22 dicembre 2014

Das Liebesverbot al Verdi di Trieste

Dalla seconda topica Freudiana sappiamo che l’Io, l’identità psichica di un essere umano, nasce dal conflitto continuo tra due istanze antitetiche: l’Es, ovvero l’istinto, la voce della natura, e il Super-io con le regole codificate comportamentali e morali. Il regista Aron Stiehl nell’affrontare Das Liebesverbot, opera prima di Richard Wagner scelta per inaugurare la stagione 2015 del Teatro Verdi di Trieste, parte da qui. Le istanze della mente divengono fazioni sociali in conflitto: da un lato c’è il popolo con il suo bisogno di amare e godere – e il richiamo all’inconscio animalesco è evidente sia nelle scenografie naturalistiche che ne accompagnano l’azione, sia negli abiti barbari – dall’altro c’è la legge opprimente che esige ordine e geometria. Chiaramente il rigore formale di Friedrich, il Vicario che vorrebbe sopprimere ogni licenziosità e diletto nel popolo, cozza con la totale sregolatezza di quest’ultimo, anche sotto il profilo estetico. In fondo la bellezza, con i suoi canoni e le sue regole, è una convenzione sociale: questo popolo selvaggio invece è volutamente sgradevole, brutto, ambiguo, qualcosa a metà strada tra gli hippy e i Neanderthal, senza vincoli estetici, morali o comportamentali. La legge viceversa, quindi Friedrich, è formalmente inappuntabile, elegante, e contrappone al caotico carnevale popolano un’asciuttezza quasi rassicurante. Il fulcro dell’esistenza sta nella mediazione tra l’ordine e il caos, quella che spetta all’Io come alle istituzioni umane, la ricerca del giusto compromesso che soddisfi entrambe le pulsioni divergenti.



Il concetto registico non è dei più originali ma funziona perché realizzato con coerenza e cognizione tecnica: il coordinamento dei protagonisti in scena è attento ed intelligente, sia nei solisti sia nel coro (ottimo sotto ogni profilo, sia musicale che attoriale), scene e costumi sono funzionali al disegno. Qualche forzatura sul versante comico non inficia il risultato finale.

Ottima la prova dall’orchestra, in grandissimo spolvero, guidata da Oliver von Dohnányi. Il direttore sapeva infondere buon ritmo alla narrazione prestando attenzione al palcoscenico, senza sacrificare la cura del suono orchestrale, sempre compatto e levigato, vario nelle dinamiche e nei colori. 

Eccellente la prova di Lydia Easley, soprano dalla voce importante e dalla tecnica agguerrita, perfettamente a proprio agio nella scrittura della parte di Isabella in cui il declamato wagneriano che verrà è più che presagito. Altrettanto convincente Tuomas Pursio, Friedrich di grande presenza e dalla vocalità sana. Corretto e squillante Kurt Adler, Luzio; piacevole l’istrionico Brighella di Reinhard Dorn. Francesca Micarelli si disimpegnava con impagabile freschezza nei panni di Dorella mentre Mikheil Sheshaberidze, Claudio, risolveva la parte con parecchie difficoltà. Positiva la prova di Anna Shoeck, Mariana educata e musicale. Tutte all’altezza della situazione le moltissime parti minori, con una menzione speciale per l’ottimo Ponzio Pilato di Federico Lepre.

Pubblico scarso ma soddisfatto.

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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19 dicembre 2014

La principessa della Czarda

Nel teatro capita sovente che il risultato complessivo di uno spettacolo non coincida con la somma algebrica delle componenti impegnate o che determinate premesse, poco incoraggianti, vengano smentite o ridimensionate in corso d'opera. L'allestimento de La principessa della Czarda, operetta di Emmerich Kàlmàn, in scena al Teatro Nuovo Giovanni da Udine ne è stato un esempio lampante. Ad una prima occhiata, nemmeno troppo attenta, la produzione della Compagnia Teatro Musica Novecento suscitava non poche perplessità, soprattutto per un pubblico abituato ad una tradizione operettistica - il riferimento alla vicina Trieste è d'obbligo - di prim'ordine: l'amplificazione delle voci, certe magagne dell'orchestra, le scelte editoriali (con manipolazioni delle parti recitate tipiche del teatro di prosa piuttosto che di quello musicale) lasciavano presagire esiti tutt'altro che felici. Tuttavia, superata la diffidenza iniziale ed accettati i presupposti di partenza, lo spettacolo funzionava. Merito senz'altro di una compagnia affiatata e rodata, della regia di Alessandro Brachetti (ottimo nei panni del Conte Boni) capace di muovere con vivacità ed attenzione gli interpreti sul palcoscenico senza trascurare controscene e dettagli, dei balletti coreografati da Salvatore Loritto.

La scene smaccatamente liberty di Artemio Cabassi erano la cornice ideale per un allestimento inserito nella tradizione, sia nell'ambientazione, sia nei cliché più frequentati dell'operetta. La risoluzione di siparietti e numeri musicali non proponeva nulla di nuovo ma restava nei limiti del buongusto mentre alcune trovate garantivano freschezza e simpatia alla narrazione.

Tra gli interpreti Susie Georgiadis garantiva alla protagonista Sylvia Varescu personalità e bella presenza. Il tenore Antonio Colamorea era un Principe Edvino vocalmente sicuro ma rigido nella recitazione. Eccellenti per verve e simpatia il Conte Boni di Alessandro Brachetti e la Contessina Stasi di Silvia Felisetti, convincenti Fulvio Massa (Feri), Marco Falsetti (Principe Leopoldo Maria) e Francesco Mei, Generale Rushdorf non esente da eccessi in senso caricaturale.

L'Orchestra Cantieri d'Arte, diretta da Stefano Giaroli, accompagnava il palco non senza imprecisioni mentre il Coro dell'Opera di Parma si disimpegnava correttamente.

Ottima l'accoglienza del pubblico udinese, in larga parte entusiasta per l'esito dello spettacolo.

4 dicembre 2014

Simon Boccanegra di Verdi al Teatro La Fenice

Secondo un vecchio adagio “per fare Verdi servono le grandi voci”, luogo comune non privo di ragioni, tuttavia si tende spesso a dimenticare quanto Verdi esiga innanzitutto un grande direttore d’orchestra, in particolar modo nelle opere della maturità. Non per insormontabili difficoltà tecniche ma per valorizzare i piani narrativi, mettendo in luce la complessità di implicazioni psicologiche, politiche e sociologiche nascoste tra le pagine della partitura.



Che Myung-Whun Chung sia un direttore di altissimo profilo è fuori di dubbio ma quello che riesce a cavare dal testo del Simon Boccanegra, opera inaugurale della stagione 2014-15 del Teatro La Fenice di Venezia, ha del miracoloso. Al di là dell’assoluta perfezione tecnica (orchestra sugli scudi per duttilità timbrica e ritmica), dell’attenzione al palcoscenico che non resta indietro di una semicroma per tutta la durata dello spettacolo, ciò che cattura, nell’esegesi del maestro coreano, è la profondità dell’interpretazione. Sin dal Prologo, tetro ma mobilissimo, squarciato da bagliori di furia e pennellate di sofferenza, si percepisce lo spessore dell’analisi di Chung. Il duetto Amelia-Simone del primo atto accumula un’intensità commovente che esplode nell’agnizione, la scena del gran consiglio è pervasa da una luce sinistra, il finale coglie alla perfezione quell’indefinita atmosfera sospesa tra la serenità dell’addio e la dolente malinconia di una vittoria monca, sia per Simone che per Fiesco. Una lettura assolutamente memorabile quella di Myung-Whun Chung, aiutato dagli eccellenti professori d’orchestra, che gli è valsa un trionfo personale a fine recita.

All’altezza del podio la prova del cast, dominato da un Simone Piazzola in stato di grazia sia per tenuta vocale, sia per spessore interpretativo. Il giovane baritono ha personalità, ha timbro pregevole e sa rifinire il canto misurando e differenziando ogni frase nei colori e nelle dinamiche.

Maria Agresta ha voce di bellissimo timbro e una spiccata sensibilità nel porgere, l’emissione è fresca e il fraseggio spontaneo; solamente il registro acuto mostra qualche segno di fatica, sicuramente dovuto all’altissima densità di recite cui la cantante è sottoposta.

Ottima la prova di Francesco Meli, Gabriele Adorno dalla vocalità splendente e dal fraseggio appassionato. Intenso e commovente Giacomo Prestia nei panni di Jacopo Fiesco, basso dalla voce ampia e, benché non più freschissima, morbida e sana nell’emissione.

Sorprendente il Paolo Albiani di Julian Kim per smalto e pienezza dello strumento ma anche per autorevolezza scenica. Luca Dall’Amico era un Pietro di lusso. 

Eccellente la prova del Coro della Fenice, preparato da Claudio Marino Moretti.

Rimane l’allestimento, firmato per scene e regia da Andrea De Rosa, che ha il merito, non certo esaltante, di non compromettere la riuscita complessiva dello spettacolo, allineandosi alla tradizione più innocua. La vicenda è srotolata con linearità fin troppo elementare, la recitazione ordinaria.

Paolo Locatelli
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