25 febbraio 2014

La Filarmonica della Scala e Daniel Barenboim al Giovanni da Udine

Avrebbe dovuto esserci Claudio Abbado, poi, com'è noto, le cose sono andate diversamente. A sostituirlo, sul palco del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, l'amico Daniel Barenboim a capo dell'Orchestra Filarmonica della Scala, fondata da Abbado stesso oltre trent'anni fa, per un concerto che aveva tutti i crismi dell'omaggio alla memoria di un grande che non c'è più.

Diciamo subito che l'accoglienza del pubblico udinese è stata trionfale, il clima era quello dei grandi eventi, il teatro esaurito in ogni ordine di posti. C'era la curiosità e il piacere di ascoltare un musicista tra i più popolari ed influenti nel panorama mondiale alla guida di un'orchestra italiana blasonata e prestigiosa.


Il programma, accanto al celebre concerto 22 per pianoforte e orchestra di Mozart, affidato allo Steinway dello stesso Barenboim, e all'altrettanto nota Ouverture dell'Oberon di Carl Maria von Weber, comprendeva un altro lavoro di ispirazione shakespeariana meno frequentato: il Falstaff di Elgar.

Apriva il concerto proprio l'Ouverture dell'opera di Weber. Barenboim ne dava una lettura notturna, privilegiando le tinte cupe che, per tradizione, siamo abituati ad accostare alle atmosfere del Freischütz piuttosto che alla più estroversa orchestrazione dell'Oberon. L'orchestra esibiva da subito ottima qualità di suono, soprattutto negli archi, qualche pasticcio dei fiati e grande compattezza. L'adagio, estremamente soffuso e trattenuto deflagrava in un allegro vorticoso e travolgente, dal suono denso ed avvolgente.

Nel successivo Falstaff, studio sinfonico in do minore di Edward Elgar, Barenboim faceva propria la massima di un altro Falstaff, più celebre e musicalmente ispirato, secondo cui l'arte sta nel saper “rubar con garbo e a tempo”. Le sottili sfumature agogiche, l'arte appunto del rubato, l'elasticità ritmica, consentiti da un'orchestra scattante e puntuale, vivacizzavano la partitura infondendo il giusto passo narrativo (stiamo pur sempre parlando di musica a programma) senza perdere di coesione e qualità di suono. Davvero minime le sbavature dei maestri d'orchestra, perfettamente responsivi alle suggestioni del podio; eccellenti i soli del violino di spalla e del primo violoncello.

Nella seconda parte di concerto non soddisfaceva completamente le aspettative il Concerto per pianoforte e orchestra n. 22 in mi bemolle maggiore di Mozart, non tanto per il gusto che, benché antiquato, è esattamente quanto ci si aspetta da un musicista come Barenboim, quanto per una certo sprezzo interpretativo, verrebbe da dire quasi frettolosità. Il Mozart di Barenboim - lo sappiamo bene - ricalca uno stile che, complice la rivoluzione filologica degli ultimi decenni, molti considerano superato; è un Mozart romantico, denso e lussureggiante, in cui la cura dell'amalgama orchestrale e della piacevolezza timbrica hanno la precedenza sulla trasparenza e sull'analisi contrappuntistica e ritmica. I tempi sono rilassati, i suoni compatti ed avvolgenti, con archi languidi e fiati ammiccanti. Considerando le basi di partenza, assolutamente degne di rispetto, va rilevato che l''orchestra ha suonato molto bene, con rotondità e morbidezza, alternando dinamiche impalpabili a forti intensi e levigati, pur con qualche pesantezza di troppo.

Barenboim invece sbrigava il concerto non senza errori ed imprecisioni, soprattutto nell'allegro iniziale, mescolando agli indiscutibili pregi (su tutti la bellezza dei piani), incertezze e imperfezioni tecniche che da un musicista di simile prestigio sarebbe lecito non aspettarsi (la genericità del fraseggio, un certo indugiare in rallentandi e compiacimenti ritmici). L'impressione complessiva è stata quella di un'esecuzione non adeguatamente rifinita in sede di prova in cui pianista ed orchestra cercavano di venirsi incontro, non avendo perfezionato quei meccanismi di matematica sinergia che la scrittura mozartiana richiederebbe.
Spiace rilevare questa concessione alla routine da parte di un artista del calibro di Barenboim, soprattutto alla luce delle attese che l'evento aveva destato. Va tuttavia ravvisata l'entusiastica accoglienza del pubblico a fine concerto.


24 febbraio 2014

La Traviata di Carsen ancora una volta alla Fenice

Recensione – C’è chi l’amore lo fa per noia, chi per passione e c’è chi, come ricorda il poeta, se lo sceglie per professione. È il caso di Violetta e Robert Carsen che lo sa lo mette ben in luce sul palcoscenico senza curarsi troppo dei loggionisti più inveterati che gridano al verdicidio perché “quelli là mimavano gli amplessi sessuali”. C’è poi chi va a San Remo per ricordare il divino maestro Claudio il giorno prima di celebrare un altro maestro, probabilmente ancora più divino, quel Verdi che della musica italiana, di quella vera, è il padre fondatore.
Il Verdi in questione è quello di Traviata e la Traviata in questione è quella di Robert Carsen, sempre lei, lo spettacolo che una decina d’anni fa riaprì la Fenice risorta dalle ceneri. Le ottime impressioni che lo spettacolo lasciava all’esordio, come alle successive riprese, trovano conferma ancora una volta.

Allestimento suggestivo, intenso, commovente. Carsen ha il grande merito di saper rendere in modo pienamente convincente il particolarissimo strabismo del personaggio che se da un lato cerca la redenzione da un passato compromettente nell’amore e nella fuga (senza riuscirci), dall’altro subisce il progressivo rigetto da parte di quella società borghese che pur è parte di lei, finendo per perdere l’una e l’altra cosa. C’è il denaro onnipresente a ricordarci continuamente quale sia la professione di Violetta, denaro che diventa l’unico strumento di comunicazione tra le persone, solo parametro di valutazione del valore di rapporti e relazioni.
L’ambientazione è contemporanea per parlare ai contemporanei, come Verdi avrebbe voluto – ne prendano atto i loggionisti di cui sopra – almeno questo è quanto sostiene il regista canadese. Il primo atto ha i tratti di un party dalla mondanità quasi hollywoodiana con la vacuità della borghesia in trionfo. Davvero di rado “il popoloso deserto che appellano Parigi” è parso tanto popoloso e tanto deserto assieme, fatuo ed effimero come i valori di quella stessa società. L’ambientazione della prima parte del secondo atto riproduce una foresta che non è difficile leggere come simbolo della purezza cui Violetta aspirerebbe. I soldi che piovono dal cielo, in luogo delle foglie secche, ci ricordano che l’agognata redenzione è destinata a restare soltanto una speranza. La festa da Flora si sviluppa tra i tavoli di un nightclub in mezzo a giochi d’azzardo, spogliarellisti, prostitute e lap dance. Nel terzo atto si torna a casa di Violetta. Non c’è più lo sfarzo di un tempo, il salone è spoglio, la tappezzeria stracciata. La ricchezza straripante, volgarmente esibita del primo atto lascia posto ad una povertà decadente. Violetta muore sul pavimento tra le braccia di Alfredo mentre attorno il mondo continua ad andare avanti col suo ritmo forsennato. Annina scappa con la pelliccia della padrona e la casa viene invasa dagli operai al lavoro per il nuovo proprietario come se nulla fosse successo. Popoloso deserto appunto.

Diego Matheuz è cresciuto tecnicamente rispetto a prove precedenti, è migliorata la sua capacità di sostenere il palcoscenico, di gestire gli equilibri e di coordinare buca e cantanti. C’è tuttavia un’inedita cautela, un’eccessiva prudenza nella scansione di tempi e fraseggi, decisamente più ordinari e prevedibili rispetto al passato. Ricordo una Bohéme di qualche anno fa, perennemente in bilico tra il disastro e il sublime, in cui Matheuz osava rubati, esplorava con coraggio i rapporti tra le sezioni orchestrali mettendo in evidenza un gusto per il particolare sinfonico ed una fantasia di interprete che negli ultimi tempi pare aver smarrito. C’è adesso un più solido mestiere, una correttezza formale che prima mancava ma che non di rado odora di routine. Traviata non è un cimento nuovo per il maestro venezuelano e si sente, si è sentito soprattutto nel terzo atto, aperto con un preludio indovinato e concluso in crescendo, tuttavia, rispetto alla sue prove precedenti, è mancato quello sviluppo tensivo, quell’arco narrativo che seguiva da par suo, amplificandone la cruda violenza, la parabola di Violetta, dalla frivolezza salottiera del primo atto ai deliri malinconici del terzo.

Protagonista era il soprano Irina Lungu, voce niente di che, affetta da un vibratino stretto poco attraente, ma artista e cantante solida nonché splendida attrice. Una Violetta fragile, inerte dinnanzi al cinismo e alla doppia morale di una società abietta, vittima di due uomini deboli che della stessa società si fanno scudo. Sono poca cosa i cedimenti nell’intonazione e i filati sempre sul filo del rasoio nel complesso di un’esecuzione molto positiva.
Discorso opposto per Shalva Mukeria, tenore di buona tecnica ma gusto e musicalità perfettibili. Si apprezza l’omogeneità di emissione di Mukeria mentre delude la modestia interpretativa e il gusto eccessivamente carezzevole nel legare le frasi. L’attore è impacciato e generico. Vladimir Stoyanov era un Germont sobrio e misurato, cantato con morbidezza, partecipazione e molte buone intenzioni nonostante un registro acuto faticoso.
Ottime tutte le parti minori tra cui ricordiamo la Flora di Elisabetta Martorana, l’Annina di Sabrina Vianello, Armando Gabba nei panni di Douphol e il cinico dottor Grenvil di Mattia Denti.

Concerto della Česká filharmonie diretta da Jiří Belohlávek

Se c'è un merito che va sempre riconosciuto alle grandi personalità dell'arte, particolarmente in ambito musicale, questo è la capacità di segnare percorsi inediti, cercare evoluzioni del linguaggio che consentano alla propria creatività di esprimersi lasciando un segno profondo nella storia. Non c'è dubbio che, in contesti diversi e per diverse ragioni, sia Fryderyk Chopin che Antonín Dvořák abbiano innovato profondamente il mondo musicale, esplorando soluzioni melodiche inedite in ambito pianistico il primo (molto meno sul piano orchestrale), mitigando la lezione brahmsiana alla luce delle recenti conquiste armoniche e stilistiche e della propria formazione culturale il secondo. Discorso non molto diverso potrebbe essere fatto per Bedřich Smetana che, pur godendo di fama minore e di una minore frequentazione, seppe trovare la propria cifra distintiva in un carattere per così dire “etnico” della musica, elaborando uno stile nazionale che avrebbe funto da modello per Dvořák stesso.




Per la stagione musicale, il Teatro Nuovo Giovanni da Udine proponeva un concerto della Česká Filharmonie, guidata dal suo direttore principale Jiří Belohlávek, incentrato su un repertorio ottocentesco che non sarebbe scorretto inquadrare nel romanticismo, pur offrendone tre facce distanti nel tempo e nel gusto, che ha ottenuto un ottimo successo di pubblico.

La Moldava, poema sinfonico tratto dal ciclo Mà Vlast (la mia patria) di Bedřich Smetana, metteva subito in evidenza la duttilità dell'orchestra, la sintonia con il podio, i pregi e i lievi difetti (soprattutto tra i legni) che avrebbero trovato conferma nel corso del concerto. Dopo un inizio incerto dei flauti, la morbidezza dei violini e lo splendore degli ottoni davano prova di una compagine idiomatica, perfettamente calata nel contesto stilistico affrontato.

Il Concerto n. 2 op. 21 per pianoforte e orchestra di Fryderyk Chopin aveva per protagonista il pianista Nikolai Lugansky, davvero ammirevole per fluidità e tocco  tacendo della tecnica impeccabile (assenti o impercettibili gli errori)  capace di risolvere la scrittura chopeniana smussando i languori e certo esibizionismo con gusto sobrio e un'espressività incisiva, lontanissima dall'esteriorità che capita spesso di ascoltare in questo repertorio. Colpiva l'assenza di maniera, la naturalezza dello svolgimento sia nei fraseggi che nella delicatezza dei colori.

Complessivamente molto buona, con lievi riserve, la prova orchestrale nella Sinfonia n.8 in sol maggiore, op. 88 di Antonín Dvořák. Jiří Belohlávek guidava l'orchestra con solido mestiere, risolvendo le esigenze tecniche senza aggiungervi molto di personale. Il suono orchestrale era pulito ed avvolgente, gli archi caldi e precisi mentre i fiati evidenziano qualche imprecisione tecnica ed una perfettibile qualità di suono. Il bel colore orchestrale si perdeva leggermente nei forti, caratterizzati da eccessiva compattezza, peccato comune nelle orchestre sinfoniche con un rapporto nettamente sbilanciato in favore degli archi.
Il concerto di Chopin era risolto al meglio, al netto del ruolo affatto marginale cui l'orchestra è relegata, mantenendo quella posizione defilata che consente al solista di esprimere la propria idea senza sovrastarlo o forzarlo.
In Smetana e Dvořák si apprezzava l'indubbia confidenza dell'orchestra con il repertorio, il colore specifico e la pertinenza stilistica nonché la precisione musicale e tecnica. Un'esecuzione di gusto e temperamento tipicamente est europeo in cui si è tuttavia sentita la mancanza di una bacchetta più audace nelle suggestioni ritmiche e dinamiche: lasciavano alcune riserve la rigidità dei tempi e l'eccessiva pesantezza dei pianissimi.

A fine concerto accoglienza entusiastica del pubblico in sala, omaggiato dalla Filarmonica Ceca con due bis.

Fano e Schönberg al Verdi di Pordenone

Guido Antonio Fano ed Arnold Schönberg ebbero il comune destino, e come loro molti altri milioni di cittadini tedeschi e italiani, di essere vittime delle assurde leggi razziali che negli anni '30 sconvolsero la società europea. Il primo si vide costretto ad abbandonare la Germania e a subire accuse infamanti in merito al valore, oggi ampiamente riconosciuto, della propria produzione musicale mentre Fano dovette rinunciare all'incarico di professore di pianoforte presso il Conservatorio di Milano. Alla luce di tali eventi risulta ancor più significativa la scelta della direzione artistica del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone di celebrare la giornata della memoria con un concerto che omaggiasse il lavoro dei due compositori.



Protagonisti della serata il pianista e consulente artistico del teatro, Maurizio Baglini, e il Quartetto di Cremona, celebre formazione cameristica composta da Cristiano Gualco e Paolo Andreoli ai violini, Simone Gramaglia alla viola e dal violoncello di Giovanni Scaglione.
Il Quintetto per pianoforte e archi in do maggiore di Guido Alberto Fano è una composizione particolare, quasi retrospettiva per gusto e linguaggio, vagamente brahmsiani. La scrittura è estremamente scoperta e richiede un equilibrismo contrappuntistico pressoché perfetto, soprattutto per gli archi: a dispetto del carattere tonale del lavoro, ne risultano evidenti la difficoltà tecniche e la scarsità di riferimenti ritmici. Quasi agli antipodi per intuizioni armoniche e cromatiche – forse anche per organicità e compiutezza - Verklärte Nacht (La Notte Trasfigurata) di  Arnold Schönberg, sestetto per archi a programma, è un concerto già proiettato verso il XX secolo e quelle che saranno le sue evoluzioni musicali.
Il Quartetto di Cremona dava il meglio di sé in Schönberg (con la collaborazione della viola di Margherita Di Giovanni e della violoncellista Sara Spirito) evidenziando una stupefacente bellezza e rotondità di suono mentre si concedeva qualche imperfezione nel concerto di Fano. Nel sestetto colpivano l'assoluta padronanza tecnica e l'espressività di colori e fraseggi dei musicisti, capaci di risolvere con coerenza la narrazione musicale e lo sviluppo poetico del concerto. In Fano piaceva molto la delicatezza del pianoforte di Baglini il quale sapeva trarre dallo strumento un suono morbido e avvolgente, sempre a fuoco e rotondo in ogni sfumatura dinamica.

A fine concerto ottima accoglienza del pubblico pordenonese per i protagonisti della serata.

La Clemenza di Tito secondo gli Herrmann al Teatro La Fenice

È uno spettacolo che lascia il segno la Clemenza di Tito in scena al Teatro la Fenice di Venezia (in replica fino al 1 febbraio) e ricorda, se mai ce ne fosse bisogno, quale sia la potenza comunicativa del teatro mozartiano e quanto parli ancora al presente. Merito senz’altro di Ursel e Karl-Ernst Herrmann, autori di regia, luci scene e costumi e di un cast all’altezza della situazione in ogni singolo componente.



Una sala bianca, che potrebbe richiamare lo stile neoclassico come il design più à la page, è il Campidoglio titino che ospita questa scalata al trono imperiale, questa lotta tutti contro tutti in cui ogni personaggio diventa vittima e carnefice, congiurato e pedina, in una corsa al potere cieca e spietata.
C’è posto per i sentimenti nelle stanze del potere? Si direbbe di no guardando lo spettacolo degli Herrmann, anzi, ogni segno di umanità pare ritorcersi contro chi lo esprima, rivelandosi di fatto una debolezza. E l’imperatore Tito, al vertice della piramide, pare il più fulgido esempio di tale rinuncia, non sovrano illuminato quanto piuttosto uomo sofferente per il sacrificio, necessario alla ragione di stato, di ogni passione o istinto. E la sua aria del secondo atto suona come un appello disperato agli uomini, gli spettatori che, in una sala illuminata a giorno, diventano gli “amici dei” a cui Tito chiede “un altro cuore”, un cuore severo che lo metta al riparo dagli affetti umani, così depistanti per il suo dovere di sovrano.
Il Mozart secondo gli Herrmann è pessimistico, lo è nell’approccio al Settecento ed all’illuminismo. La ragione non è strumento per il raggiungimento del bene ma mezzo di manipolazione o di analisi disincantata della realtà mentre i sentimenti sono ambigui, talora esagerati, spesso simulati. Chi ama davvero, Annio e Servilia, rimane fuori dai giochi o, peggio ancora nel caso di Sesto, ne viene travolto.

Questo è teatro, sublime, delicato, sconvolgente. La regia degli Herrmann è a perfetta misura, ogni gesto è calibrato con cura assoluta, ogni sguardo, ogni movimento, tutto è studiato sulla musica e sulla parola.

Sul podio di un’orchestra in forma smagliante, Ottavio Dantone sapeva assecondare la forza teatrale della musica mozartiana senza sacrificare la bellezza del suono orchestrale o l’approfondimento; basterebbe citare i fraseggi dei soli o la pregnanza di significato drammatico delle pause nel finale primo. Una lettura vibrante, ricca di sfumature ritmiche e timbriche in cui ogni scelta concorreva a costruire un disegno compiuto ed organico, perfettamente aderente al palcoscenico.

Molto buona la prova di Carlo Allemano nei panni di un dolente e lacerato Tito. Il tenore possiede voce dal colore particolare ma affascinante, eccellente musicalità e autorevolezza scenica.

Carmela Remigio era una Vitellia di grande classe e personalità, impeccabile nella scrittura mozartiana. Eccellente Monica Bacelli, Sesto commovente per intensità interpretativa, espressività di fraseggio e bellezza di canto. Molto buona la prova di Raffaella Milanesi, Annio di bel timbro e buona tecnica. Solido ed autorevole il Publio di Luca Dall’Amico. Julie Mathevet era una Servilia dolce e gradevole.

Paolo Locatelli
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