24 dicembre 2023

Myung-Whun Chung dirige Beethoven e Stravinskij

   Negli ultimi anni Myung-Whun Chung si è autoesiliato in un repertorio sempre più ristretto, riconducibile grossomodo a una manciata di compositori tra i quali Beethoven occupa una posizione di predominio. Sembrava essere invece sparito dai suoi radar Igor Stravinskij, che pure negli anni francesi alla Bastille prima e all’Orchestre Philharmonique de Radio France poi aveva rivestito un ruolo tutt'altro che marginale nella sua attività, sia dal vivo che in sala di registrazione. Almeno fino ad oggi.

Myung-Whun Chung dirige Beethoven e Stravinskij
foto Teatro La Fenice

   L’occasione di riascoltare Chung alle prese con il compositore russo l’ha offerta il Teatro La Fenice con il secondo concerto della stagione sinfonica 2023-24, primo passo di un riavvicinamento che nei prossimi mesi coinvolgerà anche altre orchestre, tra cui quella di Santa Cecilia, dove a gennaio il direttore coreano riproporrà il medesimo programma: Sinfonia n. 6 in fa maggiore op.68 seguita da Le Sacre du printemps.

   La Pastorale già sulla carta pareva un lavoro che ben si sposa con le caratteristiche del direttore, con la sua delicatezza di trama e il clima arcadico, ideali per un musicista il cui approccio è più versato a legare e ammorbidire che enfatizzare i grandi slanci drammatici. Alla prova dei fatti è proprio così. Chung asseconda lo sviluppo costruttivo della pagina senza sviscerarne con puntiglio didascalico il processo costruttivo tema per tema, ma dando agio ai rivoli orchestrali di distendersi come giocassero a rincorrersi e intrecciarsi. Qualcosa che emerge in particolar modo nel secondo movimento con una naturalezza commovente.

   È un Beethoven sorgivo e crepitante, animato da una equa distribuzione di plasticità nel modellare le voci orchestrali e tensione ritmica, ma altresì privo di gesti teatrali forti o di marcature, come lo pervadesse una serenità di fondo, in cui la natura “evocata” non appare mai come minacciosa o imbronciata nemmeno nei suoi sfoghi più tempestosi, ma conciliante e benigna.

   L’approccio a Le Sacre du printemps non è dissimile. Chung non ne estremizza la dimensione barbarico-tribale, né calca la mano sui tratti animaleschi - quelli che Bernstein riconduceva all’istinto riproduttivo - e grotteschi, ma la sveste delle stratificazioni di significati che vi sono stati accostati nel tempo, limitandosi, si fa per dire, a svelare la pagina. Ne esce una prova di virtuosismo strumentale e pilotaggio ad alta velocità in cui l'impulso ritmico prevale sul colore. Non è insomma un Sacre caricaturale o acuminato, ma più versato alla scorrevolezza e all'equilibrio.

   E qui l'Orchestra della Fenice, già protagonista di una prova maiuscola per nitidezza nella sinfonia di Beethoven, sorprende. Sorprende perché quel velo di cautela e di incertezza che ci si potrebbe aspettare da una formazione disabituata a questo repertorio semplicemente non si avverte. Tutt’altro, l'orchestra non si limita a restituirne un'esecuzione dignitosa e corretta, ma azzanna la pagina con coraggio affidandosi e assecondando il podio in ogni sua sferzata e palesando una qualità dei singoli mai disgiunta dalla brillantezza di fondo dell’amalgama.

   Successo molto caloroso sia dopo la prima parte che a fine concerto.

16 dicembre 2023

Dall'Ararat alle Alpi

    Da vent’anni, l’11 dicembre si celebra la Giornata Internazionale della Montagna, una ricorrenza che il Teatro Verdi di Pordenone ha deciso di includere nella programmazione artistica vera e propria. Ormai da qualche tempo infatti il teatro ha iniziato a proiettare delle ramificazioni della sua attività sul territorio, in particolare verso alcuni centri montani della provincia, nell’ambito del “Progetto montagna” coordinato insieme al CAI con “l’obiettivo è di stimolare la riflessione sulla salvaguardia della natura, sulla valorizzazione dell’ambiente, sulle conseguenze del cambiamento climatico in atto a livello globale e sul fenomeno dello spopolamento e abbandono della montagna”. Un progetto che oggi pare sul punto di espandersi ulteriormente con il Festival del Teatro di Montagna, che secondo i piani dovrebbe esordire nel 2025.

Armenian National Philharmonic Orchestra Teatro Verdi Pordenone


   La serata di cui si racconta, con protagonista la Armenian National Philharmonic Orchestra, scavalla decisamente dai confini locali, come suggerisce il titolo “Dall’Ararat alle Alpi”.

   Benché la quasi centenaria orchestra armena non goda della fama che meriterebbe - alla prova del palcoscenico dimostra di essere una compagine dall’identità timbrica ben definita e preziosa - scorrendo la sua storia ci si imbatte persino nel nome di Valery Gergiev, che ne fu direttore principale tra il 1981 e l’85. Ha ben altre dimensioni la reggenza di Eduard Topchjan, che guida la formazione sin dal 2000.

   A vedere il suo gesto squadrato, quasi da maestro di banda, difficilmente si potrebbe immaginare che quello sbracciare didascalico si traduca in una flessuosità musicale tutt'altro che imbalsamata e in una delicatezza di tratto da vero artista del podio. Non lo si apprezza granché nel brano di apertura, un lavoro del 1917 di Gian Francesco Malipiero non particolarmente ispirato (Armenia, canti armeni tradotti sinfonicamente), mentre pare già evidente nel Concerto per violino e orchestra di Aram Khachaturian. Composto negli anni Quaranta del Novecento per David Oistrakh, il concerto sollecita il virtuosismo strumentale in tutte le sue declinazioni, dalla destrezza in velocità alla palette timbrica. Anush Nikogosyan ha qualità tecnico-espressive di prim’ordine, sia per la capacità di sbalzare colori e dinamica (anche verso pianissimi assai suggestivi), sia per la spontaneità nel porgere la frase musicale, e che dimostra altresì una solida intesa con il direttore di cui è stata allieva e con cui pare condividere una visione antiedonistica del racconto musicale, anche in una pagina così pirotecnica.

   La Sinfonia delle Alpi che segue mette in mostra un’orchestra dalle qualità sorprendenti e, per certi versi, fuori dal tempo. A fronte dell’ormai diffuso conformismo di identità di orchestre più o meno blasonate, la Filarmonica armena ha un bel suono denso e tornito che ricorda, con le dovute cautele, le grandi orchestre russe, ma è altresì una pienezza d’impasto tutt’altro che greve, ma estremamente mobile e vellutata. In corso d’opera si apprezza inoltre un lavoro di concertazione attentissimo da parte del direttore, che ben bilancia equilibri interni e compattezza, ma anche una qualità strumentale delle sezioni stesse eccellente, che tradisce qualche piccola incrinatura solo verso la fine del concerto, probabilmente più per stanchezza che per veri e propri limiti intrinseci.

   A fine concerto un bis inatteso: il Lied Beim Schlafengehen dai Vier letzte Lieder dello stesso Strauss affidato al soprano Hrachuhi Bassénz accompagnato, ancora una volta, da Anush Nikogosyan negli interventi del violino solo.

   Successo molto caloroso e prolungato a fine concerto.

14 dicembre 2023

Robert Trevino dirige la Terza Sinfonia di Mahler

   Pare consolidarsi sempre più il rapporto tra il Teatro La Fenice e Robert Trevino, che dopo un paio di ospitate negli anni scorsi, evidentemente andate a segno, è stato invitato per l’inaugurazione della stagione sinfonica. Occasione doppiamente gustosa dato che il menù proponeva quel mastodonte inafferrabile e piuttosto raro che è la Sinfonia n. 3 in re minore di Gustav Mahler, un’opera ideale, nella sua maestosità, per dare lustro ai complessi di casa.



Robert Trevino Terza Sinfonia di Mahler
foto Teatro La Fenice

   Di fronte alla creatività mahleriana, soprattutto quando è frastagliata e pervasa da un afflato universalistico come nella Terza, l'interprete si trova di fronte a due estremi, che possono essere conciliati con diversi gradi di coerenza. Da un lato può cercare di addolcire i tratti, mirando a una lettura organica che, a fronte di un minor rischio di frammentarietà, richiede un'ampiezza di respiro e spalle forti per scongiurare cali di tensione e certa monotonia. Dall'altro lato c'è l'opzione di sbalzare i contrasti, enucleando e cesellando cellula per cellula il materiale musicale adoperato dal compositore, con il pericolo tuttavia di incartarsi nella fluidità d’assemblamento.

   Il Mahler di Trevino sta a metà strada tra i due poli opposti. È inquieto e incalzante, pervaso da un’irruenza tempestosa, ma non eccessivamente lambiccato. È un Mahler che si infiamma nei passaggi più estroversi e si ripiega - va detto, con un po’ di maniera - allorché la dinamica si fa più soffusa e i tempi si dilatano. Insomma Trevino non è il genere di direttore che asseconda placidamente lo sviluppo orizzontale della sinfonia, modulandone le piccole ondulazioni di percorso per definire un’ampia parabola, ma piuttosto lo spinge in costanti impennate verticali, secondo un andamento quasi sinusoidale. Scelta che si rivela tutt’altro che sprovveduta, dal momento che esige un minore sostegno narrativo e un più limitato lavoro “di fino”, a fronte di un’elevata sollecitazione del virtuosismo “svelto” nei passaggi più accesi, che per altro la bacchetta tiene sempre in saldo controllo.

   Trevino non dà spiegoni, non ha pruriti iperanalitici, ma racconta la sinfonia come fosse un testo teatrale, senza scansare gli spigoli ma nemmeno avvitandosi su sé stesso nella ricerca maniacale del particolare a scapito della visione d'insieme. È per altro un direttore molto “gestuale”, la cui mimica e il cui movimento determinano fortemente la risposta dell’orchestra, ma che dimostra altresì di saper ben concertare, con equilibri interni sempre ben soppesati a dispetto dell’affollamento del palcoscenico, persino sovradimensionato per le dimensioni della sala.

   L’Orchestra della Fenice nell'occasione dà prova di una resistenza da maratoneta e di qualità rimarchevole soprattutto negli archi, che si dimostrano straordinariamente duttili e morbidi nonché capaci di esprimere un legato di sezione d’alta scuola, mentre inciampa in qualche pasticcio disseminato tra i tantissimi fiati. Peccati veniali nei quasi cento minuti lungo cui si espande la Sinfonia.

   Nel complesso di un’esecuzione pregevole le poche riserve riguardano alcuni particolari stridenti, come la marcatura jazzistica di certi portamenti nell’accompagnamento al Lied, per altro meravigliosamente colorato dalla grande Sara Mingardo. Non è una questione stilistica, quanto pragmatica: se determinate idee una volta messe in pratica “suonano male”, nel senso che proprio non vengono, sarebbe saggio accomodarle verso soluzioni più caute.

   È molto positivo il contributo delle voci femminili del Coro della Fenice e dei Piccoli Cantori Veneziani, preparati rispettivamente da Alfonso Caiani e Diana D’Alessio, nel quinto tempo.

Successo caldo ma frettoloso a fine performance.

11 dicembre 2023

Note su note: lo Strauss di Andris Nelsons

   In casa Deutsche Grammophon Andris Nelsons è tenuto in grande considerazione. Alle integrali delle sinfonie di Beethoven, Shostakovich e Bruckner, che si è da poco conclusa con l’ultimo capitolo, si aggiunge un nome nuovo, quello di Richard Strauss. È lui il protagonista del box inciso dal direttore lettone con le sue due grandi orchestre, la Boston Symphony e quella del Gewandhaus di Lipsia, accanto a un paio di guest star d’eccezione come Yuja Wang, impegnata nella Burleske in re minore, e Yo-Yo Ma, nel Don Quixote. Una raccolta di sette dischi in cui compaiono praticamente tutti i capisaldi della grande produzione sinfonica del compositore tedesco, ma anche qualche pagina meno frequentata. Quanto allo stile, il prodotto non si discosta dalle caratteristiche delle precedenti uscite discografiche di Nelsons. C’è molta esuberanza e una chiarezza espositiva di alta scuola. Insomma, è il più tipico dei prodotti da grande mercato internazionale dei giorni nostri: un eccellente “primo ascolto” buono per farsi un’idea di massima sulle tendenze esecutive mainstream di un determinato autore al più alto livello tecnico immaginabile.

   

Richard Strauss by Andris Nelsons Deutsche Grammophon

   

   Quel che davvero vale l’acquisto del cofanetto è la sontuosa qualità del suono delle due orchestre e la fluidità con cui Nelsons sviluppa il materiale. È uno Strauss bilanciato tra un gusto per così dire mitteleuropeo, di stampo tradizionale, e un’estroversione più americana, in cui ottoni percussivi e taglienti si appoggiano su un tappeto degli archi estremamente soffice. Certo, Nelsons non è il genere di musicista che ribalta le certezze con una proposta dalla forte originalità, ma è piuttosto un rebooter della tradizione. Un rassicurante e dotatissimo affabulatore di talento, che rinfresca la lezione dei classici con sonorità più moderne in termini di asciuttezza. Uno Strauss simile non può non piacere, perché è limpido, virtuosistico, levigato e superbamente suonato. Certo, ci si può chiedere cosa aggiunga alle sterminate librerie del genere. Forse in valore relativo non molto, se inquadrato nel contesto della discografia straussiana, ma in assoluto c’è poco da discutere: è un gran bel prodotto.


6 dicembre 2023

Intervista ad Angela Denoke

Intervista inedita al soprano tedesco Angela Denoke realizzata nell'estate del 2020, in occasione della tournée estiva con la Gustav Mahler Jugendorchester accanto al giovane direttore Tobias Wögerer

   La sua storia è atipica. Arrivata al canto relativamente tardi, dopo un brevissimo tirocinio nella provincia tedesca venne catapultata dal duo Abbado-Mortier nell’Olimpo di Salisburgo, da cui non si sarebbe più schiodata. Quell’azzardo non solo le spalancò le porte del successo, ma anche di un repertorio che avrebbe egemonizzato nei decenni a seguire. Da allora certo Wagner, le eroine maledette di Janáček, molto Strauss, le “Marie” di Berg e Korngold, ma anche le tragiche outsider del repertorio russo novecentesco divennero affar suo, almeno nei teatri che contano. 

   Oggi Angela Denoke si divide tra palcoscenico, qualche allievo e una carriera allo stato embrionale da regista. Nell’estate appena trascorsa è tornata in Italia accanto a una delle figlie più nobili del suo mentore Claudio Abbado, la Gustav Mahler Jugendorchester, in residenza tra Bolzano e il Teatro Verdi di Pordenone, dove la incontro, impegnata in un programma riadattato a misura delle  restrizioni di organico imposte dai tempi. 

Ha scelto lei questo programma? 

   In un certo senso sì. Originariamente era prevista una tournée con grande orchestra, poi ovviamente abbiamo dovuto cambiare i piani in corsa. Erwartung era già in programma nella sua versione a pieno organico, io però conoscevo questo riadattamento per piccola orchestra che avevo cantato tempo fa e ho pensato che fosse una buona soluzione. I Lieder eines fahrenden Gesellen, in questo arrangiamento cameristico di Arnold Schönberg, invece sono proprio andata a cercarli.

Intervista al soprano Angela Denoke


È diverso cantare con un ensemble da camera rispetto a una grande orchestra? 

   Sì, ma non perché cambi il mio modo di interpretare o esprimermi, la differenza è che con un’orchestra piccola spesso non riesco a sentire gli strumenti alle mie spalle e quindi devo contare per non perdermi. 

La Gustav Mahler Jugendorchester è una delle orchestre fondate da Claudio Abbado, che diede inizio alla sua carriera internazionale. Che ricordo ha di lui?

   Lo adoravo. Dopo qualche produzione in un contesto decisamente minore, nel piccolo teatro di Ulm, lui e Gerard Mortier mi scritturarono come Marie nel Wozzeck al Festival di Salisburgo. Per me fu la prima esperienza in un teatro importante e di fatto la mia carriera inizio lì. Ho avuto a che fare con la musica per tutta la vita, ho iniziato a studiare pianoforte da bambina ma non avrei pensato di fare la cantante, infatti la mia carriera è iniziata tardi, intorno ai trent’anni, fino ad allora pensavo che avrei fatto l'insegnante.

Però è partita subito dal livello più alto. 

   Sì. Claudio era un grande sia nelle prove che in recita, aveva questa capacità unica di infondere fiducia, mi incoraggiava sempre a esprimere la mia personalità, la mia musicalità, ad alzare il livello e a tirare fuori quel che avevo dentro senza timori. È un approccio che da allora ho sempre cercato di mantenere e amo molto i musicisti che si fidano del cantante e lo stimolano alla ricerca.

È una qualità comune tra i grandi direttori?

   In realtà no. Qualcuno apprezza questo approccio, ma in genere ti consentono di farlo in modo passivo, con le tue sole forze, senza che siano loro a incoraggiarti come faceva Claudio. Claudio mi diceva: hai qualcosa da raccontare, mostramelo. Anche se ero molto giovane, da lui ho imparato ad avere fiducia in quello che stavo facendo, a osare, ed è una cosa che mi sono portata dietro. 

In seguito ha lavorato con molti dei più importanti direttori dei giorni nostri, c'è qualcuno che è stato altrettanto importante per lei?

   Posso dire che ci sono delle fasi, dei cicli, magari capita di lavorare per un certo periodo frequentemente con un direttore e poi succede qualcosa e improvvisamente si interrompono i contatti. Mi è capitato ad esempio con Barenboim, con cui collaboravo spesso: saltò una produzione e da allora ci perdemmo di vista per qualche anno. Il bello di queste relazioni altalenanti è che danno modo di rinnovare continuamente le esperienze e quando finisce un percorso ce n'è subito un altro pronto a iniziare e così via.

Lei ha un repertorio inusuale che non è proprio quello tipico del soprano. 

   Sì, diciamo che sono una via di mezzo tra soprano e mezzosoprano. 

Non intendevo in questo senso, parlo proprio del suo repertorio: lei ha costruito la sua carriera fondamentalmente sulla musica tedesca, su Janáček e sull'opera russa, mentre ha tralasciato il grande repertorio italiano o francese. È stata una sua scelta?

   Non sono stata io a scegliere il mio repertorio, è lui che ha scelto me. Dopo questo Wozzeck a Salisburgo le proposte sono andate in una determinata direzione che ha funzionato e quindi da lì mi sono incanalata verso un un repertorio di questo tipo. Mi piaceva, mi ci trovavo bene e riscuoteva successo, quindi ho continuato su quella strada. Dopo Wozzeck, Mortier mi offrì subito la Káťa Kabanová nel ‘98 e da allora è partito un processo di inerzia incoraggiato dal consenso del pubblico. Mi ci sono trovata dentro quasi per caso ma ho scoperto che funzionava, forse anche perché questo repertorio è una perfetta combinazione di canto e recitazione.

A Salisburgo poi ha fatto molto altro.

   Sì, Makropulos, la Contessa, Marietta di Die tote Stadt...

È vero che Marietta di Korngold è molto pesante per la cantante?

   Lo è davvero, perché passa da una scrittura quasi mezzosopranile vicina al parlato a un finale in cui la tessitura si fa sempre più più alta. Poi ci sono molti sbalzi, è davvero una parte ostica da cantare, più pesante di Salome, anche se non sembra. Me l'hanno proposta ancora cinque anni fa ma ho rifiutato, credo che quel tempo sia finito.

Un cantante dovrebbe avere l'intelligenza di capire quando è il momento di dare una svolta al repertorio. 

   Sì, ma non è affatto semplice, anche perché la tua reputazione nell'ambiente è legata a un certo tipo di opere e personaggi e i teatri continuano a chiamarti per quelli. Bisogna avere la forza per proporsi anche sotto nuove vesti. Ad esempio io ho cantato Salome per tantissimi anni ma a un certo punto ho deciso che non era più opportuno che la facessi e sono passata a Erodiade. Poi ci sono altri personaggi come Kundry che posso cantare ancora senza problemi, ma non vale per tutti.

Lei è stata anche un’apprezzata Crisotemide, mentre non ha mai affrontato Elektra.

   No, ma ci sono andata molto vicina, poi per una serie di contingenze saltò la produzione in cui avrei dovuto cantarla. Tenere in repertorio questi ruoli impone anche dei problemi di abbinamento: bisogna scegliere con attenzione le opere da avvicendare, perché mettere in serie due personaggi con caratteristiche di scrittura vocale molto diverse può creare delle difficoltà. Ad esempio passare da Kundry a Marietta è disagevole, perché la prima ha una scrittura centrale che induce ad aprire e allargare la voce, mentre la seconda richiede una vocalità più sottile e una maggiore estensione. 

E a Clitennestra ci ha pensato?

   Mi piacerebbe molto farla, me l'hanno offerta in passato ma sfortunatamente alla fine è saltato tutto.

Ci sono altre opere che vorrebbe cantare nei prossimi anni? 

   Vorrei allargare il mio repertorio in direzioni diverse. Come detto ho debuttato in Erodiade, poi dovrei affrontare Miss Grose nel Giro di vite di Britten. Cerco di capire quali sono i personaggi in cui posso entrare comodamente e quali invece mi sono preclusi, ma non è facile diventare improvvisamente la vecchia della situazione (ride).

Invece non ha mai affrontato repertorio italiano. Come mai?

Semplicemente perché c'è chi può fare quel repertorio meglio di me. Una volta Mortier mi propose di fare Elisabetta di Valois, così ho provato a studiarla ma ho capito presto che non si confaceva alle mie caratteristiche, quindi ho lasciato perdere. Certo mi sarebbe piaciuto molto cantarla, ma non credo che sarei stata brava quanto avrei voluto.

E tra i grandi registi c’è qualcuno che è stato più importante degli altri nel suo percorso.

Ho imparato molto da Christoph Marthaler. Lui ti incoraggia a trovare un tuo modo personale di interpretare un determinato personaggio, guardando ai dettagli e non al grande gesto. Nella scena finale dell’affare Makropulos dovevo stare ferma in piedi davanti al pubblico, quasi a raccontare la storia senza muovermi, il che non è per niente facile: bisogna essere molto concentrati per trovare la giusta intensità, visto che in un momento così drammatico la tentazione è inevitabilmente quella di sovraccaricare per esprimere di più. Lui mi insegnò a raggiungere questa intensità lavorando di sottrazione.

Ci sono cantanti del passato che ammira o che hanno influenzato la sua carriera? 

Sì, ce ne sono. Mortier diceva che gli ricordavo molto Hildegard Behrens e anch’io amavo molto la sua intelligenza nel lavorare il materiale musicale, poi adoro Janet Baker, anche per l'eclettismo del repertorio, e Anja Silja, quando stava sul palco non si poteva guardare da nessun'altra parte.

Nel farle la domanda precedente pensavo proprio alla Silja, lei la ricorda molto anche come approccio all’evoluzione del repertorio.

Ci ho anche cantato insieme e posso dire che è una “matta”, nel senso buono della parola, è una persona meravigliosa. È magnetica, ha questa capacità di stare sul palco e catturare l’attenzione della sala, è impossibile staccarle gli occhi di dosso.

Lei insegna?

Sì, ho degli allievi che vengono da me e faccio delle masterclass. Cerco di esplorare le diverse sfumature di questo mestiere, ad esempio il prossimo anno debutterò anche come regista.

Ah questo non lo sapevo.

Sì, la prima produzione sarà una Káťa Kabanová a Ulm e poi dovrebbe arrivarne anche una seconda, che però al momento non è ancora definitivamente stabilita.

A questo punto le manca solo la direzione d’orchestra.

Ci ho pensato e ho anche studiato per farlo, ma credo sia troppo tardi per iniziare in modo serio una carriera di questo tipo.

5 dicembre 2023

Note su note: Karl Böhm, The Complete Decca Recordings

   La porzione più consistente del lascito discografico di Karl Böhm è in quota Deutsche Grammophon, l’etichetta per cui registrò praticamente tutto il registrabile tra gli anni Sessanta e la morte. C’è una parentesi Decca, che si colloca grossomodo negli anni ‘50, con qualche sporadica fiammata nel decennio successivo, raccolta e distribuita in un box da 38 CD più un bluray dall’etichetta londinese. Si tratta di un collaborazione che portò all’approdo in sala di registrazione di alcune delle opere “maggiori” di Mozart (Nozze di Figaro, Così fan tutte e Zauberflöte) con i classici cast viennesi dell’epoca e, purtroppo, molti tagli. Quest’ultima peculiarità, unita all’italiano approssimativo di molti degli interpreti, rende l’ascolto di tali testimonianze per l’appassionato odierno una piacevole esperienza di archeologia operistica, ma ne tradisce inesorabilmente l’età. 

Karl Böhm The Complete Decca Recordings

   Il sodalizio con la Decca di fatto si concluse con il famosissimo e ancor oggi esaltante Ring registrato dal vivo a Bayreuth tra il 1966 e il 1967 che, oltre a contare su un cast da brividi (Nilsson, Adam, King, Rysanek, ecc), continua a vantare una qualità audio stupefacente, tant’è che la registrazione completa, oltre al classico CD, è doppiamente proposta nel cofanetto anche in super audio bluray. L'unica produzione operistica successiva è un Pipistrello fascinoso perché svincolato, nel suo tetragono pessimismo, dalle atmosfere gioiose e incipriate della tradizione di genere. 

   In una dozzina di dischi sono radunati invece i prodotti sinfonici, che ovviamente pescano nell’alveo del repertorio mitteleuropeo più consolidato. Parecchio Mozart dunque, i concerti per pianoforte e la Terza sinfonia di Brahms, le ultime due di Beethoven, Terza e Quarta di Bruckner (anni '70), Quinta e Incompiuta di Schubert, oltre a un paio di registrazioni liederistiche con i grossi calibri dell’epoca come Della Casa e Dermota.

   Gli amanti di Strauss potranno finalmente ritrovare la prima e splendida (benché tagliatissima) Frau ohne Schatten registrata al Musikvewrein nell’inverno del 1955, che era divenuta ormai irreperibile sul mercato, se non in qualche ristampa di scarsa qualità. Disponibile su Amazon e sul sito Decca.

3 dicembre 2023

Beatrice Rana e Antonio Pappano in tournée

   Qualche mese fa Bachtrack ha redatto una delle tante classifiche che cercano di stabilire quali siano i direttori e le orchestre migliori su piazza. Un divertissement ozioso, è ovvio, ma che dà una misura della tendenza generale, se non dei gusti del pubblico, dello showbiz. La curiosità è rilevare che ben tre dei nomi che occupano le prime sei posizioni figurano nella programmazione del Teatro Verdi di Pordenone, cui bisognerebbe aggiungere ad honorem il quarto, Herbert Blomstedt, che da queste parti ci passa spesso. Ci sono Ivan Fischer, che ha inaugurato la stagione, e Kirill Petrenko che la chiuderà a giugno, ma anche Antonio Pappano, protagonista accanto a Beatrice Rana e alla Chamber Orchestra of Europe dell’ultimo appuntamento in ordine di tempo.

Antonio Pappano e Beatrice Rana

   Evidentemente i grandi nomi non assicurano la qualità, anche se riducono di molto i rischi di una delusione, ma qualificano l’ambizione della proposta artistica, che nella serata di cui si racconta ha entusiasmato il pubblico.

   Sin dall’attacco dell’Introduzione e Allegro per archi di Edward Elgar Pappano si immerge nella musica infondendovi tutto lo slancio e la passione autentica che sono da sempre la sua cifra caratterizzante, come riuscisse a tramutare ogni partitura in un lavoro teatrale da raccontare al pubblico. Un approccio che qui non solo funziona meravigliosamente, ma riesce anche ad animare un brano di per sé non particolarmente interessante.

   Se il suo approccio narrativo alla pagina resta il medesimo anche nel Concerto per pianoforte e orchestra di Schumann, quel che cambia, oltre all' organico dell'ottima Chamber Orchestra of Europe, è che qui a dialogare con lui c'è Beatrice Rana, la quale sembra condividerne l’ardore, anche se con un’attenzione alla qualità intrinseca del suono superiore. Rana è un concentrato umano di qualsiasi qualità si possa desiderare in una pianista: forza, pulizia, eleganza, fluidità, equilibrio tra le mani e inventiva. Non è il genere di musicista eccentrica che cerca il colpo di scena ma vivifica la frase con un controllo millimetrico della dinamica e del rubato, lavorando sia sulle minuscole sfumature di colore che sul grande gesto. Quel che tuttavia colpisce maggiormente è il dominio assoluto, si direbbe robotico se non fosse così “vivo”, della tastiera e del suono, che non è solo da grande virtuosa dello strumento, ma da musicista di classe assoluta.

  Pappano ha poi il merito di cavare il meglio possibile, almeno in termini di tensione drammatica, dalla Sinfonia n. 6 in re maggiore di Dvořák, che spreme come un limone con tutta l’esuberanza di cui è capace, estremizzando il carattere emozionale di ogni tema e inciso ma ben cucendo tutto l’insieme e scaldandolo a viva fiamma. Nessuna frammentarietà dunque, ma un’esposizione avvincente e compatta della costruzione compositiva, come compatto è l’amalgama dell’ottima Chamber Orchestra of Europe, cui Pappano chiede più densità che nitidezza, più trasporto che analiticità, nella grande pagina sinfonica come nel bis elgariano proposto in coda.

   Successo trionfale sia dopo la prima parte che a fine concerto.

29 novembre 2023

Les Contes d'Hoffmann di Michieletto alla Fenice

   La produzione de Les Contes d'Hoffmann che ha inaugurato la stagione del Teatro La Fenice è una summa dell’arte varia di Damiano Michieletto. Varia perché in questo spettacolo c’è dentro veramente di tutto, dal melodramma alla danza passando per il trasformismo e l’illusionismo, ma c’è soprattutto quell’abilità artigianale imprescindibile per dare ordine e ritmo a una partitura registica che è fantasiosa e poetica quanto la pagina di Offenbach stesso. D’altronde pochi libretti possono offrire una simile carica visionaria, che scioglie quasi completamente l’interprete dal vincolo di realtà, anzi, ne incoraggia le fantasie più sfrenate, fino a sfidare i limiti e la decenza.

Les Contes d'Hoffmann Teatro La Fenice

   È altresì vero che è proprio in questo territorio di mezzo carattere, in cui il comico addolcisce la malinconia senza disinnescarla, che Michieletto ha sempre dimostrato di saper trovare un codice personale, abbastanza scanzonato da non soffocare la leggerezza ma anche cangiante quanto necessario per blandire le ombre crepuscolari o tragiche. Tanto più che nell'occasione riesce a farlo senza spruzzarci dentro quel tocco di ruffianeria furbetta che in passato non ha lesinato e di cui, nello spettacolo veneziano, restano solo le briciole, o per meglio dire i coriandoli sbrilluccicanti.

   È uno spettacolo, questo, di cui è difficile raccontare, se non inquadrandolo per sommi capi dalla distanza come il trionfo del virtuosismo di un prestigiatore della regia capace di dare corpo e forma alle mirabolanti follie dell’opéra fantastique di Offenbach. Ci riesce plasmando immagini in cui musica e libretto trovano una realizzazione visuale che sì, in gran parte devia dai binari del testo in senso stretto, ma così facendo ne preserva la forza eversiva e, di conseguenza, la pregnanza.

   L’Hoffmann di questo spettacolo è un vecchio outsider con la debolezza dell’alcol, o forse con la necessità di anestetizzare una sfilza di cicatrici che non si sono mai rimarginate, che si trova a ripercorrere i ricordi, in parte verosimili e in parte deliranti, delle tante sconfitte che l’hanno portato a diventare quel che è. Gli episodi procedono, atto dopo atto, come in una cavalcata onirica tra le memorie degli amori passati, sempre inesorabilmente naufragati, dalla cotta tra i banchi di scuola per la prima della classe Olympia allo straziante incontro con il dolore e con la morte attraverso Antonia, qui non una cantante ma ballerina costretta a letto dalla malattia. Infine il colpo di grazia, inferto senza pietà alcuna da Giulietta, accompagnata da un carnevale di maschere mostruose in un tripudio orgiastico e, questo sì, demoniaco come solo un certo tipo di alta società sa essere. Scene da un romanzo non di formazione, ma di autodistruzione, catalizzata dai demoni radicati nell’animo stesso di Hoffmann, che l’hanno sabotato e distaccato dalla realtà un poco alla volta.

Les Contes d'Hoffmann Teatro La Fenice

   Così è a grandi linee uno spettacolo che Michieletto innaffia con un’inesauribile cascata di idee, guizzi, artifici, dettagli e fuochi d’artificio, veri e metaforici, calibrati nei tempi ad assicurare una fluidità tanto semplice all’apparenza quanto sofisticata, dimostrando una consapevolezza nella concertazione di solisti e masse che ormai ha raggiunto la piena maturità.

   Quando si nomina Damiano Michieletto, si parla tuttavia per sineddoche, perché se c’è un artista che ha fatto del lavoro di squadra una certezza granitica, questo è il regista veneziano. Al successo di una produzione di un tal livello tecnico servono delle scene come quelle di Paolo Fantin, che non sono solo “belle” di per sé, che poi non vuol dir molto, ma strategiche per garantire agilità a uno spettacolo in cui basterebbe un piccolo collo di bottiglia per grippare l’intero meccanismo, o le luci di Alessandro Carletti, determinanti nell’economia della drammaturgia stessa esattamente come i costumi di Carla Teti. O ancora le coreografie di Chiara Vecchi, che sanno assecondare il carattere più fatuo della scrittura quanto scavare nei suoi anfratti più torbidi laddove esplicitano un erotismo che è quasi sempre colto nel suo lato più grottesco.

Les Contes d'Hoffmann Teatro La Fenice

   È un peccato che una tal girandola di creatività e acrobatismo scenico, che potrebbe dettare in prima battuta i tempi e le intenzioni alla buca stessa, non entri in risonanza con la sensibilità di Frédéric Chaslin, che dal podio cosparge un velo di grigiore su tutto. Non è un cappotto plumbeo esiziale per il buon esito della performance, anche perché di fronte a Chaslin c’è l’Orchestra della Fenice che suona davvero molto bene, ma una narrazione musicale che anziché mettere “under steroids” la partitura, infiammandola in tutta la sua ricchezza di sbalzi e colori, marcia routinariamente verso la meta, preoccupandosi solo che i pezzi stiano insieme. C’è poi la questione spinosa dell’edizione adottata, su cui a onor del vero il povero Chaslin ha ben poche responsabilità, essendo subentrato al previsto Antonello Manacorda appena prima che iniziassero le prove, con tutto il materiale già aperto sui leggii. Qui lo scheletro lo fornisce la vecchia Guiraud/Choudens - con (quasi) tutte le ben note apocrifie e manomissioni del caso come la Barcarolle, il Settimino e la stretta finale dopo l'apoteosi - aggiustata qua e là con qualche pezzo pescato dalla prima edizione critica del canone, curata da Oeser negli anni Settanta, e la abolizione totale di parlati.

   Quanto al cast, c’è un Ivan Ayon Rivas nella parte del titolo che ha doti scenico-vocali ideali soprattutto per cogliere gli episodi giovanili della vita del protagonista, forte di un timbro luminoso e di un registro acuto insolente che atto dopo atto non mostra il minimo segno di fatica. Il suo inseparabile Nicklausse, che nello spettacolo diventa un bellissimo Ara ararauna che svolazza in scena, è Giuseppina Bridelli, la quale ha uno strumento delicato ma prezioso e una sensibilità espressiva che ben si sposa con il taglio cherubinesco in cui la incastona la regia.

   Alex Esposito conferma di essere semplicemente perfetto nei ruoli da satanasso, in cui il suo istrionismo può deflagrare senza inibizioni. È poi vero che l’Esposito-cantante ha ormai maturato una prodigiosa capacità di coniugare al controllo dell’emissione una chiarezza di articolazione di parola e suono, in ogni loro sfumatura e intenzione, che non si scompone neanche nelle sferzate più audaci.

   Rocío Pérez è una Olympia con tutte le giravolte vocali e i sovracuti al posto giusto, oltre che meravigliosa in scena, così come è perfettamente in parte Carmela Remigio, che sembra catapultata in una seconda giovinezza vocale tale è l’identificazione con il personaggio di Antonia e il livello di intensità drammatica che raggiunge. È invece un peccato che l’edizione scelta riduca l’atto di Giulietta a un moncherino, ridimensionando il contributo di un’artista della classe di Veronique Gens a poco più di un cameo.

   Didier Pieri è molto bravo sia nel risolvere vocalmente tutti i suoi interventi (Andrès, Cochenille, Frantz, Pitichinaccio) - in particolare il momento solistico di Frantz, qui ritratto come un maestro di danza che sprizza una gaiezza abbastanza macchiettistica, gli è valso un applauso a scena aperta - sia a connotare ognuno dei suoi personaggi, diversi nei caratteri ma accomunati da una certa propensione alla remissività.

   È solidissimo il contributo delle tante parti di fianco, dalla Musa di Paola Gardina, una Signora-Fata che dispensando l’ispirazione al protagonista cuce insieme i diversi capitoli, fino allo Spalanzani "einsteiniano" di François Piolino. Francesco Milanese è molto più che affidabile nella doppia caratterizzazione di Luther, che sembra davvero uscito da un'osteria della campagna tedesca, e Crespel, così come è impeccabile il lavoro di Yoann Dubruque (Hermann/Schlemill). Chiudono degnamente il cast Christian Collia, Nathanaël, e Federica Giansanti, la voce della madre di Antonia. Al netto di qualche piccolo scollamento, anche il Coro della Fenice preparato da Alfonso Caiani è in ottima serata.

   A fine spettacolo accoglienza trionfale per tutta la compagnia e un tributo toccante alle vittime di violenza di genere, ricordate da un paio di scarpe rosse portato sul palco.

26 novembre 2023

Note su note: Klaus Mäkelä e Stravinskij

   Se l’integrale delle Sinfonie di Sibelius con cui si era aperto il rapporto tra Decca e Klaus Mäkelä - primo direttore a firmare un contratto in esclusiva per l’etichetta britannica dai tempi di Riccardo Chailly - aveva parzialmente deluso le aspettative, probabilmente anche per via delle condizioni di distanziamento imposte durante la registrazione, il secondo tentativo va a bersaglio. Questa volta la ripresa avviene a margine di una serie di concerti e di fronte al maestro finlandese, anziché la Filarmonica di Oslo, c’è l’Orchestre de Paris, di cui Mäkelä è “directeur musical” dal 2021. È proprio l’orchestra con il suo virtuosismo la protagonista di questo Stravinskij, affrontato con una ricchezza di dizionario che rende interessante l’ennesima incisione di due brani che certo non mancano dagli scaffali dei negozi di musica, pur con uno sbilanciamento a vantaggio de Le Sacre sulla versione integrale e originale dell’Uccello di Fuoco del 1911. 

   Un’orchestra capace dunque di esprimersi estremizzando ogni risorsa espressiva sollecitata dalla strumentazione, dalla delicatezza al vigore, dalla flessibilità alla trasparenza, e altresì di esibire una brillantezza accecante, qualità che il giovanissimo Mäkelä dà prova di saper incanalare in una narrazione discorsiva, che non mira all’incisività o a marcare i contrasti, ma piuttosto alla fluidità, per certi versi alla neutralità. Il progetto inaugurato da questo primo capitolo proseguirà nella primavera del prossimo anno con la registrazione di Petrushka, cui saranno abbinati Jeux e il Prélude à l'après-midi d'un faune di Claude Debussy.


Klaus Mäkelä dirige Stravinskij DECCA