12 luglio 2022

Peter Grimes al Teatro La Fenice

  Il Peter Grimes in scena al Teatro La Fenice è una delle cose migliori che si siano viste lì dentro da molti anni a questa parte. L’opera di Britten arriva a Venezia per la prima volta dalla nascita con uno spettacolo scarnificato fino all’osso, che pare dispensato dalla smania modaiola di stupire o reinventare la drammaturgia originale a tutti i costi e forse proprio per questo motivo risulta così potente. Un Peter Grimes che Paul Curran, regista, riesce a trasformare in un thriller a tratti inquietante, a tratti grottesco. Una categoria, quest'ultima, che irrompe allorché sale sul palco Mrs. Sedley, in locandina una Rosalind Plowright che dicono gloriosa ma che purtroppo alla recita di cui si racconta è stata degnamente sostituita, causa indisposizione, da Kamelia Kader.



  Curran insomma monta il Peter Grimes di Britten senza cambiarlo di una virgola, ma concentrandosi sulla tridimensionalità dei caratteri, che sono autentici, umani nella loro inafferrabile contraddittorietà e fallibilità. Curran non consola né condanna, semplicemente racconta. Racconta di un borgo che è sì bigotto e pettegolo, ma in fondo non senza qualche buona ragione per esserlo, di uomini ottusi e intransigenti e di altri divorati dal dubbio e da una parvenza di scrupolo morale, di tante singolarità che nella moltitudine diventano un unico, informe branco. Racconta di un Peter Grimes che non ci sta con la testa e che il conflitto con il villaggio spinge verso uno stato di alienazione prima fisica, infine mentale. Forse, in fin dei conti, il personaggio meno interessante tra quelli in scena risulta proprio il protagonista, che emerge come colpevole sin da subito: un colpevole più aggressivo che passivo, vittima dei suoi disturbi mentali e di un lato oscuro represso fino all'inevitabile deflagrazione. È un Peter la cui forza teatrale non è tanto in sé, quanto nella reazione che scatena in chi gli sta accanto, come in Ellen Orford, una meravigliosa Emma Bell dalla voce con qualche fissità in alto ma strepitosa musicista e attrice. Ellen è una maestrina accecata dall'egocentrismo "buonista", sì direbbe oggi, una di quelle che vogliono salvare il mondo ad ogni costo, un po' per autentico altruismo, un po' per la smania di sentirsi belle persone, ma che finiscono per fare più danni che bene. In tal senso è perfettamente sbalzato il raffronto con Captain Balstrod, un Mark S. Doss asciutto e ficcante tanto nel canto quanto nel gesto, che cerca di fare la cosa giusta senza crederci mai davvero del tutto, fino a crollare sotto al peso dei sensi di colpa

  In un piccolo mondo spaccato in due tra imputati e inquisitori, emerge il tenerissimo rapporto di solidarietà tra le "male-femmine" del borgo, le reiette, quelle che hanno preso la cattiva strada, o perché prostitute, come le ragazze della locanda, o perché si sono schierate dalla parte sbagliata, come Ellen appunto. Loro sono lo specchio di Peter, che è inequivocabilmente l'orco del villaggio, non se ne dubita nemmeno per un secondo. Curran ci porta a pensare che lo sia, ci fa entrare nella testa del “borgo”, scaraventandoci nel mezzo sin dal processo sommario del prologo, che va in scena con le luci in sala ancora accese. Quel bifolco iracondo dal fisico imponente e dai modi bruschi non ci piace, non possiamo essere certi che abbia ammazzato il mozzo ma in fondo ci viene facile crederlo. Ciò detto, Andrew Staples, che dà il suo corpaccione e voce al protagonista, è tutt'altro che monodimensionale o rozzo nel canto, che sviluppa invece con grande sensibilità musicale e un assortimento di colori da liederista all'inglese di razza.


  A voler trovare un difetto a uno spettacolo sontuoso, il borgo costruito da Gary McCann, che sposta l'azione intorno alla metà del secolo scorso, grossomodo vicino all’epoca di composizione, è fin troppo ordinato e pulito. Manca un po' del lerciume, della puzza di pesce e di salsedine che ci si aspetta di trovare in un posto del genere, povero e rurale. Il distacco tra il paria Grimes e il contorno piccolo borghese è metaforicamente affascinante, ma un po’ patinato. Inezie nel contesto di un impianto scenico che è sia cornice che quadro e che ha anche il grande pregio di muoversi senza un cigolio, rapido e cangiante come la tempesta che investe il villaggio. L'ambiente è via via delineato da una serie di pannelli sghembi, sospesi o scorrevoli, animati dalle ispiratissime luci di Fabio Barettin.



  La restante parte della compagnia mette insieme una sfilza di caratteristi che sono uno più bravo dell'altro. È ottima la Auntie di Sara Fulgoni e forse lo sono anche di più le due nipotine: Patricia Westley e Jessica Cale, abbigliate a mo’ di pin up anni ‘50, che, oltre a incarnare il desiderio erotico dei maschi del paesello, cantano magnificamente. È assai ben caratterizzato anche lo Swallow dal vocione torvo e dal fisico ingombrante di Sion Goronwy.

  Tra i due uomini di fede, il Robert Boles splendidamente cantato da Cameron Becker e il reverendo Horace Adams di Eamonn Mulhall, è più interessante il secondo, non per maggiori meriti artistici ma perché risulta meno squadrato e macchiettistico. Benissimo anche il Ned Keene di Alex Otterburn, che il pubblico ha salutato con sorprendente entusiasmo, e l’Hobson di Laurence Meikle.

  Il Coro, che è il fulcro dell'opera, trova nella formazione della Fenice diretta da Alfonso Caiani un'interprete di gran qualità, non solo per la compattezza del fronte vocale, ma anche per la duttilità nel tenere la scena, prestandosi a ogni richiesta di una regia molto accurata ed esigente.

  A tirare i fili del tutto c'è Juraj Valčuha, che firma una direzione in zona capolavoro. Trasparente, nitida, tesa anche nei passaggi più distesi, che non perdono mai forza né elettricità, possente eppure mai opaca o chiassosa. Merito del maestro, senz’altro, ma anche di un’Orchestra della Fenice in stato di grazia, che sa essere duttile e flessibile, ma anche scatenare i decibel senza mai perdere limpidezza e precisione.

Successo trionfale per tutta la compagnia, con Valčuha festeggiato da eroe della serata.