e lo omogenizza, cercando – o incespicandovi incidentalmente, chissà – un filo conduttore che raccolga sotto un unico tetto lavori che non hanno molto in comune l’uno con l’altro.

Con Il Mandarino meraviglioso, Suite per orchestra op. 19 di Béla Bartók si tocca la vetta più alta del primo concerto. In questo repertorio Metzmacher dà prova di essere innanzitutto un mago della concertazione: gli equilibri interni all’orchestra sono millimetrici, non c’è strumento che non sia sempre perfettamente distinguibile, anche nei momenti più concitati, e la tenuta ritmica e tecnica dell’insieme non teme la minima sbavatura. Metzmacher non sviscera la partitura – o almeno non la viviseziona mettendone in evidenza il singolo particolare - ma la racconta, senza risparmiarsi le necessarie ruvidezze, dove richieste. A questo prodigio esecutivo si sommano una tensione espositiva e una pienezza di suono che producono il salto di qualità tra l’ottima esecuzione in la grande interpretazione.

Allo stesso livello la Musica di accompagnamento per una scena cinematografica op. 34 di Arnold Schönberg che apre il concerto.

La Suite n. 2 da Daphnis et Chloé di Maurice Ravel viene eseguita straordinariamente bene ma soffre una certa mancanza di lascivia e morbidezza nei colori e nell’agogica, approcciata con un rigore più tedesco che francese. In ogni caso sul piano esecutivo si vola alto, il maestro cura il suono, lo riscalda, lo ammorbidisce, sa sfumare e fondere le dinamiche, e non inciampa nella minima incertezza.

Chi, a conti fatti, convince di meno, è il Gershwin del Concerto in Fa maggiore per pianoforte e orchestra, che Metzmacher carica su una nave e spedisce verso la Mitteleuropa. L’impressione è che il direttore cerchi di avvicinare il lavoro dell’americano al sinfonismo tardo-ottocentesco, quasi volesse dimostrare che in fondo anche Gershwin può “suonare” come un epigono della tradizione musicale europea. L’idea potrebbe essere interessante, tuttavia non si riesce a scansare l’impressione di un’estraneità stilistica di fondo. Certo l’orchestra suona divinamente e dietro ogni nota, ogni scelta, c’è un pensiero (non c’è un’arcata che non sia perfettamente dosata, tutto è legato e morbido, ogni equilibrio è lavorato). Però non è Gershwin. Cosa manca? Lo swing innanzitutto, e poi il coraggio di rischiare e di sporcarsi le mani, di graffiare. Manca l’aria di New York, insomma.

E tutto ciò pare ancor più evidente di fronte al pianismo di Jean-Yves Thibaudet, che questa musica la sa respirare. Il suo è un virtuosismo il giusto morbido e scanzonato, flessibile sul tempo quel tanto da animare la vena jazz della scrittura di Gershwin ma anche capace, quando serve, di frustare i tasti come una perfetta macchina ritmica, il finale dell’Allegro agitato lo dimostra senza lasciare spazio a dubbi. A Thibaudet non interessa la brillantezza fine a se stessa del suono ma solletica i tasti quasi ballandoci sopra con le mani, per sviluppare la musica con l’articolazione e la plasticità del tempo, e l’effetto è quello giusto. Il pubblico lo capisce e gli tributa un successo personale.

Doppio concerto dunque e doppio trionfo, persino clamoroso per la Turangalîla-Symphonie. Probabilmente la GMJO ritornerà anche il prossimo anno, e sarebbe il quarto consecutivo, nel frattempo la aspettiamo per il tour pasquale con Vladimir Jurowski e Lisa Batiashvili (31 marzo, segnatevelo). 
Foto Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone

Foto Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone

25 agosto 2017

La residenza artistica della GMJO

A metà agosto Pordenone è stata invasa da un'orda di musicisti giovani e belli. Si tratta di un grande progetto che - si spera - proseguirà anche nei prossimi anni: la residenza artistica della Gustav Mahler Jugendorchester. Musica ovunque, performance in piazza, prove aperte al pubblico, due concerti in giro per il Friuli (ne scrivo qui) e molto altro, in attesa della doppia inaugurazione del 6 e 7 settembre. 



La Gustav Mahler Jugendorchester nacque nel 1986 da un'intuizione visionaria di Claudio Abbado. Il crollo del muro di Berlino era di là da venire e l'Europa, benché pervasa da un'aria nuova, reggeva ancora su due piedi separati da un oceano e al suo interno era spezzata da una linea ininterrotta di frontiere. In questo quadro va collocata l'idea di istituire un'orchestra che unisse giovani musicisti provenienti da ogni angolo del continente (oggi sono ventidue le nazioni rappresentate), per trovare i denominatori comuni tra culture cugine e confinanti, partendo proprio dal più universale tra i linguaggi: la musica.

Non sorprende che a oltre trent’anni di distanza dalla fondazione, e a tre dalla scomparsa del grande direttore, lo spirito originale del progetto resista inalterato, quasi fosse una missione da portare avanti per il Segretario generale Alexander Meraviglia-Crivelli, vero e proprio custode del fuoco, e il suo staff. E non è facile né scontato, in fondo quello delle grandi orchestre è pur sempre un mercato con le sue logiche e i suoi meccanismi, cui sarebbe più facile piegarsi che resistere impugnando un ideale.

Insomma, Abbado è una sorta di padre costituente per la GMJO: egli ne tracciò i confini (anche per se stesso - ricorda Crivelli - impedendo sistematicamente che il progetto potesse diventare una sorta di giocattolo con cui dilettarsi), i caratteri e le regole, disegnò di suo pugno l’identità di quella che non doveva essere solo una macchina musicale perfetta ma ancor prima un modello di progetto artistico e culturale. Un'orchestra "senza padroni" ma aperta ad ogni collaborazione proficua e costruttiva, senza vincoli né case, tenuta insieme dal solo desiderio di fare musica ad altissimo livello. I centododici effettivi sono stati infatti selezionati da una base di partenza di oltre duemilacinquecento candidati, non è un caso che da questo pozzo attingiamo regolarmente le principali orchestre europee per rimpolpare gli organici.

Non di meno, al netto del turnover dei professori e dell'assenza di un direttore stabile, la Jugendorchester ha un suo carattere timbrico ben definito, un suono caldo e pastoso che si rinnova stagione dopo stagione e soprattutto un’energia, quella sì, unica.

Lo sa bene il pubblico del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, che ormai è più di una tappa abituale nell’eremitaggio tra le capitali della musica della Gustav Mahler Jugendorchester, anzi, ne è diventato la vera e propria dimora. Dopo le inaugurazioni delle ultime due stagioni, un’Ottava di Bruckner diretta da Herbert Blomstedt prima e un concerto mahleriano affidato alla bacchetta di Philippe Jordan poi, il rapporto tra il teatro e l’orchestra è evoluto in una collaborazione più solida e profonda, sancita dalla residenza estiva. Ciò significa che la GMJO si è trasferita nella città per una settimana durante la quale ha preparato la tournée estiva, assieme agli artisti che ne prenderanno parte: il direttore Ingo Metzmacher, il pianista Jean-Yves Thibaudet, Valérie Hartmann-Claverie con il suo Ondes Martenot e il direttore assistente Lorenzo Viotti. Il che, com’è evidente, consente di perfezionare la qualità esecutiva delle performance (Thibaudet lo spiega bene: una settimana di prove per preparare un programma è un’occasione unica, impensabile altrove), di cementare il rapporto tra i musicisti, di cesellare, attraverso un lavoro minuzioso e ossessivo di rifinitura, ogni battuta.

Non si pensi tuttavia che il progetto si limiti alla crescita musicale ed artistica dell’orchestra, perché va ben oltre, comportando diverse opportunità collaterali per la città, la regione e soprattutto per il pubblico. Si parla di un paio di concerti diretti dallo stesso Lorenzo Viotti ad Aquileia e Tolmezzo, che ne hanno confermato la statura di interprete, di prove aperte e, nella serata conclusiva della residenza, di una serie di iniziative in piazza, con piccoli ensemble distribuiti nelle vie del centro, oltre chiaramente ai vari incontri incidentali tra il cittadino comune e i musicisti, che per giorni hanno attraversato e vissuto la città. Perché si tratta pur sempre di ragazzi che dopo una giornata di prove hanno voglia di stare insieme, di festeggiare, che nelle pause si gettano nella piazzetta davanti al ridotto per giocare a pallone e si imboscano negli angoli del foyer. Chiaramente tutto ciò dà vita a un clima di entusiasmo che si riflette nella musica e che, unito alla curiosità e alla verginità di esperienze dell’orchestra, si traduce nella possibilità di suonare senza condizionamenti e con la massima disponibilità a sperimentare, scongiurando il rischio di scivolare nella routine, o nella tradizione, che può esserci invece con le grandi orchestre stabili – lo spiega bene Lorenzo Viotti.

Insomma non si tratta di un'iniziativa autoreferenziale né di un mero, benché ambizioso, progetto artistico ma di una visione ben più ampia, che coinvolge la vita culturale della città e del pubblico, un pubblico che è sì giovane e forse talvolta scostante ma che ha voglia di musica, e la curiosità di lasciarsi condurre da un teatro che spalanca le porte e gli va incontro.

Dopo le varie tappe del tour (Bolzano, Salisburgo, Amburgo, Amsterdam, Dresda, Milano…) la GMJO tornerà a Pordenone per un doppio concerto che aprirà la stagione: il 6 settembre con musiche di Schönberg, Gershwin, Bartók e Ravel, il 7 con Turangalila di Messiaen. Pare sia in programma anche un terzo appuntamento, ancora da confermare ufficialmente, in occasione del tour pasquale. Noi ci saremo.



Foto Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone

Foto Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone

Foto Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone
Foto Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone

19 agosto 2017

Il gallo e la tartaruga

Nel grande mosaico della Basilica di Aquileia c’è una scena che ritorna due volte, la raffigurazione della lotta tra un gallo e una tartaruga. Il gallo, che canta il sorgere del sole, rappresenterebbe il Bene, la tartaruga, etimologicamente “abitante del Tartaro”, il Male. Che il male, in senso lato, infiltri il nostro quotidiano è sotto gli occhi di tutti, negli ultimi giorni ancor più del solito. Ci sono però i galli che combattono questi abissi di orrore e lo fanno nell'unico modo possibile, impugnando come arma quella bellezza che è parte della nostra cultura, della nostra identità.

Può darsi che, come scriveva Auden, non ci sia sole d’estate in grado di dissolvere le tenebre diffuse dai giornali, eppure ieri, proprio ad Aquileia, un raggio di luce limpida, incandescente, lo si è visto. Un concerto.

Certo le possenti mura della Basilica non sono fatte per accogliere il suono di un’orchestra sinfonica, che inevitabilmente sbatacchia tra una navata e l’altra con qualche eccesso di rimbombo. Ma sono dettagli, perché lì dentro, seduti alla buona su quel mosaico del IV secolo, si sente qualcosa di più, qualcosa che trascende la musica - suonata peraltro ottimamente dalla Gustav Mahler Jugendorchester diretta da Lorenzo Viotti.



Ascoltavo Viotti per la prima volta ed è stato una rivelazione. Basta l'attacco dell'Incompiuta per capire che, nonostante la giovane età, questo direttore ha un’idea chiara del suono che vuole, il seguito conferma che sa anche sfumare e mescolare i colori senza fratture e che, soprattutto, sa concertare. Il suo Schubert è pennellato ma incalzante, duttile ed equilibrato nelle sonorità ma increspato quel tanto da lasciare intravedere, tra le righe, il futuro che scalcia .

Difficile stabilire fin dove arrivino i meriti del maestro e dove inizino quelli della Gustav Mahler Jugendorchester che si conferma la straordinaria miscela di tecnica ed energia che conoscevamo. I ragazzi della GMJO – a chiamarli “professori d’orchestra” sembra quasi di rubare qualcosa alla loro giovinezza, anche se di fatto lo sono – lavorano insieme da pochi giorni, ma non si direbbe.

Il suono ha corpo ma non pesa, i pianissimi sono eterei e si percepisce, in ogni istante, un senso di verità e una dedizione alla musica assoluti. E poi c’è sempre quel coraggio di suonare “senza rete di protezione” di cui scrissi dopo lo straordinario Maher dello scorso anno. Stare sul podio di fronte a musicisti di questo livello è come cucinare con ingredienti di prima qualità, non possono che uscirne prelibatezze. Infatti lo chef Viotti serve un'ottima cena.

Ci sarebbe anche una Quinta di Mendelssohn di cui parlare, bella, bellissima e soprattutto c’è un Ave Verum Corpus finale che toglie il fiato per la delicatezza e l’intensità che ci mettono tutti. Lo cantano gli stessi musicisti ma, se non me l’avessero detto, avrei giurato si fosse unito a loro un coro di professionisti.

Questa sera si replica a Tolmezzo e nei prossimi giorni sono previste altre iniziative che trovate sul sito del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, dove la GMJO è attesa per la doppia inaugurazione in 6 e 7 settembre.

Paolo Locatelli

2 agosto 2017

Sinfonica in piazza? A Spilimbergo si può

In estate per i giovani musicisti fioccano le opportunità, tra corsi, masterclass, ensemble giovanili, campi scuola e chi più ne ha più ne metta. Opportunità che spesso si rivelano un vantaggio indiretto per il pubblico, che vede l’offerta musicale aumentare vertiginosamente, per di più in un periodo in cui i teatri sono chiusi per ferie.


Guardando solamente al Friuli occidentale si scopre che nell’arco di poche settimane si susseguono i corsi di perfezionamento dell’Istituto Fano, la settimana di lavoro dell’Alma Mahler Kammerorchester a Villa Manin e la residenza estiva della Gustav Mahler Jugendorchester al Verdi di Pordenone. Il tutto si traduce in una serie di concerti e appuntamenti, quasi sempre gratuiti e non di rado di buona qualità.

È il caso appunto del progetto portato avanti dall’Istituto Musicale Guido Alberto Fano che, ormai da diversi anni, organizza un’Accademia di corsi internazionali di perfezionamento che culminano in un doppio concerto: una prima serata veneziana (quest’anno al Malibran), una replica a Spilimbergo, in piazza. Ciò è reso possibile dalla collaborazione con il Teatro La Fenice che “presta” molti professori d’orchestra in veste di docenti prima, di concertisti poi.

Al di là della crescita artistica individuale cui mirano le iniziative di questo tipo, il risultato più sbalorditivo è l’assemblaggio, nell’arco di pochi giorni, di un’orchestra sinfonica vera e propria, composta per lo più da ragazzi che sono spesso digiuni di esperienza nella musica d’insieme (vedere quel violoncellista biondino, che avrà sì e no dieci anni, accanto alla prima parte dell’Orchestra della Fenice è una cosa che riempie il cuore).

Si aggiunga poi che alla prova del palco questa compagine – anzi, sarebbe più corretto parlare di due compagini: l’Orchestra a fiati Alpe Adria, il cui nome suggerisce la composizione prevalente, e l’Orchestra Sinfonica La Macia, rimpolpata negli archi - regge con una qualità e una sicurezza da professionisti.

Merito degli insegnanti che hanno preparato i musicisti, e che accanto a loro si sono seduti a suonare, e merito del maestro José Rafael Pascual Vilaplana, che concerta con scrupolosità e pragmatismo ma senza rinunciare a “fare musica”. Insomma non c’è niente di scolastico o ingessato nella prova dei ragazzi, tutt’altro, e se qua e là si percepisce qualche piccola esitazione, a onor del vero assai poche, la compattezza e la quadratura dell’insieme sono quelle che ci si aspetta da un’orchestra “vera”.

Le Evocazioni di Paul Huber e le Metamorfosi Sinfoniche su temi dalla Terza sinfonia di Saint-Saëns di Philip Sparke, affidate all’orchestra a fiati, aprono il concerto con la giusta baldanza e ci mettono poco a silenziare il vociare dei bar di Piazza Garibaldi. Suono pieno e scintillante, precisione e pulizia, esattezza ritmica, c’è tutto quel che serve.

I brani tratti dalla Bella Addormentata di Čajkovskij, che danno il via alla prova dell’Orchestra Sinfonica, tradiscono un filo di emozione nell’Introduzione ma proseguono in crescendo, tuttavia ciò che colpisce e conquista maggiormente è l’ottimo Bolero di Ravel che segue. Vilaplana lo stacca rapido, ma senza mai perdere un gusto molto “francese” per le nuances dinamiche e la leggerezza; la qualità dei musicisti impegnati come prime parti e del rullante – vera e propria spina dorsale del lavoro – fa il resto.

Non è facile il Bolero, che esige una solidità strutturale, ritmica e musicale, dell’orchestra e una spiccata sensibilità negli interventi solistici, eppure all’Orchestra La Macia riesce benissimo. Il pubblico se ne accorge e chiede il bis. Successo pieno.