21 febbraio 2016

Sokolov alla Fondazione Luigi Bon

Grygory Sokolov è pianista tra i più celebri e venerati al mondo e, non di meno, figura tutt'altro che conciliante. L'impronta stilistica estrema, se da un lato gli è valsa l'ammirazione quasi incondizionata di un'ampia fetta del pubblico, dall'altro difficilmente riesce a vincere le resistenze di chi intende la musica, o meglio l'interpretazione musicale, come qualcosa di diverso. Così, mentre la platea della Fondazione Bon di Colugna di Tavagnacco – meritoria istituzione della provincia udinese – salutava con entusiasmo irrefrenabile il musicista russo, chi scrive si è sforzato di comprendere le ragioni di tanto calore, senza riuscire a vincere una perplessità che è progressivamente mutata in delusione.

Non che a Sokolov manchino le qualità, beninteso. Impressionano la possanza e la brillantezza del suono, il nitore di ogni sfumatura dinamica, dai pianissimi (belli ma non straordinari) ai forti tonanti. Ogni nota, indipendentemente da volume o colore, scocca come una frustata, l'equilibrio tra le mani è impressionante. Una notevole libertà nell'articolazione poi, laddove non trascenda i limiti dell'arbitrarietà, illumina di nuova luce pagine tra le più celebri del repertorio.

Il tutto però procede in un'omogeneità di colori che fa presto a scadere in monotonia, inoltre l'indulgere in sonorità ampie e martellanti in uno spazio contenuto e dall'acustica riverberante, con un uso discutibile del pedale di risonanza, riduce più di un momento ad un indistinto fracasso. Il finale della Marcia funebre ad esempio, nella Sonata op.35 di Chopin, o lunghi tratti del secondo movimento Fantasia in do maggiore per pianoforte, op. 17 di Schumann uscivano eccessivamente fragorosi e pesanti.

Non meno irrisolta appare la gestione dei tempi, plasmati con libertà smisurata: al di là della lentezza generale di ogni pezzo, ciò che lascia le maggiori perplessità è la tendenza a dilatare ogni misura, sia a fini espressivi, indugiando in continui rallentando e ritardando, sia per sbrigare alcuni passaggi di agilità. Ne risulta un modo di fraseggiare e modellare la frase che nel migliore dei casi ammicca al sentimentalismo più scoperto, nel peggiore suona slentato e volgare. Sokolov non brilla nemmeno per precisione – cosa che sorprende non poco - approssimativa in Chopin (soprattutto nello Scherzo dell'Op.35), quasi calamitosa in Schumann.

Nel complesso i passaggi più intimi e raccolti (su tutti Langsam getragen. Durchwegleise zu halten, terzo movimento della Fantasia per pianoforte) convincono assai più dei momenti che sollecitano il virtuosismo, pasticciato e discontinuo.

Non impeccabile nemmeno l'esecuzione dell'Arabeske in do maggiore per pianoforte, op. 18 che ha aperto il concerto. Piacevoli ma ordinari i Due Notturni op.32 di Chopin.

Di tutt'altro avviso il pubblico in sala che ha riservato un'accoglienza trionfale al pianista, il quale si è congedato solo dopo aver concesso sei (sei!) bis.

16 febbraio 2016

Straordinario successo per Les Chevaliers de la Table Ronde al Malibran

C’è del metodo in questa follia, anzi del genio. Sì perché ci vuole un’intelligenza luminosa per immaginare e realizzare un meccanismo a orologeria come quello che la Compagnie des Brigands ha portato a Venezia (teatro Malibran), grazie al sodalizio tra Teatro La Fenice e Palazzetto Bru Zane.

Si parla di Les Chevaliers de la Table Ronde, operetta di Hervé – a rigore opéra bouffe – che fa il verso all’arme, gli amori, le cortesie e le audaci imprese di un manipolo di eroi dell’epica cavalleresca. Soprattutto agli amori in realtà, vero motore della vicenda, poiché tutto il resto rimane sullo sfondo a sollecitare la corda della comicità.

Spettacolo geniale si diceva, di quelli permeati da coerenza e fantasia straordinarie, dove ogni gesto è studiato in funzione del teatro.


Se c’è qualcuno che, in un contesto ove tutto funziona alla perfezione, ha un merito in più degli altri, questi è il regista Pierre-André Weitz: due ore filate di spettacolo, senza intervalli e senza noia, ricche di idee, spunti, sorprese e divertimento. Ogni numero è brillantemente congegnato, il lavoro sugli attori (grazie anche alla complicità di Iris Florentin e Yacnoy Abreu Alfonso) è incredibile: movenze, mimica, vezzi, niente è lasciato al caso, nemmeno la dizione o le cadenze dialettali (irresistibile l’Orlando-bulletto-di-periferia). Non meno esaltante la caratterizzazione di ogni personaggio. Così la strega Melusina diventa una maitresse sadomaso che ricorda vagamente Frank-N-Furter, la Duchesse Totoche una tardona che divide le giornate tra shopping e pruriti extraconiugali. Angelica ha più della sorellastra bruttina che della principessa, Merlino è più ciarlatano che mago. Impagabile poi il Rodomont del bravissimo Damien Bigourdan, vera e propria maschera della commedia velata di ironica malinconia che richiama, nemmeno troppo velatamente, il Charlot di Chaplin.
Scene e costumi dello stesso Weitz e il disegno luci di Bertrand Killy concorrono alla riuscita del tutto.

Difficile trovare un solo elemento del cast che sia men che entusiasmante. Gli artisti in gioco sono bravi cantanti, eccellenti attori ma anche ballerini, mimi, acrobati, tutto ad alti livelli. Sarebbe inutile e sciocco soffermarsi sulla prova di uno anziché dell’altro o ponderare al grammo qualità e debolezze vocali del singolo. Questi Chevaliers sono uno di quei casi benedetti in cui la somma delle individualità viene doppiata, se non triplicata, dal collettivo e dove persino i difetti riescono a sembrare pregi irrinunciabili.

Christophe Grapperon poi sa sollecitare i pochi strumentisti dell’orchestrina Les Brigands a trovare una brillantezza di colori, ritmi e dinamiche tale da soddisfare al contempo le ragioni del teatro e quelle della musica.

Trionfo per tutta la compagnia, meritatissimo.
Paolo Locatelli
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1 febbraio 2016

Poche idee nello Stiffelio al Teatro La Fenice


Stiffelio non è il capolavoro di Verdi eppure è un’opera che meriterebbe una considerazione maggiore. Benché musicalmente resti legata a modelli precedenti – e Rustioni sa metterlo sufficientemente in evidenza – è soprattutto nell’impostazione della drammaturgia che si scorge l’elemento di rottura e, ancora più, nella definizione psicologica dei personaggi. Con Stiffelio insomma Verdi, il Verdi di galera, inizia a gettare le basi di quello che sarà il suo teatro più maturo.



Va pertanto riconosciuto il merito al Teatro La Fenice di aver riproposto un titolo affascinante e scarsamente frequentato, puntando su un compagnia che avrebbe più d’un motivo di interesse. Ciò detto, si ravvisa tristemente l’inadeguatezza di alcune delle parti in gioco, che mettono una pesante ipoteca sull’esito complessivo della produzione. O meglio, se ciò che si ascolta, pur con qualche distinguo, nel complesso funziona e convince, è la componente “visiva” a lasciare sbigottiti.

Senz’altro il regista Johannes Weigand avrà opportunamente meditato sull’opera verdiana e sul linguaggio specifico del melodramma ottocentesco, purtroppo quali siano le conclusioni maturate rimane un insondabile mistero. Per l’intera durata dello spettacolo sul palco non accade niente, i personaggi sono immobili, incapaci di interagire l’uno con l’altro o con la musica e i pochi accenni di recitazione paiono legati all’iniziativa dei singoli. Le scene tetre e scarne di Guido Petzold confondono ulteriormente le idee senza aggiungere riferimenti, anzi, danno l’impressione di tentare un maquillage furbetto su un allestimento che, per intenzioni, si adagia nel solco della tradizione più decrepita. Un doppio pannello mobile spezza il palco nella sua larghezza, dietro, sullo sfondo, un palo sormontato da tre enormi fari funge da elemento decorativo e, all’occorrenza, da pulpito per le prediche di Stiffelio. Niente più. Il disegno luci dello stesso Petzold esplora tutte le sfumature che vanno dal grigio antracite al nero, aggiungendo immobilismo all’immobilismo.

Come accennato vanno assai meglio le cose sul versante musicale. Daniele Rustioni, aiutato da un’orchestra in ottima forma, fa ascoltare una concertazione attenta agli equilibri interni e dai tempi agili che si traduce in una narrazione efficace. Restano da limare di alcuni passaggi che, nell’eccesso d’impeto, tendono a sovrastare le voci.

Piace senza riserve Stefano Secco nei panni del protagonista: canto sicuro ed espressivo, voce salda in ogni registro, fraseggio curato. Tutto funziona a dovere nel tratteggiare un personaggio compiuto e coerente.
Fatica invece Julianna Di Giacomo, Lina, ad organizzare in modo convincente la propria generosissima vocalità, soprattutto nel registro acuto.
Dimitri Platanias ha analogamente uno strumento importante e, tutto sommato, una maggior consapevolezza tecnica nel manovrarlo. Gli fa difetto l’attenzione per la varietà di sfumature che, in fin dei conti, anche una parte monolitica come quella di Stankar richiederebbe. Positive le prove di Francesco Marsiglia, Raffaele, e di Simon Lim, Jorg dalle apprezzabili risorse vocali.
Brava e bella Sofia Koberidze, Dorotea. All’altezza il Federico di Cristiano Olivieri.

Impossibile non lodare il coro preparato da Claudio Marino Moretti che, ad ogni impegno, si conferma ad altissimi livelli.

Uno strano dittico: Agenzia matrimoniale e Il segreto di Susanna

Non c'è solo il tema della vita di coppia, benché inquadrato da prospettive completamente diverse, ad accomunare Agenzia matrimoniale - opera buffa in un atto di Roberto Hazon - e Il segreto di Susanna di Ermanno Wolf-Ferrari. Ciò che cattura immediatamente l'attenzione, ascoltando i due lavori in successione, è l'approccio similare dei compositori all'esperienza operistica: entrambi guardano ad un modo di fare musica e teatro del passato, beninteso, rispetto all'epoca di composizione. Così se Wolf Ferrari nel 1911 rispolvera i luoghi del Settecento e dell'opera buffa, rinfrescandone il linguaggio senza distanziarsene eccessivamente, anche nella commedia di Hazon (datata 1962) si respira un'atmosfera vagamente anacronistica che, tra rimandi liberty e toni salottieri, strizza l'occhio a Puccini, allo Stravinskij neoclassico, al musical e, in modo nemmeno troppo velato, alla musica leggera di inizio Novecento. Non è un caso che sia Hazon, sia Wolf-Ferrari siano stati musicisti estremamente liberi e svincolati da ogni avanguardia.


C'è un fil rouge che collega anche le protagoniste dei due pannelli del dittico: entrambe custodiscono un segreto o quantomeno un “non detto”. Argia è una signora di mezza età, in cerca di marito, che lascia intendere di essere stata una grande attrice dissimulando così la propria reale condizione di guardarobiera in un teatro. È più nota al pubblico invece la vicenda della contessa Susanna che, nascondendo al marito il vizio del fumo, lo porta a sospettare un adulterio.

Sarà anche per tutte queste ragioni che lo strano binomio proposto nel cartellone del Teatro La Fenice (ma in scena al Malibran) piace e convince.

Bepi Morassi, uomo di teatro esperto e scaltro, sa dar vita a uno spettacolo brillante e vivace in cui si sorride senza che la leggerezza ceda alla superficialità. Non manca di emergere, sullo sfondo, quella tinta malinconica, e in fondo inquietante, che permea i due lavori. Agenzia matrimoniale cela, dietro alla rete di bugie ed espedienti funzionali alla trama, una storia di solitudini disperate che lo spettacolo mette opportunamente in luce. Non è meno affascinante l'ambiguo rapporto della protagonista con la realtà, che a tratti pare fondersi con i sogni infranti di una gloriosa carriera artistica senza soluzione di continuità. Similmente, nel Segreto di Susanna, la stessa situazione di distacco dal quotidiano viene individuata nel fumo che diventa per la Contessa un vero e proprio rifugio in un mondo parallelo.

Le scene firmate da Sabastiano Spironelli chiariscono in modo inequivocabile i termini della questione. Il divano dimezzato che arreda il salotto dell'abitazione di Argia si fonderà nel finale con la sua metà mancante, recata in dote dal promesso sposo. La stessa abitazione raccoglie una moltitudine di abiti che vengono di volta in volta calati dall'alto: sono gli abiti di scena della Du Barry che Argia si illude di essere stata o quelli del guardaroba in cui lavora? A tratti si ha persino l'impressione che rimandino alla sua ossessione per il matrimonio. Difficile stabilirne l'esatta provenienza, senz'altro la soluzione fa emergere con forza l'indecifrabile relazione tra l'immaginazione del personaggio e il mondo reale.

Nel Segreto di Susanna l'impianto scenico (realizzato dagli allievi della scuola di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia) rimane pressoché invariato ma, in luogo degli abiti, sul palco vengono calati oggetti di altro tipo, una paccottiglia dai chiari rimandi ludici e infantili che immancabilmente accompagna le “sigarette” della protagonista, enfatizzandone la dimensione di estraniazione onirica.

I bei costumi di Caterina Righetti si inseriscono alla perfezione nel contesto e sono assai belli da vedere.

Enrico Calesso firma una direzione che esalta la vivace brillantezza della musica senza perdere d'occhio le ragioni del teatro né la qualità del suono orchestrale. Il palco è sostenuto con dovizia, senza scollamenti né prevaricazioni sulle voci, gli impasti timbrici rivelano una cura ed un lavoro di ricerca approfonditi. L'orchestra risponde puntualmente, fatta salva qualche sbavatura nell'intonazione in Hazon.

Gladys Rossi ha la personalità che la parte di Argia richiede, domina il palco con sicurezza e riesce a restituire il carattere ironico e intriso di sottile malinconia della protagonista. Le minime riserve riguardano esclusivamente l'esiguo peso vocale che, in più d'un occasione, le impedisce di passare agevolmente l'orchestra. Convincente anche il bravo Armando Gabba nei panni di un umanissimo Adolfo.

Elisabetta Martorana si disimpegna senza problemi, risultando precisa ed espressiva nella canzone della Barbona. Lieta Naccari, la segretaria, sa stare benissimo sulla scena e viene a capo senza patemi delle sue poche frasi.

La coppia protagonista dell'intermezzo in un atto di Wolf-Ferrari piace senza riserve. La Susanna di Arianna Vendittelli unisce alla bellezza della figura una linea di canto morbida ed espressiva che ben si adatta a disegnare l'ingenuità maliziosa del personaggio. La vocalità è omogenea e, benché di peso specifico non impressionante, brillante e correttamente proiettata.

Bruno de Simone risolve il conte Gil con consumato mestiere, piegando la propria voce – senza dubbio la più ampia e sonora tra quelle in gioco – alla varietà di sfumature ed accenti necessaria alla valorizzazione del personaggio. Davide Tonucci sa trovare la giusta misura per conferire a Sante un tono ironico senza scadere nel grottesco.

A fine spettacolo il pubblico, purtroppo non foltissimo, ha decretato un franco successo per tutta la compagnia.

Storico trionfo per la Norma di Marina Rebeka al Verdi

Era l’evento più atteso della stagione e non ha deluso le aspettative. Il debutto di Marina Rebeka nella parte monstre di Norma va ben oltre il trionfo che il pubblico del Verdi di Trieste, solitamente tiepido e compassato, le ha tributato. Va oltre perché questa Norma non si ferma alla stupefacente bellezza del canto – bellezza che, beninteso, c’è e che in fondo è lecito aspettarsi da una cantante di tale prestigio – ma assume i tratti della grande incarnazione. Ne sarà lieto Peter Gelb, boss del Metropolitan, che l’ha chiamata ad inaugurare la stagione 2017.

La Rebeka ha innanzitutto le qualità tecniche necessarie per venire a capo di una parte tanto insidiosa e complessa (legato, volume, agilità, varietà d’accenti, temperamento, musicalità, morbidezza dell’emissione) e, merce preziosa, la capacità di servirsene per dar vita a un personaggio compiuto. Ciò che sorprende, trattandosi appunto di un debutto assoluto, è l’estrema quadratura psicologica di questa Norma, l’ampio ventaglio degli affetti e la capacità di risolverli nel canto. Sin dall’entrata ogni frase è perfettamente dominata, non c’è passaggio che sembri mettere in difficoltà il soprano: i recitativi hanno la necessaria espressività e ricchezza di colori, i momenti di maggiore slancio melodico sono restituiti nel pieno rispetto della purezza della linea. Allo stesso modo lasciano il segno gli sfoghi che sollecitano la corda della drammaticità (impressionante il “Guerra, strage, sterminio!”).
Senz’altro c’è qualche dettaglio da limare, o meglio si avverte la necessità di imprimere una caratterizzazione più personale a una Norma che per ora ricalca dei modelli abbastanza convenzionali, sfumature che la frequentazione e l’esperienza porteranno a maturazione.



Gli altri interpreti in campo non sfigurano accanto a una simile protagonista. Anna Goryachova è un’Adalgisa assolutamente convincente per precisione del canto, pertinenza dello stile ed espressività. In crescendo la prova di Sergio Escobar, Pollione, che dopo un primo atto non indimenticabile conclude con sicurezza la recita.

Andrea Comelli ha bella voce e un’apprezzabile consapevolezza tecnica e stilistica ma, a tratti, dà l’impressione che i panni di Oroveso gli calzino abbondanti.
Motoharu Takei è un Flavio squillante, Namiko Chishi una discreta Clotilde.

Fabrizio Maria Carminati ha molti meriti, non ultimo quello di restituire un’esecuzione pressoché integrale del capolavoro belliniano, con tanto di cabalette riprese e variate. Il direttore dimostra di conoscere alla perfezione l’opera e il repertorio belcantistico, sa sostenere il palco con estrema dovizia e risolve con mestiere l’arco narrativo dell’opera. Si conferma ancora una volta affidabilissima l’orchestra di casa.
Assai bene si comporta anche il Coro del Verdi preparato da Fulvio Fogliazza.

Lo spettacolo, già noto al pubblico triestino, è firmato da Federico Tiezzi (scene di Pier Paolo Bisleri). Se l’impianto, di chiara ispirazione neoclassica, è a rischio di immobilismo e staticità, merita una lode il bravo Oscar Cecchi, cui era affidata la ripresa, che riesce a trovare la giusta misura nel disegnare una recitazione efficace e ben inserita nel contesto.

L’accoglienza del pubblico è trionfale sin dal Casta diva, con entusiastici applausi a scena aperta che in più d’una occasione spezzano la recita. Teatro in delirio a fine serata, come non accadeva da tempo immemorabile, con interminabili ovazioni per Rebeka e colleghi.