Yannick Nézet-Séguin appartiene a una specie di direttori rara, soprattutto in Europa, dove si tende a premiare un atteggiamento più intellettualoide e deferente alla musica. Lui viceversa ci si getta dentro senza filtri né meccanismi di difesa e senza nessuna smania di mettere in chiaro quanto è bravo, ma con una gioia totale e una passione impudica, talmente esplicita da arrivare dritta al bersaglio. È un "fare musica" che da queste parti potrebbe sembrare forse ingenuo, probabilmente esteriore, non fosse che il suo approccio epidermico alla pagina è tutto fuorché superficiale. Non lo è innanzitutto perché traspare la sincerità dell’afflato che lo trasporta, il suo entusiasmo schietto, ma anche per via della cura capillare del suono della sua Philadelphia Orchestra - un'orchestra spaziale - e della raffinatezza con cui pennella il suono, che non è mai inamidato nella scansione né, all’estremo opposto, mosso con elasticità troppo smaccata.
Sono grossomodo queste le impressioni che desta la Settima sinfonia di Dvořák proposta nel KKL di Lucerna, di fronte a un pubblico incredibilmente sparuto quanto estasiato. Quel che Nézet-Séguin fa con la pagina, almeno con questa pagina, ha dell'incredibile: la aggredisce, la azzanna e poi la culla con tenerezza, stiracchia le melodie con garbo e d’improvviso osa altresì slanci spudorati che riempiono la sala con tanto di quel suono che metà basterebbe, passa da pianissimi inconcepibili a esplosioni a pieno organico nel più classico “american style”, con ottoni imperiosi.
Il più incredibile dei pianissimi incredibili lo indovina il primo clarinetto in apertura del Primo Concerto per violino di Karol Szymanowski, nel momento in cui gli tocca di ribattere a quell’incantatrice che è Lisa Batiashvili. Batiashvili che ha un controllo assoluto della tastiera e del legato, oltre a un’omogeneità di colore - ambrato e vagamente acidulo - ad ogni altezza della tessitura, senza increspature né fratture. Anzi, mantiene una linea cantabile della melodia negli sbalzi di registro che ha del prodigioso.
È su per giù la stessa cosa il Poème per violino e orchestra di Chausson. Lei limpida, espressiva, non si mangia una nota, lui plasma l'orchestra per assecondarla al meglio, con il suo gesto quasi didascalico da quanto è eloquente. I due si conoscono, hanno suonato e inciso parecchio assieme e che tra di loro ci sia un'intesa speciale è evidente dall'esito del concerto. Lo conferma uno dei bis che chiudono la prima parte di serata, con Yannick Nézet-Séguin che accompagna la solista direttamente dal pianoforte. Quanto all’Orchestra di Philadelphia c’è poco da dire, è semplicemente perfetta. A qualsiasi formazione capita, durante un concerto, almeno un suono sporco, una piccola sbavatura. Non a loro. Ogni nota è come dev’essere, ogni minima modulazione di tempo è rispettata dall’intero organico come fosse un unico, gigantesco strumento. Certo, il suono magari non ha l’allure personale di certe orchestre europee, è scintillante e meno misterioso, ma non privo di espressività. Altri due bis a fine concerto, dopo Dvořák, rinfocolano un pubblico entusiasta che saluta trionfalmente tutti i protagonisti.
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