28 novembre 2013

L’Africaine di Meyerbeer inaugura la stagione della Fenice di Venezia

Fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile, anche per il teatro più ambizioso, investire su un Grand Opéra. Non tanto per l’impegno economico quanto piuttosto per un’estraneità estetica alla sensibilità contemporanea. Com’è noto, tuttavia, nulla è più aleatorio delle mode e dei gusti, siano pure gusti su ampia scala – potremmo chiamali, a fare i fini, spirito del tempo – e, negli ultimi periodi anche il Grand Opéra, negletto e squalificato, ha riconquistato uno spazio non indifferente all’interno delle programmazioni teatrali europee. 
Quando è moda è moda. E in fin dei conti quanto si chiede ad una buona direzione artistica è, se non di dettarle, le mode, almeno di seguirle, magari cercando di aggiungervi qualcosa di proprio. In quest’ottica va dato merito al Teatro la Fenice e alla scelta coraggiosa di puntare su Meyerbeer e sulla sua Africaine. Un’Africaine rimaneggiata nella musica e, conseguentemente, nella drammaturgia, ridimensionata nei tempi e nello spirito ma non per questo priva di interesse.



Certo l’opera, dalla genesi travagliata e quasi abortita, non è tra le più riuscite, sia per la trama zoppicante ed improbabile, sia per la musica di alterna ispirazione e tutto ciò rende ancora più rischiosa la scommessa del teatro e probante l’impegno degli artisti coinvolti nella produzione. Per la protagonista ad esempio: non si scappa, quando un’opera, per limiti intrinseci, fatica a stare in piedi, la presenza di un artista che sappia catalizzare su di sé e sul proprio carisma l’attenzione, diventa basilare per la riuscita dello spettacolo. 

Veronica Simeoni è una buona Selika. La voce è di bel colore, il canto curatissimo e costruito sulla parola, il gusto sorvegliato. Manca ancora al giovane mezzosoprano la personalità necessaria a risolvere un personaggio che porta sulle spalle il peso di una drammaturgia debole.

Sorprendente, ancora una volta, Gregory Kunde. La voce, pur lasciando intravedere qualche ruga, si impone per volume e proiezione, la musicalità è ottima, la gestione delle dinamiche di alta scuola (basterebbe citare la magistrale esecuzione dell’aria del quarto atto). L’attore è old style ma, a suo modo, magnetico e risolve con credibilità un personaggio dai tratti improbabili. Non impeccabile la prova di Jessica Pratt nei panni di Inès; sorprende ravvisare alcune macchie nella pulizia della linea e nell’intonazione in una cantante come la Pratt che ha fatto della perfezione tecnico-strumentale del canto il proprio punto di forza.

Angelo Veccia è un Nélusko di temperamento, poco incline alla finezza ma molto efficace e credibile. Buono il Don Pédro di Luca Dall’Amico, di bella voce e presenza, non impeccabile il gran sacerdote di Brahma di Rubén Amoretti. Piace Emanuele Giannino, Don Alvar; all’altezza tutte le parti minori.

Emmanuel Villaume dirige il tutto con molto buonsenso e poca fantasia. Eccellente, come di consueto, il coro del teatro veneziano.

Leo Muscato disegna un allestimento didascalico e, in fin dei conti innocuo, che segue passo passo il libretto aggiungendovi ben poco (fatte salve alcune proiezioni video di cui non si sarebbe sentita la mancanza). Tradizionali le scene di Massimo Checchetto, giocate tra ricostruzioni oleografiche e richiami ad un esotismo indiano di stampo bollywoodiano. Non c’è molta fantasia ma una solida e rassicurante professionalità: il regista, dovendo scegliere tra l’assecondare la grandiosità kitsch del Grand Opéra o ripensare la drammaturgia, sceglie di non scegliere, restando in una zona neutra che non scontenta nessuno. Muscato ha il merito non indifferente, forte anche dei notevoli tagli alla partitura, di reggere la tensione teatrale infondendo buon ritmo allo spettacolo; la narrazione è scorrevole, la recitazione curata pur scadendo a volte nello stereotipo operistico.

Paolo Locatelli
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17 novembre 2013

La Taiwan Philarmonic e Viviane Hagner al Giovanni da Udine

Non capita spesso di ascoltare una compagine che sappia unire all'eccellenza – e di eccellenza è davvero lecito parlare – musicale e tecnica una qualità di suono ammirevole per trasparenza e morbidezza. Probabilmente in molti hanno pensato, dopo l'impalpabile attacco dell'orchestra nel Concerto in re minore di Jean Sibelius, che la speranza di ascoltare una grande serata di musica stava concretizzandosi. E così è stato.
Il terzo appuntamento della stagione del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, che vedeva impegnati la National Symphony Orchestra di Taiwan, altrimenti nota come Taiwan Philarmonic, la bacchetta di Shao-Chia Lü e lo Stradivari di Viviane Hagner, è stato un successo.


Già il primo brano in programma, l'ouverture Le carnaval romain di Berlioz, metteva in luce l'assoluta pulizia tecnica della Taiwan Philarmonic (l'impeccabile sincronismo degli archi, la limpidezza di legni ed ottoni) pur lasciando qualche riserva sulle sonorità secche ed aguzze scelte dal direttore (il confronto con la pienezza e la rotondità di suono in Sibelius evidenziano che di scelta si trattava). Non che ci fosse meccanicità in questo Berlioz, tutt'altro, ma una certa austerità di fondo che, pur esaltando il nitore orchestrale e contrappuntistico, non restituiva il brano in tutta la sua dirompente vitalità. Non si esclude che tale impostazione mirasse ad emancipare la composizione dall'impronta operistica - non si dimentichi che il carnevale romano nasce come “riciclaggio” di spunti musicali contenuti nel Benvenuto Cellini, dopo la disastrosa accoglienza alla prima - ed elevarla, se così si può dire, a composizione sinfonica a tutti gli effetti.

Come detto, ben altro spessore, sia in termini di cura del suono, sia di fraseggio, aveva il Concerto in re minore per violino e orchestra op. 47 di Sibelius. Molto positiva anche la prova della violinista Viviane Hagner la quale proponeva un Sibelius asciutto ed essenziale, senza indugiare in effetti di facile presa o sovraccaricare la scrittura del concerto, già di per sé stessa piuttosto ammiccante. Qualche suono sporco e minimi difetti di intonazione toglievano davvero poco all'esecuzione della musicista tedesca.
Il brano Breaking Through della giovane compositrice Ming-Hsiu Yen, presente in sala, probabilmente non lascerà traccia nella storia della musica ma ha il pregio di mettere in vetrina la vastità di risorse cromatiche e la purezza di suono dell'orchestra. Un lavoro di facile presa, piacevole e ben confezionato, che mescola con astuzia molto di già sentito a qualche buona idea. Lü sapeva ricavarne un caleidoscopio di colori ed impasti, coadiuvato da un'orchestra lodevole.

Con la Settima Sinfonia in La maggiore di Beethoven si aveva la conferma definitiva di trovarsi di fronte a una compagine di ottimo livello e a un direttore di grande sensibilità. Shao-Chia Lü sceglieva tempi per lo più rapidi, facendo proprio il gusto dominante che vuole un Beethoven meno romantico e più illuministico di quanto usasse in passato. Nonostante l'organico orchestrale rispecchiasse un'impostazione tradizionale, con un netto sbilanciamento in favore degli archi, il direttore sapeva mantenere una sorprendente leggerezza di suono, restituendo una Settima asciutta ed elegante, calibrata al millimetro negli equilibri orchestrali e nelle dinamiche, sfumate in tutte le gradazioni che vanno dal pianissimo più sussurrato al forte più terso e compatto. L'orchestra suonava con straordinaria bellezza timbrica e precisione (fatti salvi un paio di pasticci dei corni); basterebbe citare la delicatezza dell'ingresso di violoncelli e viole nell'allegretto o il perfetto contrappunto e l'esattezza ritmica delle varie sezioni nel terzo movimento. L'analisi capillare della partitura e la perizia esecutiva non celavano alcuna freddezza ma piuttosto un razionalismo che indirizzava l'interpretazione verso un trionfale ottimismo, esaltando quell'idea di armonia e gioia che è colonna portante della sinfonia.

Grande successo di pubblico sia per Shao-Chia Lü e la sua orchestra, sia per la Hagner che hanno omaggiato il teatro con due bis.

11 novembre 2013

Nobuyuki Tsujii al Giovanni da Udine

Quando ci si trova di fronte ad un artista come Nobuyuki Tsujii, capace di imporsi giovanissimo con un consenso di pubblico degno di una stella della musica leggera, è inevitabile interrogarsi sulle ragioni, al di là dei giochi di marketing, della particolarissima storia personale (che senz'altro incide), al di là della tecnica stessa che, benché fenomenale, non sorprende più di altre. Tsujii è di più, è un artista capace di parlare al presente. Lo si capisce quando nel suo Rachmaninov si ascolta un musicista che sviluppa il discorso in modo da raccogliere le istanze della musica contemporanea, mescolando una veemenza quasi rockettara ad un'esasperazione delle dinamiche che ricorda da vicino l'approccio di certi specialisti del barocco, il tutto condito da suggestioni jazzistiche nella gestione della frase e del ritmo. Non ci sono le buone maniere e forse nemmeno la profondità di analisi dei grandi interpreti del passato ma una forza immediata, di grande impatto emozionale.

Proprio Nobuyuki Tsujii, accompagnato dai Münchner Symphoniker diretti da Andriy Yurkevych, era il protagonista del secondo appuntamento stagionale per il cartellone di musica e danza del Teatro Nuovo Giovanni da Udine.

Nobuyuki Tsujii interpretava il Concerto n.2 op.18 per pianoforte e orchestra di Rachmaninov con temperamento. Il suono era pulitissimo, fluido, senza inciampi, i pianissimi nitidi, le cadenze snocciolate alla perfezione. Il pianista risolveva l'opera senza intellettualismi, dandone una lettura epidermica, giocata sui contrasti e sulla dinamica piuttosto che sul colore. Ne usciva un concerto compatto, senza cali di tensione, travolgente proprio in ragione della grande immediatezza comunicativa. Andriy Yurkevych lo accompagnava senza invadenza, con buon suono e qualche eccesso di pesantezza. È mancato ai Münchner Symphoniker lo spessore sinfonico della grande orchestra ma nel complesso la prova piaceva e convinceva.

Accolto trionfalmente dal pubblico, Tsujii ringraziava con la parafrasi di Liszt del quartetto del Rigoletto, dando ulteriore prova di funambolico magistero tecnico.

Nella seconda parte di concerto il programma prevedeva Brahms, compositore tra i più scomodi e provanti: la perfezione apollinea della scrittura e l'equilibrio di colori ed impasti fanno dei suoi lavori spietate cartine al tornasole per ogni compagine che li affronti. I Münchner Symphoniker non sono una formazione di primissimo livello e Yurkevych non ha la statura del grande interprete - almeno non ancora - e ciò inevitabilmente traspare nella trasparenza della Quarta sinfonia op.98. Una Quarta ordinaria, di discreta routine. L'orchestra suonava con precisione non sempre irreprensibile alternando momenti pregevoli (su tutti l'allegro giocoso, energico e compatto) ad altri meno felici (l'allegro non troppo e l'andante evidenziavano difetti di amalgama e, non di rado, di intonazione). Non lasciava impronta la direzione cauta e generica di Yurkevych, più attento a fare tornare i conti che ad imprimere un'idea del proprio Brahms.

Buon consenso di pubblico, pur senza l'entusiasmo riservato a Tsujii, anche per la quarta.

7 novembre 2013

Nabucco al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone

Unico appuntamento operistico della stagione, il Nabucco verdiano giunge al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone in un allestimento firmato da Stefano Poda per regia, scene, luci e costumi, che convince a metà.


La scena, fissa per tutta la durata dell'opera, riproduce un ambiente chiuso, claustrofobico, quasi un bunker cementizio dal cui soffitto pendono, capovolti, dei cadaveri mummificati. Tutto qua. Per il resto, fatto salvo qualche gioco di luci indovinato, tutto è statico, immobile. L'impostazione registica annulla la dimensione corale dell'opera per ridurla a dramma privato, puntando in sostanza sul suo versante più debole. Tutto ciò che richiama, o dovrebbe ricondurre, all'imponente macchinario storico (la vicenda che, benché posta sullo sfondo, è la vera protagonista dell'opera), è solamente accennato, o, nei momenti in cui davvero non se ne può fare a meno, quasi subito. Rimane la vicenda famigliare di Nabucco che, di per se stessa, è poca cosa e che, per convincere, avrebbe bisogno di ben altro approfondimento registico e drammaturgico. Invece il lavoro su solisti e masse è minimo, i caratteri sono appena abbozzati o risolti per sommi capi, l'analisi sulla psicologia – per quanto consentito dal non ispiratissimo libretto di Solera – grossolana.
Fortunatamente su ben altri livelli si collocava l'esecuzione musicale.

Fabián Veloz era un buon protagonista più per ragioni interpretative che vocali. Lo strumento del baritono non impressiona per virtù intrinseche ma è ben gestito, con tecnica appropriata, in un canto lavorato sulla parola e sui colori. Veloz piaceva particolarmente nell'aria Dio di Giuda, cantata con partecipazione e gusto. 
Tiziana Caruso sapeva risolvere l'insidiosissima parte di Abigaille grazie ad una voce ampia ed estesa, modulata in un canto sorvegliato e curato nel fraseggio. Ottima la resa dell'aria del secondo atto con relativa cabaletta per morbidezza di emissione, accento e pulizia della linea. Solo gli estremi acuti mostravano alcune asperità o forzature.

Michail Ryssov dimostrava di possedere, a dispetto di una voce non immune da opacità, tutte le note che la scrittura di Zaccaria richiede. Alcuni problemi di intonazione e un registro acuto faticoso erano ben compensati dalla personalità e dall'autorevolezza scenica del basso.
Molto buona la prova di Marina Comparato, Fenena di bel timbro ed ottima musicalità.
Alejandro  Roy, nei panni di Ismaele, palesava una vocalità faticosa e forzata nel passaggio che sapeva tuttavia espandersi in acuti luminosi e ben timbrati.
Gabriele Sagona prestava al Sacerdote di Belo voce di bella pasta e buon volume; positive le prove di Lara Matteini (Anna) e del tenore Alessandro Cosentino (Abdallo).

Michael Guettler, alla guida dell'Orchestra del Teatro Verdi di Trieste, offriva una prova di buon senso, mirata a sostenere la narrazione ed il palcoscenico piuttosto che a ricercare il preziosismo orchestrale. Una direzione dal passo teatrale molto agile, sostenuta nei tempi e ben calibrata nei volumi in cui si è tuttavia sentita la mancanza di un maggiore approfondimento del fraseggio e del suono come di una più intensa partecipazione nei momenti scopertamente lirici. Molto buona la prova del coro del teatro triestino, preparato da Paolo Vero.

A fine spettacolo accoglienza calorosa per tutti da parte del pubblico pordenonese, con punte di entusiasmo per Tiziana Caruso e Fabián Veloz.