25 marzo 2022

Raphaël Pichon e le ultime tre di Mozart

 Sembra che i trentasette anni di vita di Raphaël Pichon siano trascorsi intensamente. Dopo gli studi in pianoforte e violino e quelli successivi in direzione, per un certo periodo è stato un controtenore di buona carriera. Nel 2006, giovanissimo, ha fondato l’orchestra Pygmalion, accanto alla quale è cresciuto in quella che è ormai la sua occupazione a tempo pieno, maturando per altro una strana gestualità in cui il battito passa alternativamente dalla sinistra alla destra e viceversa. La Pygmalion è una delle tante orchestre che suonano su strumenti d’epoca secondo una prassi storicamente informata e ha quindi tutte le peculiarità delle sue sorelle: sonorità e corpo sono caratterizzati da quell’opacità e quella secchezza intrinseche agli strumenti e che sono grossomodo non ovviabili.

Diversa è la questione su come tali specificità vengono sfruttate. Nel mondo della musica antica è andata affermandosi una maniera, bisogna ammetterlo, che travalica gli scrupoli filologici e che pare avere letteralmente creato da zero un codice espressivo specifico da applicare a ogni esecuzione del genere: contrasti dinamici molto marcati, sonorità taglienti e articolazioni spiccatissime, tempi svelti nei passaggi più concitati e ben distesi quando il metronomo rallenta e così via. Raphaël Pichon ha il merito di non cedere a questa moda. Prova piuttosto a dare una connotazione più varia e introspettiva alla musica che dirige, proposito fondamentale in un repertorio come quello mozartiano che vive di ambiguità e sfumature che si sforza di pennellare con dovizia di chiaroscuri. Non sempre ci riesce, un po' per via della ristrettezza del range dinamico e della tavolozza dell'orchestra (un arco montato all'antica o un ottone naturale hanno caratteristiche oltre cui non è possibile spingersi), un po' perché qualche momento meriterebbe un maggiore approfondimento anche in termini di fraseggi ed espedienti espressivi.

È dunque un approccio più ibrido che oltranzista il suo, o meglio, non radicale. Non cede alla meccanicità di altri specialisti della prassi né alla estremizzazione verso il bianco o il nero di ogni gesto musicale, né rinuncia alle conquiste della storia dell'interpretazione post ottocentesca. Anzi, in qualche modo cerca di lasciarne traccia anche in una musica precedente. Lavorando in piccolo tuttavia, cioè nel dettaglio anziché sull’effetto di forte impatto, emerge qualche problema di monocromia e piattezza. Involontarie, sia chiaro, perché l'intenzione di sbalzare i piani dinamici e i timbri in Pichon c'è e si sente, ma rimane come attenuata da una sordina.

In definitiva, quel che si ascolta al Teatro Nuovo Giovanni da Udine nelle ultime tre sinfonie di Mozart è un punto di vista specifico e parziale delle stesse. Interessante, sì, e in relazione alla nicchia specifica della musica su orchestre pre-moderne anche di ottima realizzazione. Ma alla fine dei giochi rimane la sensazione che manchi qualcosa, che una parte sostanziale della musica di Mozart rimanga inespressa tra le pagine.

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