30 giugno 2014

The Rake’s Progress alla Fenice

The Rake’s Progress ovvero La carriera di un libertino. Tom Rakewell è un giovincello perbene, pigro e svogliato, privo di particolari qualità, che per artificio del misterioso Nick Shadow, enigmatica figura a metà strada tra l’incarnazione demoniaca e l’Es freudiano, entra in possesso di una straordinaria ricchezza che lo porterà ad abbandonare la fidanzata Anna Trulove per una vita viziosa e sregolata. Ovviamente la carriera di Tom finisce malissimo quando Shadow decide di riscattare la propria ricompensa chiedendo in cambio la vita del ragazzo, ormai caduto in disgrazia. Nel mezzo c’è tutto quello che ci si aspetta da un libertino e qualcosa di più, dalle orge sfrenate al matrimonio con Baba, l’orrida donna barbuta. Questa in estrema sintesi la trama dell’opera di Stravinskij, su libretto (bellissimo) di Auden e Kallman, che nel 1951 debuttò sul palcoscenico del Teatro la Fenice dove oggi ritorna, in replica fino al 5 luglio, con un allestimento firmato da Damiano Michieletto.



Diciamo subito che lo spettacolo funziona e merita di essere visto, nonostante alcune riserve. Michieletto attualizza l’azione trasformando il Settecento dettato dal libretto in una contemporaneità caricaturale e grottesca. Gran parte dell’azione prende lungo in una piscina colma d’oro, un paese dei balocchi che accoglie i vizi (su tutti la lussuria, vera protagonista dell’allestimento, benché connotata di una forte caratterizzazione comica) dell’umanità “corrotta” o forse liberata – il dilemma resta in fondo irrisolto – da Shadow. La stessa Baba ha ben poco del mostro che ci si immagina, tutt’altro, essa assume i tratti di un oggetto sessuale ambiguo e provocante, personificazione dell’erotismo più spinto e immorale e forse per questo più intrigante; una Baba dalla sessualità fortemente definita ma altresì indeterminata, al punto che lo svelamento del viso previsto del libretto diviene un’esibizione dei genitali. È indiscutibile che Michieletto attribuisca alla sfera sessuale un ruolo cardine nell’opera di Stravinskij: essa rappresenta la principale ossessione di Tom e del mondo da cui finisce divorato ma anche lo strumento di manipolazione utilizzato da Shadow sia nei confronti del protagonista che di Anne, capace tuttavia di resistervi.

Il progressivo svuotarsi della piscina lascia sul palco un ambiente spoglio e decadente che ospita le ultime scene dell’opera (cimitero e manicomio), forse quelle emotivamente più forti e tecnicamente più riuscite, grazie all’ottimo lavoro del regista sugli artisti. La morale finale ricalca la lettura che Michieletto diede del Don Giovanni con l’ombra demoniaca, nel caso specifico Nick Shadow, vittoriosa sugli uomini: che sia il male che trionfa sul bene, l’Es sul Super Io o il vizio sulla morale (o quantomeno sull’ordine sociale) poco importa, per Michieletto il lato oscuro c’è, è necessario e, a dispetto di ogni opposizione, riesce ad imporsi. In fondo è un’impostazione che calza come un guanto alle ultime parole di Shadow stesso: “Un giorno dopo l’altro il povero Shadow deve fare ciò che gli è ordinato. Molti insistono che non esisto. Talvolta lo vorrei anch’io”.

Come accennato alcuni problemi ci sono e riguardano soprattutto la tenuta del ritmo nel secondo atto dove l’impianto fisso delle scene e una certa inerzia d’azione tendono a rallentare l’orologio. Ad ogni modo risultano evidenti la cura di Michieletto per la recitazione di solisti e coro (davvero straordinario in ogni suo singolo componente, soprattutto nel finale) e l’eccellente realizzazione di scene (Paolo Fantin) e luci (Alessandro Carletti).

La caratterizzazione dei personaggi non è delle più originali quanto a definizione della psicologia ma, pur nella relativa semplicità di orizzonti, è perfettamente realizzata: Tom è un ragazzino debole e fragile, Nick un diavolaccio rozzo e violento, per nulla insinuante né ambiguo, Anne una figura solida nella morale e nella psiche, immune alle tentazioni ma non ad eccessi di rigore.

Ottimo sia sul piano vocale che attoriale l’intero cast. Lodevole il protagonista disegnato dal tenore Juan Francisco Gatell, perfettamente a proprio agio nella scrittura della parte: un Tom Rakewell adolescenziale, succube del carisma demoniaco di Shadow. Alex Esposito era un Nick Shadow possente nella vocalità ed implacabile in scena, Carmela Remigio una Anne dal canto levigato e rifinito e dalla presenza magnetica. Conturbante la Baba della bellissima Natascha Petrinsky. All’altezza della situazione Michael Leibundgut (Trulove), Marcello Nardis (Sellem), il guardiano del manicomio di Matteo Ferrara e la Mother Goose di Silvia Regazzo.

Come accennato colpiva positivamente la prova del coro, non tanto per l’impeccabile esecuzione musicale (a questo siamo abituati) quanto per la straordinaria aderenza al progetto registico e per l’intensità della recitazione.

L’unica nota stonata – in realtà più d’una – giungeva dall’orchestra, stranamente imprecisa, diretta con pesantezza e rigidità da uno spento Diego Matheuz.

A fine spettacolo successo incontrovertibile per tutti, con buona pace di qualche isolato contestatore.

Paolo Locatelli
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27 giugno 2014

Dudamel e i Berliner in concerto a Verona

Orchestra tra le più prestigiose e blasonate al mondo, i Berliner Philharmoniker, diretti da Gustavo Dudamel, giungevano a Verona per inaugurare la XXIII edizione del “Settembre dell'accademia”, rassegna musicale che prossimamente porterà sul palco del Teatro Filarmonico artisti ed orchestre di grande richiamo e qualità.

Pare che Gustavo Dudamel e i Berliner Philharmoniker abbiano un'intesa speciale, al punto che le voci sulla candidatura del maestro venezuelano alla successione di Simon Rattle alla guida dei filarmonici si fanno sempre più insistenti. Dopo aver assistito al concerto veronese le ragioni di questo affiatamento appaiono chiare: Dudamel, oltre ad essere un direttore dalla tecnica prodigiosa, rispetta ed asseconda al millimetro la gloriosa tradizione esecutiva e le peculiarità timbriche della formazione tedesca. Il luogo comune vuole che le grandi orchestre tendano sovente a cannibalizzare il podio, imponendo la propria cifra estetica al punto da condizionare pesantemente l'idea direttoriale; per quanto riguarda Dudamel ci sentiamo di affermare che, anche nel luogo comune, ci sia un fondo di verità: non che Dudamel ceda la bacchetta ai filarmonici, tutt'altro, però dopo averlo ascoltato di recente alla guida dei Göteborgs Symfoniker, ottima compagine di cui è stato direttore principale per diversi anni, le differenze risultano evidenti. Se i Göteborgs suonavano leggeri e trasparenti, privilegiando colori freddi e l'asciuttezza alla rotondità dell'amalgama, i filarmonici non rinunciano all'opulenza dell'impasto, esibendo, pur nella chiarezza, una densità di suono che, probabilmente, va ben oltre le intenzioni del podio. D'altronde è noto che i Berliner posseggano un'identità timbrica, ancor prima che stilistica, propria, caratterizzata da un prodigioso equilibrio tra la pastosità di archi e legni e la brillantezza scintillante degli ottoni. Un suono ricco ma per nulla pesante che tuttavia, se assecondato con troppa enfasi, finisce per risultare stucchevole o quantomeno ricalcare un gusto non freschissimo.

Quello che Dudamel aggiunge alle qualità intrinseche dell'orchestra è un impeto emotivo che i detrattori potrebbero tacciare di superficialità, realizzato tramite l'accentuazione dell'incedere ritmico nei passaggi in cui la musica si fa più concitata e le dinamiche vanno verso il forte e di abbandoni alla cantabilità nelle frasi più liriche. L'impostazione di per sé non è tra le più originali ma è perseguita ed ottenuta con perizia tecnica e consapevolezza tali da centrare il bersaglio.

In riferimento al programma, Dudamel riusciva ad imprimere una propria caratterizzazione alla prima frazione di concerto, dedicata a Čajkovskij, piuttosto che nel Brahms della sinfonia n.1 dove i Berliner parevano prenderlo per mano, cosa tutto sommato comprensibile in un caposaldo del repertorio tedesco tra i più frequentati dall'orchestra berlinese.

Nei poemi sinfonici La Tempesta e Romeo e Giulietta di Pëtr Il’ic Čajkovskij Dudamel sapeva coniugare lo sfarzo sonoro ad un disegno interpretativo chiaro e convincente, esaltando l'alternanza tra la passionalità e l'impeto delle esplosioni in fortissimo (mai fragorose e confuse) e i ripiegamenti soffusi, senza mai perdere il senso della narrazione o concedersi cali di tensione.

La Sinfonia n.1 in Do minore Op. 68 di Johannes Brahms, come accennato, convinceva in misura minore. Pur apprezzando la perfezione tecnica di Dudamel, la pulizia del suono e degli attacchi, l'ottima concertazione delle voci orchestrali e la cura certosina nella distinzione dei piani sonori e delle dinamiche, si ravvisava una certa discontinuità nell'impostazione interpretativa. Ad un primo movimento denso e perentorio nell'incedere, forse fin troppo compatto, seguiva un andante sostenuto di straordinaria poesia, ottenuta grazie alla leggerezza dell'orchestra ed alla morbidezza dei legni perfettamente adagiate su un tempo meno rilassato di quanto si è abituati ad ascoltare. I movimenti conclusivi venivano risolti in una perfezione formale che sarebbe ingeneroso definire come routine di alto livello, ma che neppure lasciava spazio a guizzi o approfondimenti degni di una prova memorabile.

A fine concerto ovazioni per direttore ed orchestra da parte di un pubblico entusiasta.

20 giugno 2014

La Traviata degli specchi a Udine

A volte, a dispetto di ogni maliziosa previsione, può succedere che la semplice ripresa di uno spettacolo andato in scena senza destare particolari entusiasmi circa due mesi prima, in un altro teatro (con altro cast ed altra bacchetta), non solo superi di gran lunga il precedente e le aspettative, ma riesca persino a raggiungere livelli di eccellenza, se valutato in relazione al contesto in cui nasce.
Lo spettacolo in questione è la famigerata “Traviata degli specchi”, già transitata sul palco del Teatro Verdi di Trieste ad inizio primavera ed ora ripresa, purtroppo per una sola recita, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine.


Lo spettacolo nacque nel 1992, pensato per l'ampio spazio dello Sferisferio di Macerata da Henning Brockhaus e Josef Svoboda i quali si giovarono di una semplice ma efficace idea: uno specchio inclinato funge contemporaneamente da fondale ed “amplificatore dell'azione”, riflettendo verso il pubblico, oltre alle movenze degli artisti impegnati in scena, dei tappeti su cui è dipinta la scenografia. Certo l'allestimento ha ormai più di vent'anni e per il gusto odierno mostra qualche ruga, sia nell'impostazione bozzettistica delle tele stesse, sia per quanto riguarda alcune scelte esegetiche: il finale dell'opera, con la verticalizzazione dello specchio a riflettere il pubblico nella sala completamente illuminata, rendendolo parte integrante della società borghese che ripudia Violetta, è un'idea che appare ormai poco originale e piuttosto moralistica.
Uno spettacolo di questo genere (esteticamente gradevole, ma ordinario sotto il profilo dei contenuti, oltre che lontano da sperimentazioni drammaturgiche o ribaltamenti di prospettiva), se affidato ad artisti poco incisivi può lasciare indifferenti, ma può avere ben altro esito se si avvale di personalità interpretative forti, lasciate totalmente libere di esprimersi.

Se la Traviata udinese è stata un trionfo - e trionfo è stato davvero: capita di rado di assistere ad un successo tanto entusiastico e convinto - il merito va soprattutto ad Ekaterina Bakanova, la quale si è dimostrata un'eccellente Violetta. Non c'è gesto o parola che venga sprecato, tutto, anche il dettaglio più minuscolo, trova la giusta illuminazione sia sotto il profilo musicale (il fraseggio curatissimo ed espressivo, la ricchezza di colori, l'impeccabile musicalità), sia nella recitazione. La Bakanova non ha voce di straordinaria bellezza, né tecnica da prima della classe , ma sa costruire un personaggio completo ed assolutamente credibile, ricco di sfumature psicologiche mai plateali o sovraccaricate: la Violetta di Ekaterina Bakanova si sviluppa organicamente seguendo una parabola definita in cui l'amore si pone come strumento di liberazione e riscatto dal clima civettuolo e posticcio dei salotti parigini. Liberazione che appare evidente in quel “o gioia ch'io non conosco” gridato al mondo spogliandosi della parrucca, vera e propria maschera sociale, ma che, com'è noto, è destinata a rivelarsi una spietata illusione. Per questa Violetta l'amore di Alfredo non è l'occasione di cambiare vita ma la possibilità di provare ad essere se stessa sino in fondo anziché quel “prodotto” della società che era stata fino ad allora. In quest'ottica il distacco finale appare ancor più doloroso e l'abbraccio al contempo disperato e terrorizzato con cui stringe Alfredo durante un “Parigi, o cara” che diventa quasi un ipnotico processo di autosuggestione, ne è forse il momento culminante. Alla luce di tutto ciò paiono davvero macchioline minuscole il vibratino stretto che affligge gli estremi acuti ed alcune imperfezioni d'intonazione nell'aria del terzo atto, cesellata peraltro con ottimo fraseggio e suggestive dinamiche, e nella cabaletta “Sempre libera”.

Al suo fianco si disimpegnava piuttosto bene Alessandro Scotto di Luzio nei panni di Alfredo. Il tenore ha voce di bel timbro, fresco ed uniforme, il volume è modesto ma sufficiente ad imporsi nell'ampia sala del teatro udinese. La prova del cantante piaceva sia sotto il profilo musicale, correttamente svolto, sia per la presenza, senz'altro avvalorata dalla bella e giovane figura.
A dispetto di un'emissione che potrebbe far storcere il naso ai vociomani più intransigenti, il baritono Angelo Veccia disegnava un Giorgio Germont convincente sia per l'imponenza del mezzo, sia per la ricchezza di sfumature con cui rifiniva il canto. Il Germont di Veccia appariva spogliato di ogni traccia di meschinità o cinismo, rimanendo, benché severo e rigido, profondamente paterno.

Accanto ai tre interpreti principali ogni altro solista compitava diligentemente la propria parte: buona la prova di Letizia Del Magro nei panni di Flora, impeccabili la Annina di Anna Bordignon, il Gastone di Alessandro D'Acrissa, il Barone Douphol di Christian Starinieri. Al pari positive le prove di Francesco Musinu (Dottor Grenvil), Dario Giorgelè (Marchese D'Obigny), All'altezza della situazione anche tutti gli altri.

All'ottima riuscita dello spettacolo contribuiva in parte sostanziale il podio: convinceva senza riserve la direzione di Paolo J. Carbone il quale non solo sapeva guidare l'Orchestra del Teatro Verdi di Trieste (in forma smagliante per precisione e bellezza di suono) senza sbavature e con la massima attenzione al palcoscenico, pur senza sottometterne il ruolo alle esigenze del canto, ma si dimostrava soprattutto interprete sensibile e maturo, capace di caratterizzare un capolavoro tra i più frequentati e mortificati dalla routine, imprimendovi una propria lettura chiara ed originale. Ad un primo atto brillante e salottiero, incalzante pur senza giovarsi di tempi frenetici o dinamiche travolgenti, seguiva un duettone connotato di dolore sordo in cui l'orchestra si poneva come specchio fedele della sofferenza taciuta di Violetta; la festa da Flora assumeva una caratterizzazione affatto inedita laddove il “largo” prescritto per il concertato finale, staccato con un tempo più rapido e rigido di quanto si è abituati ad ascoltare, diveniva un inarrestabile precipizio verso la tragedia, piuttosto che una lamentosa meditazione sui rimorsi. Ciò detto il vero gioiello della recita è stato il terzo atto, complice una Bakanova trasfigurata nell'aspetto, sorretta da un'orchestra felpata che, sin dal preludio, trovava colori soffusi e delicati che si facevano via via più cupi e drammatici fino all'esplosione finale, rabbiosa e lacerante. Insomma una prova assolutamente maiuscola dell'orchestra e di un giovane direttore che speriamo di poter ritrovare presto alla guida della compagine triestina. Al pari impeccabile il Coro del Verdi guidato dal maestro Paolo Vero.

Come accennato, a fine spettacolo, successo trionfale per l'intero cast ed in particolar modo per la protagonista, con ripetute chiamate e prolungati applausi sedati soltanto dalla calata del sipario.