15 ottobre 2013

Madama Butterfly secondo Meir Wellber

A pochi mesi di distanza dal debutto, il Teatro La Fenice ripropone la Madama Butterfly prodotta in collaborazione con la Biennale di Venezia nell’ambito della cinquantacinquesima Esposizione Internazionale d’Arte.

Lo spettacolo, grazie al cambio di protagonista ed a un maggiore approfondimento nella direzione d’orchestra, affidata allo stesso Omer Meir Wellber, finisce per convincere molto più di quanto avesse fatto in precedenza. Il direttore israeliano si è reso protagonista di un’ottima prova, per ricerca musicale, per qualità dell’orchestrazione e, soprattutto, per la straordinaria coerenza narrativa. Una lettura bruciante, travolgente, davvero notevole per intensità teatrale e per la cura dei dettagli.

Fiorenza Cedolins è una Cio-Cio-San nota al pubblico operistico da diversi anni, sia per la qualità del canto, sia per lo spessore interpretativo. La voce del soprano, pur non avendo più la freschezza di qualche tempo fa, si distingue ancora per pregio timbrico e controllo tecnico, il fraseggio e la consapevolezza interpretativa sono, al solito, eccellenti. 

Solido il Pinkerton di Andeka Gorrotxategui mentre Elia Fabbian è uno Sharpless possente ma poco incline alle sfumature. Commovente la Suzuki della brava Manuela Custer.



Lo spettacolo, con le scene dell’artista Mariko Mori e la regia di Àlex Rigola, spoglia l’opera pucciniana di ogni traccia di oleografia: l’oriente idealizzato del libretto scompare in favore di un’astrattezza generale, o per meglio dire, assenza d’identità. L’ambiente fisso è costituito da una scenografia completamente bianca e nuda, un ambiente vuoto ed impersonale di asettica pulizia, la recitazione dei solisti è stilizzata, ridotta all’osso, ogni eccesso od enfasi eliminati in favore della miniaturizzazione del gesto. In disparte alcune danzatrici accompagnano la narrazione, un unico elemento scenico e alcune videoproiezioni completavano il quadro.

Quello che rimane, in fin dei conti, non è molto. Oltre all’impatto esteticamente piacevole dell’insieme, manca una chiave di lettura univoca e coerente della vicenda di Butterfly, qualcosa che identifichi ed esplichi l’idea drammaturgica di fondo. C’è, e piace ravvisarlo, il progressivo accentuarsi della condizione di perdita di Butterfly, la quale, in un mondo che parrebbe essere proiezione del proprio desiderio (o della fantasia) piuttosto che reale, si trova a dover rinunciare progressivamente all’affetto del padre, della famiglia, del marito ed infine del figlio. La scena, inizialmente affollata e confusa diviene via via sempre più scarna e desolata, il terzo atto è un gioco di solitudini e distanze che rendono efficacemente l’ormai irreversibile incapacità della protagonista di interagire con il mondo di cui faceva parte e da cui è stata abbandonata.

Pordenone: la prima stagionale per la ricerca

Si è aperta con un concerto fuori abbonamento, i cui proventi saranno devoluti al Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, la stagione 2013-2014 del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone. Un'iniziativa che unisce alla nobiltà d'intenti l'altrettanto apprezzabile proposito, ben esposto a inizio serata dal neo direttore artistico Maurizio Baglini, di incrementare la collaborazione tra il teatro e le altre eccellenze pordenonesi, estendendo ulteriormente la già ricca offerta del Verdi.
Protagonisti della serata lo stesso Baglini, nella veste di pianista che lo ha reso celebre ed acclamato nel mondo, e la Filarmonica Toscanini di Parma diretta da Massimiliano Caldi con un programma prevalentemente russo (il secondo concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninov e la quinta sinfonia di Čaikovskij), impreziosito da una concessione al grande repertorio operistico italiano, doveroso omaggio al bicentenario dalla nascita di Giuseppe Verdi.

Proprio Verdi, con la Sinfonia dal Nabucco, dava inizio a concerto e stagione. Massimiliano Caldi, alla guida di un'orchestra precisa e compatta, optava per una lettura corrusca ed energica, intesa a restituire l'impeto popolano e l'ardore tipici del primo Verdi piuttosto che a ricercare il preziosismo orchestrale o il dettaglio.

Il Concerto N.2 Op.18 per pianoforte e orchestra, presentato da Sergej Rachmaninov nel 1901, è un lavoro tra i più celebri e frequentati dell'intero repertorio. Forte di una scrittura in cui l'intensità emotiva ed il patetismo post romantici si fondono ad un virtuosismo strumentale di alta scuola, il concerto si impone come banco di prova tra i più ardui per un musicista, sia per le sollecitazioni tecniche ed espressive, sia per gli impegnativi paragoni con la grande tradizione interpretativa.

In un'esecuzione complessivamente molto buona piacevano soprattutto la morbidezza strumentale e la bellezza timbrica con cui Baglini affrontava la pagina, in particolar modo l'avvio dell'adagio delineava un'atmosfera sospesa che è stata raccolta solo in parte dall'ingresso di flauto e clarinetto. Suonava altrettanto affascinante e prezioso il raffinato dialogo ritmico tra pianoforte e orchestra del terzo tempo, culminato con un allegro scherzando connotato di sottile ironia. Meno a fuoco è parso il primo tempo del concerto (moderato) in cui gli equilibri orchestrali hanno evidenziato alcune imperfezioni sia nel bilanciamento dei volumi, con il solista spesso sovrastato dall'orchestra, sia nella sinergia di intenti in alcuni passaggi tra i più concitati.
Il programma proseguiva con la Sinfonia n. 5 in mi minore, op. 64 di Pëtr Il’ič Čaikovskij, opera di straordinario fascino e raffinatezza in cui il compositore sviluppa ulteriormente il problematico rapporto dell'uomo con il destino - o meglio con l'ineluttabilità dello stesso - già avvicinato nel precedente lavoro sinfonico. Sin dall'andante iniziale si percepiva come tale suggestione fosse letta da Caldi attraverso il filtro della malinconia - o al limite della  disperazione - piuttosto che come ritorsione rabbiosa e violenta al fatum stesso. Il colore cupo pur senza essere mai greve, l'impeto trattenuto, l'equilibrio quasi austero nei momenti di fortissimo, restituivano un Čaikovskij intimamente sofferto ma mai esteriore.
Molto buona la resa dell'Andante cantabile dove allo straniamento malinconico del corno subentrava l'ottimismo degli archi, quindi dell'intera orchestra, con tinte tenui di commovente delicatezza. L'allegro moderato evidenziava ottima consapevolezza tecnica e precisione orchestrale ma non altrettanta fantasia mentre la magniloquenza del grandioso finale, con il tema del destino ripreso e celebrato in maggiore, veniva risolto trionfalmente ma senza la brillantezza di suono che ci si aspetterebbe.
Dal punto di vista squisitamente tecnico si apprezzavano la compattezza sonora dell'orchestra, a onor del vero a scapito della trasparenza, la morbidezza e la pulizia degli attacchi, l'impeccabile adesione alle suggestioni ritmiche offerte dal podio. Rimanevano alcune perplessità per la scarsa consuetudine della compagine orchestrale con un repertorio che siamo abituati ad associare ad altre sonorità e varietà di colori: la Toscanini, benché precisa e musicalmente inappuntabile, non è riuscita a restituire completamente, forse per una precisa scelta interpretativa, la ricchezza di colori e alchimie cromatiche che questi capolavori, soprattutto la Quinta di Čaikovskij , metterebbero a disposizione.
A fine concerto accoglienza molto calorosa del pubblico pordenonese per il maestro Caldi e l'orchestra così come entusiastica è stata la risposta alla performance di Maurizio Baglini, lungamente applaudito.

Teatro Nuovo Giovanni da Udine: Apertura della stagione 2013-2014

Il Teatro Nuovo Giovanni da Udine, pur rappresentando una realtà defilata e apparentemente ai margini dei giri di maggiore richiamo, offre, ormai da diversi anni, stagioni di primissimo livello con protagonisti di caratura internazionale.
Non sorprende quindi ritrovare, ad inaugurare la stagione 2013-14, Tugan Sokhiev, direttore tra i più affermati e celebri della sua generazione, alla guida della Deutsches Symphonie Orchester Berlin, accanto al pianista Boris Berezovskij, in un programma interamente dedicato al Novecento russo.

La Suite Scita op. 20 di Sergej Prokof'ev nasce come rielaborazione di un'idea musicale originariamente destinata al balletto “Ala e Lolli” cui il musicista si vide costretto a rinunciare quando i lavori erano già in fase avanzata; è dunque inevitabile che rimanga nell'opera un'impostazione narrativa che avvicina questa composizione alla musica a programma. Sokhiev leggeva il lavoro enfatizzando la violenza - o sarebbe forse il caso di dire “la ferocia”, stando alle indicazioni del compositore stesso - ed individuando nel rigore ritmico e nell'asciuttezza di suono e fraseggio i cardini della propria interpretazione. L'orchestra suonava scattante e puntuale, capace di reggere l'ampia escursione dinamica imposta dal podio, nei pianissimi soffusi e sempre a fuoco come nelle esplosioni in fortissimo, quasi rabbiose, di grande compattezza e luminosità.

Non stupisce che la stessa orchestra sapesse, poco più tardi, defilarsi nel ruolo di accompagnatrice del pianista Boris Berezovskij nel Concerto n. 2 op. 102 per pianoforte e orchestra dello stesso Prokof'ev, trovando la morbidezza e l'equilibrio necessari a sostenere il solista. Solista che stemperava il rigore martellante del concerto con leggerezza quasi salottiera, proponendo un'interpretazione coerente ma forse non perfettamente allineata all'idea del podio, meno incline a prendere poco sul serio questo Prokof'ev giovanile.

Boris Berezovskij piaceva ancor di più nel Concerto n. 1 op. 10 per pianoforte e orchestra di Dmitri Shostakovich, riuscendo ad inquadrare e condensare le diverse anime, apparentemente distanti tra loro – e, parrebbe, da Shostakovich stesso, almeno quello “di regime”, magniloquente e titanico di molti suoi lavori precedenti - che caratterizzano primo e terzo movimento, di saltellante frivolezza, quasi in antitesi al secondo, improntato ad un post-romanticismo fuori tempo massimo in odore di Rachmaninoff.

La lacerante, e forse un po' ruffiana, espressività dell'andante veniva valorizzata lavorando sulle dinamiche e sul colore piuttosto che sull'agogica. Sulla stessa linea di rigore ritmico, che mai scadeva in metronomicità, l'allegro iniziale e lo speculare movimento finale trovavano la giusta misura nella spensieratezza ironica e leggera del pianoforte di Berezovskij.

Terminava il concerto la Suite da L’oiseau de feu di Igor Stavinskij, nella più celebre seconda versione del 1919. Sokhiev ne dava una lettura in cui le asperità e le scortesie della partitura prevalevano nettamente sul lirismo e il rigore ritmico sulla morbidezza. Pur senza sacrificare la bellezza di suono (basterebbe ricordare la trasparenza degli archi nell'introduzione o il perfetto equilibrio tra le sezioni orchestrali), non c'era calligrafismo né compiacimento e l'espressività pareva trattenuta anche nei momenti di maggiore impatto emotivo in favore di un'analisi strutturale del lavoro. Nel finale, la linea essenziale del corno, impegnato in un dialogo di struggente poesia con la delicatissima orchestra, esemplificava al meglio i riferimenti estetici del direttore il quale rinunciava ad ogni ammiccamento ritmico od espediente di fraseggio per giocare sulle sfumature di volumi e colori, esaltando le risorse cromatiche dei musicisti berlinesi.