28 gennaio 2019

Werther di Massenet al Teatro La Fenice

La felicità vista attraverso gli occhi di un altro. Il Werther di Rosetta Cucchi in scena alla Fenice non è il classico triangolo amoroso lui-lei-l’altro, è piuttosto una storia di illusioni e delusioni. Lui, Werther, sogna la famiglia perbene alla “Mulino Bianco” e quell’amore perfetto che probabilmente esiste solo nei libri e nelle fantasie (tardo)adolescenziali, lei è l’incarnazione dell’angelo del focolare e pare essere la tessera perfetta per far quadrare utopie e realtà.



Il problema è che la vita vera è un po’ diversa e questo Werther alienato non riesce a incasellarcisi o adattarsi, ma rimane in disparte impotente ad osservare lo scorrere dell’esistenza altrui, o a ricordare i sogni perduti stravaccato su una poltrona, come rivivesse l’intera vicenda in un flashback. Sullo sfondo, in pantomima, scorrono i frammenti di una vita borghese da romanzo rosa (forse quella del piccolo Werther?) in cui il marito ama la moglie, la moglie ama il marito e le giornate scorrono via tra coccole e bacetti.

Chiaro, lineare, semplice e ben realizzato. Lo spettacolo della Cucchi funziona a dovere e si fa seguire dall’inizio alla fine, anche perché il lavoro su solisti e comparse è didascalico ma molto curato. La scena è dominata dallo scheletro di una casetta a due piani per i primi due atti, nel terzo ci si addentra nel salottino borghese della coppia Charlotte-Albert, il quarto è una radura spoglia e tetra. Insomma le scene (Tiziano Santi) fanno pensare un po’ a Ibsen, e infatti sono efficaci. In linea con il disegno generale i costumi di Claudia Pernigotti mentre Daniele Naldi (luci) avrebbe potuto osare qualcosa di più.



Sarebbe dovuto esserci Piero Pretti ad assumersi oneri e onori del ruolo del titolo in questa produzione ma un malanno di stagione l’ha messo fuori gioco. L’ha degnamente sostituito Jean-François Borras che, senza una prova nelle gambe e nella gola (alla generale ha cantato Sébastien Guèze), si è fatto assai valere. La voce è chiara e leggermente secca in alto, il volume non è impressionante ma riempie bene la sala, eppure, al netto dei pruriti vociologici, quello di Borras è un Werther che conquista. Morbido, sfumato, ben cesellato nelle dinamiche e nelle mezzevoci senza sbrodolamenti larmoyant, patetico il giusto. Nei primi due atti c’è qualche tensione di troppo negli estremi acuti (che poi sono solo un La e un Si), ma dal terzo la prova decolla con un’eccellente esecuzione dell’aria e un finale altrettanto sentito.

C’è poco da rimproverare a Sonia Ganassi, Charlotte, che canta con classe e, dopo un inizio non irreprensibile, sfoggia anche un’invidiabile omogeneità di timbro. Qualche affondo marcato e un po’ di vibrato qua e là fanno capolino, ma sono dettagli. Quel che invece non è affatto un dettaglio è che si fatica a crederle, e non per limiti intrinseci dell’artista o della cantante, ma perché a questa Charlotte manca proprio l’afrore adolescenziale. È inevitabile che sia così d’altronde, ma perché non andare su ruoli teatralmente più calzanti?

Simon Schnorr è un Albert assai modesto: stona parecchio e si arrabatta per tenere a bolla un’emissione sbilenca. È invece una piacevolissima sorpresa la Sophie di Pauline Rouillard che ha squillo, freschezza e verve.

Armando Gabba è una delle presenze fisse nel teatro veneziano e ha solido mestiere, che emerge anche dal suo Le Bailli, parte che tuttavia richiederebbe un cantante dal baricentro più grave, tant’è che in basso la voce baritonale di Gabba non sempre si impone a dovere. Anche Cristian Collia e William Corrò fanno parte della, per così dire, compagnia fissa del teatro e si disimpegnano senza problemi nei panni di Schmidt e Johann.

I figli del borgomastro sono solisti del Kolbe Children’s Choir e, pur con qualche incertezza, se la cavano degnamente, Safa Korkmaz e Simona Forni sono rispettivamente Brühlmann e Käthchen.



Dirige Guillaume Tourniaire, il quale ha due virtù: concerta e tiene molto bene l’Orchestra della Fenice, che è pulitissima e precisa, e individua una tinta “sua”. È un colore tendenzialmente cupo, a tratti plumbeo, e forse alcuni affondi potranno suonare eccessivamente grevi a certe orecchie, ma narrativamente funziona, anche perché, pur nell’oscurità generale dell’amalgama, Tourniaire scampa il rischio di impantanare in una melma indistinta le varie linee, mantenendo un pregevole equilibrio e dando il giusto risalto ai soli. Certo un briciolo di morbidezza in più porterebbe molti punti al suo lavoro e non farebbe torto alle ottime intenzioni interpretative del protagonista.

Successo netto e caloroso con punte di entusiasmo per il salvator della patria, Jean-François Borras.

22 gennaio 2019

Robert Trevino, un nome da segnare sul taccuino

Robert Trevino è un gran direttore d’orchestra. Giovane – un maestro a trentacinque anni lo è eccome! –, fisionomia e giovialità vagamente pappanesche e un gesto bello limpido. Il che di per sé significherebbe poco o nulla, non fosse che in questo caso il gesto si traduce in musica, che dall’Orchestra Nazionale della Rai (in forma strepitosa) sgorga limpida, flessibile il giusto e, appunto, in totale risonanza col podio. Che sollecita, allarga, spinge e spreme, ottenendo ad ogni cenno un effetto che non è mai senza causa né ragione, anzi, spesso si ha l’impressione che ci sarebbe ulteriore margine di ricettività a tanti stimoli: certe espansioni o sferzate, oppure il richiamo ad adombrare talune frasi degli archi, potrebbero riuscire ancor più marcati. Ma sono dettagli pulviscolari, quello che si è ascoltato al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, terza e ultima replica di un programma che ha avuto modo di rodarsi per bene al Toscanini, è un gran concerto.



Innanzitutto per via del suono di cui si diceva, che non è solo intrinsecamente bello di una nitidezza levigata eppure corposa, ma è anche mobile e cangiante, e, pur in quell’orgia straussiana che è la Alpensinfonie, non perde mai smalto né riesce confuso, nonostante Trevino non sia tipo da lesinare sui decibel. Però ha l’orchestra in controllo assoluto, basti guardare come tiene gli ottoni, anticipando di quella frazione di secondo i loro attacchi con la sinistra così da farli sempre quadrare. Poi è direttore che osa ma non esagera, quindi sviluppa l’incedere della musica senza meccanizzare il metronomo ma nemmeno ammiccando in modo eccessivamente provocante, sfoga i momenti di piena non senza concedersi impeti arrembanti ma evitando di buttarla in cagnara, dosa le dinamiche ad ampio ventaglio ma con plasticità. E infine sa pennellare il suono legando, legando e legando ancora (“non tagliare!”, insegna Chung, ed è così che si fa).

La sinfonica torinese, come detto, è in gran serata. Al netto di qualche sbavatura degli ottoni e, sul finale, dei legni, duttilità e precisione sono pressoché inappuntabili ma soprattutto, ciò che davvero colpisce, è la qualità dell’amalgama; chi avesse qualche dubbio sul fatto che un suono grande non possa essere leggero farebbe bene ad ascoltarsi un concerto così.

Straussiani anche i Vier letzte Lieder che aprono la serata. Sul tappeto dell’orchestra (magnifica, quell’ingresso dei violoncelli in Beim Schlafengehen è così morbido, caldo e delicato allo stesso tempo!) Dorothea Röschmann parte un po’ “dura” e gridacchia qualche fa diesis e un paio di la, ma poi va scaldandosi. La voce è ancora di bel timbro, più opaca in basso si espande poderosa nel medio-acuto mentre sopra c’è sempre qualche tensione di troppo, almeno rispetto alle esigenze di una musica tanto celestiale. Certo, fraseggio ed espressività sono quelli dell’artista di razza, può darsi fosse un po’ stanca o in forma non eccezionale.

Successo calorosissimo a fine concerto.

21 gennaio 2019

Un Bach galante

Nell’avvicinare un repertorio più o meno remoto ogni interprete deve porsi due problemi, di forma e di sostanza: c’è da un lato l’opportunità di ricreare, nei limiti delle possibilità, una prassi storicamente informata, d’altro canto non si può certo fingere che il tempo non sia trascorso e che il pubblico d’oggi non abbia una sua sensibilità propria, senz’altro differente da ieri e probabilmente da domani.



Se il primo ostacolo può essere scavalcato grazie all’adozione di strumenti d’epoca e del corretto stile esecutivo – per farla breve, ci si arriva più con la testa che con l’istinto – il passaggio successivo è questione che attiene all’arte, quindi alla sensibilità e all’esperienza. Diverso è preservare e, per certi versi tradurre a misura di orecchie d’oggi, lo spirito di una composizione di carattere sacro da una musica d’intrattenimento, come è differente il teatro operistico dal sinfonismo.

Ebbene Fabio Biondi e i suoi dell’Europa Galante sono il genere di musicisti che quando vanno indietro nei secoli sanno spuntare entrambe le caselle. Perché se la trasparenza del contrappunto e il carattere storico del Bach che “fanno” loro sono assicurati dall’equilibrio e dalla trasparenza dell’esecuzione, c’è altresì l’abilità di scongiurare il mero esercizio di stile.

Delle Ouvertures composte da Johann Sebastian Bach ne sono sopravvissute quattro, collocabili indicativamente tra la terza e la quarta decade del Settecento. Si era diffusa allora in Germania la moda delle Suite strumentali, in sostanza delle sequenza di danze che potevano essere o meno precedute da un’Ouverture, da cui il nome.

È su questo terreno minato che Biondi e i suoi si cimentano sul palco del Verdi di Pordenone, uscendone da vincitori. Al netto delle disomogeneità e delle distorsioni che gli strumenti d’epoca non risparmiano a nessuno, in questo Bach c’è vita. Biondi lo asciuga nell’organico e nell’articolazione senza scarnificarlo o rinsecchirlo, e senza nemmeno relegarlo in quell’isterismo rockettaro che, diciamolo, ha fatto il suo tempo. Apollo e Dioniso si guardano in faccia e si danno la mano insomma. Tenuta ritmica formidabile del continuo, tensione espositiva costante e flessibilità in ricamo di legni ed archi acuti: l’Europa Galante è una gran compagine, nessuno escluso. Si cita, senza fare torto agli altri, il flauto di Marcello Gatti che nell’Ouverture in si minore BWV 1067 si merita un’ovazione personale.

Successo calorosissimo.

Nabucco al Verdi: come la vogliamo fare l'opera?

Il Nabucco in scena al Verdi di Trieste conduce ad un bivio: se lo si guarda inquadrandolo nel filone degli spettacoli di onesta tradizione, oleografici – aggettivo stra-abusato quando all’opera ci si annoia – e “di maniera” non c’è niente che non vada. C’è un’ambientazione più o meno storica, scene e costumi sono come uno se li aspetta (che poi cosa ne sappiamo noi pubblico in sala di come si vestissero i babilonesi nel settimo secolo a.C.?!), ci sono un cast funzionale e un direttore che sa far quadrare i conti. Insomma è il più classico dei Nabucchi di buona provincia.

Foto Fabio Parenzan

Però se si osserva la faccenda da un’altra prospettiva, cioè quella di chi pensa che l’opera sia innanzitutto teatro, le cose cambiano. Sì, è vero che Nabucco è un titolo insidiosissimo, è vero che si lavora sempre con frenesia e tempi stringatissimi, è vero che ci sono mille compromessi da incastrare, però ci si chiede: perché? Perché non provare a sbozzare un po’ i caratteri,  emancipandoli dalla routine e dalle secche della tradizione? Perché non esplorare più a fondo la reciprocità dei personaggi, le loro ombre? Magari anche a calcare un po’ la mano su quanto c’è di meschino, violento, vile, ipocrita e, perché no, anche cringe, in quest’opera. Insomma a smuovere le oneste e ben create coscienze che vanno a teatro per sentire il “Va pensiero”. E facciamolo andare, sto pensiero! Facciamolo incazzare sto benedetto pubblico, prendiamolo a pugni nello stomaco, o almeno proviamoci! Certo questo è un problema su larga scala e non riguarda il solo Verdi di Trieste, però il pubblico invecchia e non è solleticando i capricci della frangia più reazionaria e ostile alle novità che se ne attira di nuovo.

Foto Fabio Parenzan

Ciò detto, lo spettacolo, prendendolo per quel che è, cioè il milionesimo Nabucco sword and sandal, funziona discretamente. Le scene di Emanuele Sinisi rimandano a un’antichità generica che piace sempre e non scontenta mai, Danilo Rubeca che riprende e rimonta la regia di Andrea Cigni ha diversi meriti (uno su tutti: spazza via certi topoi del melodramma cabalettaro) e qualche limite,  ma soprattutto c’è una direzione musicale molto buona. Christopher Franklin non è un volto nuovo per il pubblico triestino e dà prova, ancora una volta, di cogliere nel segno indipendentemente dal repertorio. Tiene bene insieme palco e orchestra, cura narrazione e sonorità, è vario, pulito e serrato il giusto. I complessi del Verdi sono in ottima serata, così come il coro, preparato da Francesca Tosi.

Foto Fabio Parenzan

Giovanni Meoni è un protagonista di consumato mestiere che, pur con mezzi non troppo accattivanti, dice, accenta e sfuma; in definitiva porta a casa un Nabucco coerente e convincente. La Abigaille di Amarilli Nizza parte male nel primo atto, si tira di qua nel secondo e va crescendo dal duettone in avanti. Alla fine la sfanga anche se non entusiasma. Gran musicista e cantante, Nicola Ulivieri non trova nella scrittura di Zaccaria il terreno più fertile per esaltarsi: meglio i momenti più lirici (la preghiera), un po’ meno quelli che sollecitano gli estremi della tessitura.
Bravissima la Fenena di Aya Wakizono che è bella e sa muoversi e cantare, così come convince l’Ismaele di Riccardo Rados: le qualità ci sono e sono notevoli, ma vanno ancora un pelo rifinite.

Positivo l’apporto di tutti i comprimari: Abdallo (Andrea Schifaudo), Anna (Rinako Hara) e Il Gran Sacerdote di Belo di Francesco Musinu.

Successo pieno.

16 gennaio 2019

Gatti spreme Schumann

Lo Schumann di Daniele Gatti non è affare per damerini. Tinte forti, passioni, un afflato quasi titanico; insomma è romantico che più romantico non si può. Il che affascina, va detto, in tempi in cui la statura d'un direttore pare essere direttamente proporzionale alla sua propensione all'analiticità e alla trasparenza, ma d'altro canto stranisce. Un po' proprio per questo andare controcorrente, un po' perché tale approccio esaspera l'effetto “polpettone” dell'orchestrazione (anzi, a tratti si ha il sospetto che certo spingere il pedale degli archi miri proprio a riequilibrare l’arroganza dei legni).



D'altro canto uno Schumann del genere bisogna saperlo fare, e a Gatti tutto si può dire tranne che non conosca il mestiere. Tiene l'orchestra in pugno con un virtuosismo che si estrinseca ovunque, soprattutto in una quadratura ritmica che è persino insolente nelle "sue" – ormai le conosciamo bene – accelerazioni: quella che stringe la chiusa del Secondo movimento della Sinfonia n. 2 in do maggiore è elettrizzante. Certe scudisciate che spezzano l'articolazione, la nettezza dei cambi di tempo e degli sbalzi, le ondate sonore dei forti sono impressionanti.

Se ne giova più la Sinfonia n. 4 in re minore per orchestra op. 120 che la Seconda, forse per il suo essere presaga di una forma che troverà sviluppo e gloria negli anni che verranno. Gatti la scolpisce in un solo blocco di marmo, quasi identificandola senza se e senza ma come poema sinfonico, cosa che le assicura tensione e coerenza, anche se spesso a discapito della leggerezza.

D'altro canto questo approccio tardo romantico, che pare leggere Schumann più come un pioniere che come uomo del suo tempo, qualcosa sacrifica ed è qualcosa di importante. La frammentazione della scrittura, quell’affastellarsi di dettagli su dettagli, di vicoli ciechi e tentativi irrisolti non traspare che in minima parte, quasi l’esuberanza dinamitarda di Gatti inglobasse ogni sfumatura o ambiguità in uno slancio iper-eroico. Ma qui si entra nella sfera dei gusti personali, che sono sempre legittimi ma mai assoluti, e come tali vanno considerati.

Quel che invece è oggettivo è che la Mahler Chamber Orchestra, pur seguendo il direttore in ogni sua sferzata, avrebbe necessitato di qualche prova in più: certo, si parla di un’orchestra magnifica per pasta, pulita e scattante, ma certe sbavature di struttura degli archi acuti e l’imbolsimento dei pieni orchestrali sono cosa su cui si sarebbe dovuto lavorare un po’ di più.

Ultima nota, lievemente polemica: un direttore di tale statura – in realtà qualsiasi direttore, di qualsiasi statura – farebbe bene ad evitare di canticchiare, ronzare e bofonchiare per l’intera durata del concerto, ne va della sua stessa riuscita.

Pubblico del Comunale di Treviso in estasi, trionfo.

Recensione pubblicata su OperaClick

3 gennaio 2019

Concerto di Capodanno 2019 alla Fenice

Il Beethoven di Myung-Whun Chung assomiglia tanto a Venezia. Un ginepraio di vicoli all’apparenza ciechi che trovano sempre un pertugio per risolversi, angoli retti che spezzano linee ripetute in eterno ma che a ben guardare sono dettagliate nel minimo particolare ad una ad una, facciata dopo facciata. E poi, di tanto in tanto, un ponte ammorbidisce o inasprisce il cammino, oppure un canale più ampio degli altri lascia passare un soffio inatteso di brezza. Ovunque si volga lo sguardo c'è uno scorcio che merita di rubare un paio di secondi ai sensi tutti. L'architettura stessa della sua Settima ha l'eleganza sghemba dei palazzi veneziani, che in equilibrio sbilenco sopra la gravità dell'acqua esibiscono quella bellezza inafferrabile che è preclusa a qualsiasi altro luogo al mondo. Questa bellezza la raccontano i tempi così asimmetrici e "sbagliati" dell’Allegro con brio, che si allarga e si stringe con un’imperfezione tanto enigmatica quanto vertiginosa, o le rarefazioni improvvise su cui i legni riprendono il tema del Primo movimento.



Non c’è solo Chung a guadagnarsi il pane nel Concerto di Capodanno della Fenice, tutt’altro. Questa è innanzitutto la festa delle maestranze di casa, coro e orchestra su tutti, che – almeno alla replica del 30 – sono in forma stratosferica. Se la Sinfonia n. 7 in La Maggiore op. 92 può sgorgare dal gesto zen del direttore tanto limpida e netta è perché l’orchestra suona alla perfezione, per precisione, pulizia, compattezza e qualità. Il resto ce lo mette lo stregone coreano, che al solito pennella la musica di colori e respiri.

Dopo un Beethoven da incorniciare c'è anche il Capodanno-karaoke da Raiuno, che in genere disgusta i palati più raffinati e compiace i cuori semplici. Ebbene, quest'anno il medley strappa-applausi può piacere proprio a tutti. Il novanta percento delle musiche in programma è moneta corrente per i professori d’orchestra, che infatti suonano da Dio (anzi, diciamo pure che infliggere loro tre brani della Traviata è un’angheria che non meriterebbero).



E infine ci sono due ottimi cantanti, che raddoppiano nel quartetto della Rondine. Francesco Meli ha una voce che col passare degli anni diventa sempre più grande senza perdere né morbidezza né varietà di dinamiche. Nadine Sierra è bella come una top model e ha comunicativa, tecnica, agilità, acuti (anche se un po’ più aciduli di quanto fossero in passato) e carisma. Lui balza dal belcanto di Nemorino a Cavaradossi senza colpo ferire, lei rimane nella comfort zone del Verdi “popolare”, sciorinando sovracuti e fiati interminabili. Bravissimi entrambi.

Serena Gamberoni e Matteo Lippi si fanno degnamente carico delle parti di Lisette e Prunier, i Piccoli Cantori Veneziani di Diana D’Alessio sono eccellenti nella Quadrille.

Chiudono il solito Va’ pensiero, che l’ottimo Coro della Fenice preparato da Claudio Marino Moretti ormai conosce come il “Padre nostro”, e il finale-Alfano della Turandot, spudoratamente piazzato in coda per strappare un’ovazione che puntuale si realizza.

Quindi brindisi, bissato come da tradizione tra battimani e furori (con il rischio, fortunatamente scongiurato, di trissarlo).

Applausi da stadio un po’ per tutti. Buon anno.


La Cenerentola dei bambini chiude l'anno a Padova

Ammesso che le distinzioni brutali abbiano un qualche significato, ci sono opere da cantanti, opere da direttore e opere "ingranaggio" che come un castello di carte stanno in piedi solo se ogni tessera va al suo posto. La Cenerentola di Rossini è un po' così, teatro che si autoalimenta o opera da sole prime parti, in cui tutti devono guardarsi negli occhi e marciare con la stessa cadenza. Ebbene, al Verdi di Padova lo sanno e per la chiusura dell'anno solare ne hanno messo in piedi una produzione equilibrata, senza prime donne sgomitanti e senza gregari. Perché Annalisa Stroppa, Angelina, è bella e brava, ma gli altri non sono da meno. C'è Xavier Anduaga ad esempio, che è un Ramiro forse un po' da limare qua e là (in realtà solo nelle agilità e nella recitazione) ma dalle qualità eccezionali. Ha voce di timbro speciale, tanto volume e dei Do che riempiono il teatro. D'accordo, il suo canto è più "di natura" che "di tecnica", e qualche suono va ancora messo nella giusta posizione, ma i mezzi sono straordinari e la sua spontaneità d'approccio non fa loro alcun torto. Della Stroppa si è già fatto cenno. Ha un medium avvolgente e ricco, lega e sfuma con classe e ha tutta la dolcezza che la parte richiede. Nel Rondò poi dà prova di sapersi disimpegnare con maestria anche nelle colorature, insomma, è una Cenerentola con la C maiuscola.

Foto: Nicola Fossella

Marco Filippo Romano ha forse uno strumento meno dovizioso per ampiezza e grana, ma è artista fin nel midollo, sicché accenta, recita, colora e sillaba da Grande, direbbe Dandini. Dandini che è Alessio Arduini, la cui musicalità e pregio del materiale non costituiscono certo una sorpresa (anche se forse la tessitura è un pochino troppo grave per la sua vocalità).

Benissimo Gabriele Sagona che è un Alidoro come si deve, cioè non un comprimario ma una prima parte, e nella sua aria si riempie di gloria perché all’omogeneità e alla pulizia del canto unisce un pasta vocale da violoncello.

Completano il cast Irina Ioana Baiant e Alice Marini (rispettivamente Clorinda e Tisbe) che sono belle e disinvolte, sgarrano un paio di attacchi e gracchiano qualche acuto, ma nel complesso sono nello spirito dello spettacolo, che è quel che più conta.

Foto: Nicola Fossella

Uno spettacolo piacevole e divertente, che riconduce la vicenda a una storia per bambini giocata da bambini, che si muovono (molto bene, perché Paolo Giani la regia la fa davvero e non si limita ad abbozzare scene e costumi) da lillipuziani in un mondo in macroscala. La pedana rotante – e un po' cigolante, ahinoi! – ribalta la scena ogni tre per due, il resto lo fanno cantanti, coro e mimi, che sono diretti con dinamismo e, chi più chi meno, non senza finezza. C'è forse qualche cosa di troppo? Può darsi. La matrigna (Linda Zaganiga) e la scena della cantina trasposta in una classe di alunni terribili sono forse poco funzionali alla drammaturgia, o quantomeno non vi aggiungono molto, ma non fanno nemmeno danno e certo non rovinano un allestimento che funziona dall'inizio alla fine.

Le poche note dolenti arrivano dal podio. Antonello Allemandi infatti inciampa in quello che è l'errore capitale per un direttore d'opera: marcia a testa bassa seguendo il proprio sentiero, che talvolta non coincide con quello dei cantanti. Così capita spesso che nei concertati (e non solo) il palco rimanga indietro o che qualcuno si perda per strada, senza che dalla buca di faccia granché per salvare tempestivamente la situazione. Peccato perché per il resto l'Orchestra di Padova e del Veneto è limpida e brillante e l'esecuzione strumentale riesce tesa, pur nella sua squadratura. I tempi sono tendenzialmente spediti, l'articolazione netta e incisiva e anche le dinamiche chiaroscurate il giusto. Forse sarebbe bastata qualche prova in più per oliare la macchina.

Onesta la prova del Coro Lirico Veneto preparato da Stefano Lovato.

Successo caloroso per tutti.

Foto: Nicola Fossella