30 maggio 2014

Sabina Cvilak ed Emmanuel Villaume in concerto

Ultima data della stagione sinfonica del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, il concerto di Emmanuel Villaume alla guida dell'Orchestra Filarmonica Slovena rimediava alla defezione di un altro appuntamento, originariamente previsto per il mese di marzo. Non si pensi però a un ripiego, tutt'altro: il pubblico udinese ha avuto occasione di gustarsi un buon concerto con un programma affascinante, in larga parte dedicato a Richard Strauss, in occasione del centocinquantesimo anniversario dalla nascita, eseguito da un'orchestra di valore.

Apriva il concerto I'Idillio di Sigfrido di Richard Wagner, celebre composizione cameristica scritta per l'amata moglie Cosima. Emmanuel Villaume, aiutato da un'orchestra attenta e delicata, privilegiava la morbidezza e la trasparenza del suono, mettendo in secondo piano lo sviluppo organico del brano. Ne risultava un'eccellente esercizio di calligrafia che, complice la lentezza dei tempi e la timidezza delle dinamiche (tenute tra il piano e il mezzoforte), mancava di poesia e compiutezza.

Con l'ingresso del soprano Sabina Cvilak ed un consistente ampliamento dell'orchestra il testimone passava da Wagner ad un altro Richard, quello Strauss che, almeno in ambito operistico, ne è stato erede naturale. Tre i Lieder in programma: Allerseelen, Zueignung e Morgen.

Sabina Cvilak ha una bella voce di soprano lirico leggero piuttosto sorda nel registro grave ma con un medium brillante e sonoro. La sua prova, perfettamente sostenuta dall'orchestra di Villaume, capace di suonare tenue e rarefatta nonostante l'imponente organico, lasciava alterne sensazioni: piaceva la cura nello scavo della parola e la scelta di sfumare il canto in dinamiche soffuse così da ottenere un'atmosfera intima e raccolta, quasi rinunciando alla proiezione in maschera della voce; tuttavia alcuni limiti tecnici nella gestione del fiato rendevano le mezzevoci ingolate e la linea ingessata, soprattutto nelle frasi che si sviluppano su una tessitura più acuta.

La seconda parte di concerto proseguiva all'insegna di Richard Strauss con Tod und Verklärung e la scena finale dall'opera Daphne.

Nel poema sinfonico riemergevano pregi e difetti dell'orchestra già riscontrati nella prima frazione. Convincevano l'amalgama degli archi e la compattezza del suono mentre si avvertivano alcune imperfezioni tra i corni. Purtroppo è mancato di personalità il podio, incapace di andare oltre una sostanziale correttezza: Villaume risolveva la partitura con mestiere, differenziando adeguatamente i piani sonori e le voci strumentali ma senza osare più di tanto dal punto di vista ritmico ed espressivo. Si ascoltava così uno Strauss correttamente svolto ma metronomico e, in fin dei conti, routinario.

Il finale dalla Daphne, sempre affidato alla voce di Sabina Cvliak, consentiva al soprano di dare maggiore sfogo alla voce, abbandonando quel clima confidenziale che aveva caratterizzato i precedenti lieder. La Cvilak ne guadagnava in volume e proiezione della voce, pur mantenendo la stessa attenzione per il testo e per la dizione. I medesimi limiti nel sostegno del fiato inficiavano lievemente la linea e rendevano il fraseggio scolastico nelle frasi tecnicamente più impegnative.

Il pubblico ha comunque dimostrato di gradire, in particolar modo la prova del soprano, con lunghi e calorosi applausi. Ora l'appuntamento è per La Traviata che, il 6 giugno, chiuderà la stagione del teatro udinese.

25 maggio 2014

Al Verdi di Trieste ritorna Attila

Forse Attila non è un capolavoro né ha quel richiamo sul pubblico che servirebbe per riempire un teatro, almeno non un teatro relativamente defilato e che non può contare su un bacino d’utenza da grande metropoli. Ne consegue che la scelta del Verdi di Trieste, schiettamente improntata all’antico adagio “fare di necessità virtù”, oggi più attuale che mai, finisce per rivelarsi un buco nell’acqua, non tanto per l’esito artistico (complessivamente apprezzabile), quanto per la totale disattenzione di chi a teatro dovrebbe andarci.
Attila tornava, a meno di un anno di distanza, sullo stesso palco, con lo stesso allestimento, lo stesso direttore e qualche modifica nel cast, ragioni a quanto pare inadeguate alle esigenze del pubblico che, è noto, ha sempre ragione. Ha ragione anche quando applaude convintamente uno spettacolo buono, omogeneo e scorrevole, che avrebbe meritato qualche attenzione di più.



Circa la regia di Enrico Stinchelli confermiamo quanto scritto in occasione delle recite dello scorso giugno:

Il regista Enrico Stinchelli sceglieva di enfatizzare la componente epica della vicenda, puntando ad una teatralità dal sapore quasi cinematografico. Scelta indovinata e capace di mantenere la tensione sempre alta a dispetto della staticità intrinseca di taluni passaggi del lavoro verdiano (anzi, verrebbe da dire del melodramma italiano del primo ottocento); va reso merito al regista di avere saputo alternare alle grandiose scene di massa, restituite nella loro crudezza e violenza dove opportuno, il giusto approfondimento delle ragioni dei personaggi, soprattutto per quanto riguarda il protagonista. Piacevano le scene di grande effetto curate da Pier Paolo Bisleri, integrate dalle proiezioni di Alex Magri (talvolta ridondanti o discutibili) e dalle luci di Gérald Agius Orway.

Facendo i necessari distinguo, possiamo rilevare, nel complesso, una maggiore proprietà stilistica e tecnica dei solisti impiegati nella produzione rispetto a chi li aveva preceduti. Faceva parzialmente eccezione Enrico Iori, cantante di bella voce e presenza, corretto e sorvegliato ma in difetto – almeno in occasione della prima – di quell’autorevolezza scenica e vocale che si è abituati ad accostare all’eroe unno. Iori cantava con gusto, fraseggiava bene e dava il giusto peso alle parole, tuttavia la voce risultava non di rado in debito di volume o in difficoltà nel registro acuto.

Rispetto alla scorsa estate il soprano Anna Markarova, Odabella, palesava non poche difficoltà sia nell’intonazione che nell’articolazione delle frasi. Il soprano riscattava parzialmente una prova complessivamente deludente nella seconda parte della recita.

Molto positiva la prova del tenore Sergio Escobar nei panni di Foresto; il cantante si dimostrava in possesso di un materiale vocale di pregio, con notevole squillo e volume. Ci sono ancora alcune mende tecniche da perfezionare ma il talento non manca.
Devid Cecconi era un Ezio vocalmente robusto e sonoro, musicalmente rifinito, nonostante un timbro non brillantissimo. Buone le prove di Antonello Ceron (Uldino) e Gabriele Sagona (Leone).

Donato Renzetti dirigeva l’orchestra del Teatro Verdi con eleganza e buonsenso, assecondando il palco con rispetto ma senza quella veemenza che aveva caratterizzato le recite dello scorso anno, finendo per mancare, qua e là, di quella tensione bruciante che infiamma le partiture del primo Verdi. Coro e orchestra si dimostravano all’altezza della situazione. Repliche fino al 31 maggio.

Paolo Locatelli
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20 maggio 2014

Sergej Rachmaninov e Pëtr Il’ic Cajkovskij per la Cajkovskij Symphony Orchestra

Penultimo appuntamento di una stagione musicale di grande successo, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine arrivava la Cajkovskij Symphony Orchestra (in passato nota come Orchestra Sinfonica della Radio di Mosca) guidata dal suo storico direttore musicale Vladimir Fedoseyev con un programma interamente dedicato alla musica russa che prevedeva la seconda sinfonia di Rachmaninov e una Suite inedita dallo Schiaccianoci di Cajkovskij.

La Sinfonia n. 2 in mi minore op. 27 di Sergej Rachmaninov, con la sua scrittura sfacciatamente tonale, pare avere ben poco a che fare con la musica di inizio novecento, rifacendosi, senza soluzione di continuità, alla lezione di Cajkovskij e Rimskij-Korsakov.

Fedoseyev ne dava una lettura assolutamente personale, sofferta, discutibile e, forse, poeticamente incompiuta ma assolutamente coerente. Il maestro russo accentuava la dimensione tragica con intima partecipazione, assecondando ed esaltando il carattere malinconico dell'opera. Va da sé che, scegliendo una simile impostazione interpretativa, rimaneva il problema di come risolvere i passaggi più estroversi e vitalistici della sinfonia, in particolar modo l'allegro finale. Il fulcro della seconda, per Fedoseyev, è l'adagio: un adagio lacerante, intriso di dolente nostalgia, giocato su tinte autunnali e fraseggi delicati, con un uso elegante e discreto del rubato. Sul tappeto degli archi (davvero splendidi) risuonava senza sforzo il clarinetto e poi, via via, in un crescendo perfettamente calibrato, ogni voce si univa alle altre.

Nello scherzo non risultava completamente risolto il particolare strabismo della scrittura per cui, mentre il cantabile dei violini suonava ammantato di riflessi notturni ed avvolgenti, il tema dei corni (ispirato al Dies irae gregoriano) pareva caricato di una pesantezza forzata ed innaturale; il medesimo problema si avvertiva nel quarto movimento in cui il tema del Dies irae viene ripreso.

Tuttavia le perplessità circa la lettura di Fedoseyev non riguardano tanto la chiave interpretativa quanto piuttosto l'irresolutezza dell'arco evolutivo della sinfonia: nella lettura del direttore il climax ascendente di tensione si risolveva e stemperava con il terzo movimento per cui il finale risultava, se non slegato dal resto, forzatamente direzionato in senso drammatico e di conseguenza privato di quel carattere ottimistico e saltellante che pur ne sarebbe cifra distintiva, finendo per perdere qualcosa in termini di compiutezza.

Ciò detto l'orchestra suonava decisamente bene, con archi al di sopra di ogni lode e qualche sbavatura degli ottoni, dimostrando ottima coesione nel creare un suono denso ma rotondo, morbido e compatto.

Convinceva meno la seconda parte di concerto, dedicata ad una suite “apocrifa” dallo Schiaccianoci di Cajkovskij, curata da Vladimir Fedoseyev stesso. Sappiamo che l'originale suite, universalmente nota, fu licenziata da Cajkovskij ancor prima che l'intero balletto vedesse la luce, seguendo un criterio narrativo e poetico stringente e compiuto. Diversamente, la scelta dei brani apportata da Fedoseyev risultava disordinata e inintelligibile sia per quanto riguarda la coerenza con la trama del balletto (la distribuzione dei pezzi era completamente arbitraria) sia da un punto di vista meramente teatrale, mancando di quella tensione che dovrebbe fare di una suite un lavoro compatto anziché un insieme di brani slegati l'uno dall'altro. La suite creata da Fedoseyev raccoglie, secondo criteri di cui ci sfugge la logica, numeri distanti e scollegati del balletto, sovvertendone l'ordine cronologico e narrativo: si va dal celebre valzer dei fiori (n.13, nel balletto seguirebbe, nel secondo atto, i vari divertissement), posto in apertura, per finire con la scena di Clara e lo Schiaccianoci (che a rigore verrebbe molto prima, nel primo atto), passando attraverso la danza dei pastorelli, il trepak, il gran valzer finale (sistemato inspiegabilmente a metà suite), la danza araba e la danza del nonno.

Oltre alle ragioni editoriali, anche l'esecuzione musicale dello Schiaccianoci non brillava per originalità e spessore. Fedoseyev sceglieva tempi estenuanti, senza che alla lentezza corrispondesse un approfondimento del fraseggio o degli impasti orchestrali particolarmente curato. La rigidità del ritmo e una certa piattezza di dinamiche privavano la suite di quella delicatezza favolistica che caratterizza il balletto, puntando verso atmosfere molto più cupe e malinconiche che tuttavia non riuscivano a conquistare l'empatia dell'ascoltatore in ragione di una predominante pesantezza di fondo. L'orchestra suonava benissimo per quanto riguarda gli archi mentre legni ed ottoni si concedevano alcune sbavature; spiace ravvisare l'inadeguatezza dell'arpa, dal suono aspro e ritmicamente imprecisa.

A fine concerto buona accoglienza del pubblico udinese per i complessi e per il direttore che hanno salutato il pubblico con la danza spagnola dal lago dei cigni di Cajkovskij.