27 marzo 2013

The Rape of Lucretia al Teatro Verdi di Trieste

Il tema dell’antichità classica filtrata attraverso la sensibilità cristiana fa di The Rape of Lucretia il perfetto preambolo alla più celebre Clemenza di Tito che impegnerà il teatro Verdi tra poche settimane, non fosse altro per la maggiore fama dell’opera mozartiana rispetto al più elitario Britten. Spiace a dirsi ma a tutt’oggi, presso il pubblico italiano, il compositore inglese non gode della fama che meriterebbe, prova ne sia la scarsa affluenza di pubblico al teatro triestino per il primo stupro di Lucrezia della sua storia.

Opera da camera non tra le più facili, The Rape of Lucretia è uno dei vertici del teatro musicale del novecento. La musica di Britten è un gioiello di alchimie e colori, Roland Duncan riduce a misura di melodramma Le Viol de Lucrèce di Obey in un libretto denso di poesia e indagine filosofica, aspetti che tuttavia sembrano interessare marginalmente al regista e scenografo Nenad Glavan. Glavan sceglie di calcare la mano sul lato politico della vicenda, accentuando la dimensione militare e storica: il potere è il centro focale della tragedia, Lucretia un casus belli per la rivolta romana alla supremazia etrusca (quella da cui nascerà la Repubblica), le dinamiche di forza un discorso circolare, secondo una precisa idea di ciclicità della storia. Tutto ciò è rappresentato dall’impianto scenico, un anfiteatro semicircolare sviluppato attorno ad un vertice centrale ripreso in live streaming da una telecamera, simbolo appunto di quel potere che è il primum movens della vicenda. Per il resto la regia appariva eccessivamente statica e stereotipata, fatti salvi alcuni momenti coreografici (tra cui lo stupro che risultava di qualche effetto) alle volte fin troppo rumorosi per la levità musicale dell’opera.

Ryuichiro Sonoda guidava i dodici impeccabili professori d’orchestra che la partitura chiama in causa con ottima musicalità e varietà di colori, esaltando l’atmosfera rarefatta ed ipnotica della musica di Britten ma senza rinunciare ad approfondire la narrazione teatrale, sempre nel rispetto dell’equilibrio cameristico delle parti.

Lasciava alterne sensazioni Sara Galli, Lucretia impeccabile sulla scena ma in debito di volume, trovandosi a cantare una parte troppo grave per il proprio baricentro vocale. Ne risultava un canto affascinante nelle frasi più acute, arricchito con suggestive aperture e soluzioni cromatiche adatte all’opera novecentesca ma afono nel registro medio-basso. Positivo il coro maschile del tenore Alexander Kröner, cantante dotato di voce poco avvenente ma sonora e squillante, sicurissimo nel canto e nell’impervia articolazione sillabica che Britten richiede. Buona anche la prova di Katarzyna Medlarska, voce del coro femminile. Tarquinio era affidato al basso Carlo Agostini, autore di una prova incolore perché irrisolta, sia in ragione della vocalità opaca sia per la presenza scenica intimidita. Nuria Garcia Arrés era una Lucia di bel timbro mentre Dijana Hilje evidenziava, a discapito di un volume notevole, un vibrato largo poco piacevole. Marijo Krnic dava voce e corpo a un Collatino partecipe e ben centrato, corretto il Giuno di Gianpiero Ruggeri.

Calorosa l’accoglienza del non folto pubblico in sala con applausi convinti per tutti.

Paolo Locatelli
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24 marzo 2013

Esa-Pekka Salonen e la Philharmonia Orchestra al Giovanni da Udine

La Philharmonia Orchestra è quello straordinario strumento che Walter Legge creò, pescando tra i migliori maestri d’Europa, per essere compagine di massimo livello cui affidare le registrazioni Emi, e mise poi nelle mani di tale Herbert von Karajan. In oltre sessant’anni di storia si sono avvicendate alla guida dell’orchestra bacchette tra le più prestigiose del secolo scorso, da Klemperer a Sinopoli, passando per Maazel, Muti e von Dohnányi, fino all’attuale direttore principale Esa-Pekka Salonen.



Se scegliessimo di indicare i maggiori direttori d’orchestra contemporanei sulla dita d’una mano, Salonen vi troverebbe senz’altro posto, occupando con ogni probabilità una postazione tra le più alte del podio. Compositore, fine intellettuale e pensatore della musica, il maestro finlandese ha imposto il proprio nome sulle scene internazionali negli ultimi decenni, forte di una tecnica direttoriale impeccabile al servizio di un’idea moderna e rivoluzionaria dell’arte.

Domenica 18 marzo al Teatro Nuovo Giovanni da Udine Esa-Pekka Salonen guidava la Philharmonia Orchestra nel proprio repertorio d’elezione, sostanzialmente novecentesco, in un concerto che il pubblico presente custodirà gelosamente nella memoria.

Apriva il concerto Ravel con un Ma mère l’Oye di suggestiva morbidezza, giocato su un’infinita varietà di colori freddi da un’orchestra capace dei pianissimi più diafani come della più avvolgente brillantezza. Impressionava la Quarta Sinfonia di Lutoslawsky, prova di bravura tutta spigoli, calibrata al millimetro dal direttore seguito dalla Philharmonia, scattante e precisissima. Gli schizzi sinfonici di Le Mer, del marinaio Debussy, restituiscono i sapori del mare, ne richiamano il colore. Il nitore cristallino della Philharmonia, la mobilità agogica, esaltavano la vena impressionistica della musica, quel richiamo al mondo naturale vissuto attraverso il ricordo, cardine dell’universo espressivo del compositore francese.

A chiudere il programma La Valse di Ravel, forse il momento più impressionante dell’intero concerto, per l’elasticità, per la sottile e costante variabilità nella gestione del ritmo, per la tensione narrativa ed ovviamente la stupefacente precisione musicale. Una viennesità elegante, leggera senza essere frivola, vibrante. A termine concerto due bis da incorniciare: ancora Novecento con Berio (nella sua trascrizione delle Quattro versioni originali della Ritirata Notturna di Madrid di Boccherini) e Wagner, con un elettrizzante Preludio al terzo atto del Lohengrin, teso ed esplosivo, lontano anni luce dall’ipertrofia nibelungica di certa retorica mitteleuropea.

18 marzo 2013

Věk Makropulos al Teatro La Fenice di Venezia

Si potrebbe dire che Elina Makropulos sia il Don Giovanni del XX secolo. In fondo, benché distanti per sensibilità e linguaggio, si tratta di due figure tra le più affascinanti e inafferrabili dell’intero repertorio operistico. Banalmente basterebbe l’irresistibile fascino erotico ad accomunarli, tuttavia le analogie sono ben più profonde e riguardano la sfera psicologica e affettiva dei personaggi. L’esasperato razionalismo che diventa cinismo, l’apatia di “chi nulla sa gradir”, l’incapacità di trarre piacere dall’esistenza e dai rapporti, il bieco opportunismo, finanche la scelta di una morte evitabile accomunano tali figure in modo quasi inquietante.



Věk Makropulos, meglio noto presso il pubblico italiano come “L’Affare Makropulos”, capolavoro del compositore ceco Leos Janácek, arriva al Teatro La Fenice di Venezia in un allestimento firmato da Robert Carsen che si farà ricordare. L’Affare Makropulos è la storia di una donna condannata ad un’esistenza plurisecolare da un filtro di lunga vita: Elina Makropulos appunto, che trascorre 337 anni sulla Terra attraverso continui cambi di identità, amori e una carriera di somma cantante d’opera. L’eterna giovinezza le consente di raggiungere la perfezione assoluta nell’arte ma le toglie il piacere di vivere, rendendola refrattaria ad ogni tipo di sentimento, quasi il corpo fosse sopravvissuto tanto a lungo ad un’anima estinta.

Nello spettacolo veneziano Carsen sceglie di sviluppare ulteriormente un tema che pare essergli particolarmente caro: il rapporto tra finzione teatrale e realtà, già indagato in numerose occasioni, dal Don Giovanni scaligero alla Tosca di Zurigo, passando attraverso il Capriccio straussiano di Parigi o l’Ariadne auf Naxos. Il teatro diviene il luogo perfetto per accogliere una profuga dei secoli come Elina Makropulos, o per meglio dire Emilia Marty, anzi, l’unico luogo possibile. Le maschere teatrali che la diva porta sul palcoscenico diventano le maschere indossate dalla donna per camuffare se stessa agli occhi del mondo, gli abiti di scena le sue molteplici identità. Ultima tra le tante è la principessa di gelo Turandot, accomunata alla Marty da un percorso psicologico che si risolve nello scioglimento finale (pur con esiti diametralmente opposti), pensata registica ricca di fascino e suggestioni.

In un cast omogeneo e convincente si imponeva su tutti la protagonista, Ángeles Blancas Gulín, Emilia Marty di grande personalità ed ottimamente cantata. Dominatrice della scena, il soprano restituiva un’Elina glaciale ma in fondo ironica, capace di esplodere nel terz’atto la disperazione covata per secoli in un monologo di lacerante intensità. Piaceva il Prus dalla virilità rude di Martin Bárta, meno il Gregor di Ladislav Elgr, spesso vocalmente in difficoltà. Convincevano pienamente Enrico Casari (Janek), Enric Martínez-Castignani (Kolenaty), Leonardo Cortellazzi (Vítek) e la Krista di Judita Nagyovà. Ottimo il Conte Hauk-Šendorf caricaturale e grottesco di Andreas Jäggi.

Gabriele Ferro optava per una lettura scopertamente lirica in cui l’indagine sui nessi tra il lavoro del compositore ceco e la tradizione tardoromantica prevaleva sulla natura novecentesca del lavoro; il direttore accentuava la cantabilità delle linee melodiche limando ogni spigolo o scortesia della partitura. La scelta, per quanto discutibile, potrebbe avere le sue buone ragioni se l’obiettivo fosse perseguito con maggiore cura del suono e degli equilibri. La direzione è apparsa invece pesante e prevaricante sulle voci, piatta nelle dinamiche (è mancata ogni traccia di pianissimo) e nei colori.

Paolo Locatelli
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Daniel Harding e la SRSO al Teatro Comunale di Pordenone

Ci sono eventi che, seppure indirettamente, intervengono in profondità nella storia della musica; l’omicidio di Gustavo III, Re di Svezia, avvenuto nel 1792 durante una festa in maschera ne è un esempio lampante. Verdi ne trasse un gran partito (direbbe il Barone di Trombonok) col suo Gustavo III che la censura fece poi diventare Un Ballo In Maschera mentre gloria minore ebbe Joseph Martin Kraus, compositore tedesco del diciottesimo secolo che a quel ballo partecipò e che volle, con la sua Symphonie funébre, celebrare il ricordo del sovrano.

La stessa sinfonia funebre in do minore di Joseph Martin Kraus apriva il concerto di Daniel Harding alla guida della Swedish Radio Symphony Orchestra al Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, concerto di punta della stagione musicale del teatro.
Harding propone un Kraus delicato, crepuscolare, più malinconico che scopertamente tragico. Gli equilibri sono cameristici, il suono orchestrale di straordinaria morbidezza, quasi ovattato. Chi si attendesse tempi sostenuti e sonorità asciutte, caratteri distintivi del coevo Mozart di Harding, sarà rimasto sorpreso nel trovarsi di fronte ad una lettura intimistica e meditata, in cui si intravede un romanticismo presagito, se non nel turgore del suono, nel sentimento.



Se con Kraus, considerata l’importanza secondaria, non è difficile sorprendere, a ben altro tipo di confronti si presta il Mahler della Quinta sinfonia in do diesis minore, lavoro frequentato dalle più grandi personalità del podio, passate e contemporanee.
Il Mahler di Harding è irrequieto e mobilissimo, giocato sul contrasto tra l’apollinea perfezione del suono e la dionisiaca varietà agogica, in ciò assecondato da un’orchestra impeccabile per perfezione tecnica e pulizia. Il suono è luminoso, trasparente anche nei fortissimi, mai sfuocato negli impalpabili pianissimi. 

La Quinta esce dall’orchestra con fluidità e coerenza espositiva sorprendenti, in un febbrile crescendo di tensione che si stempera in un finale travolgente. La Marcia funebre è un dialogo più teso e meno drammatico rispetto a quanto si sia abituati ad ascoltare, in cui l’interazione tra le voci dell’orchestra e la gestione delle dinamiche sono il vero motore pulsante piuttosto che la peculiarità del colore; lo Scherzo è gestito tra pennellate impressionistiche e finezze contrappuntistiche sottolineate con garbo, senza scadere nel calligrafismo. Per il celebre Adagietto Harding sceglie un tempo sostenuto, puntando ad un’emotività epidermica piuttosto che al languore tristaniano di certa tradizione, così da risultare perfetto prologo ad un rondò esplosivo ed elastico nei tempi, ottimista nella sostanza.

A termine concerto direttore ed orchestra hanno regalavano ad un pubblico entusiasta un inatteso bis verdiano, il Preludio al primo atto del Ballo in Maschera, eseguito con l’eleganza e l’intensità cui solo una compagine sinfonica di primo livello guidata da un grande del podio può aspirare.

10 marzo 2013

Il Macbeth verdiano trionfa al Teatro Verdi di Trieste

Recensione – Macbeth è un’opera sfuggente in cui al tragico si mescolano il grottesco e il brutto, inteso come categoria estetica, nel creare un ritratto quasi ironico – o meglio una caricatura – delle miserie umane. Un’opera di eccessi ed estremi, travolgente nella musica e teatralmente indecifrabile in ragione dello sconfinato panorama di chiavi di lettura possibili, dei contorni sfumati che separano la sete di potere dal male fine a se stesso, il soprannaturale dal delirio psicotico. Lo sa bene il regista Henning Brockhaus, autore dello spettacolo in scena al Teatro Verdi di Trieste, con le scenografie di Josef Svoboda riprese da Benito Leonori.



Un Macbeth che si inserisce nella tradizione, privo di stravolgimenti ma ricco di idee. Le scene calano la vicenda in un contesto cupo e decadente, ricettacolo di un’umanità barbara, svilita e corrotta in cui la brama di potere è solo uno dei tanti aspetti di un male serpeggiante e irrazionale che travolge tutti inesorabilmente, dai coniugi Macbeth al giovane Fleanzio. Pochi elementi in scena, il sapiente uso di proiezioni e giochi di luce, restituiscono uno spettacolo suggestivo ed inquietante, giocato sui dettagli piuttosto che sull’effetto immediato, che non è comunque mancato dove necessario, come nella scena del brindisi con l’apparizione del fantasma di Banco. Meno avvincente è parsa la caratterizzazione psicologica di alcuni personaggi, soprattutto per Lady Macbeth, risolta, con la complicità del soprano, a senso unico.

Sul versante musicale lo spettacolo convinceva completamente. Merito soprattutto di Giampaolo Bisanti che, alla guida di un’ottima orchestra, offriva una lettura vibrante, ricca di senso della narrazione e curatissima nel suono. Il maestro sapeva unire al ritmo teatrale, sempre incalzante, la giusta tinta orchestrale nonché un’eccellente precisione musicale e compattezza.

Fabián Veloz era un buon Macbeth, forte di una vocalità preziosa per timbro e volume, ben modulata in un canto chiaroscurato e partecipe. Il baritono ha offerto un personaggio cesellato fin nel minimo particolare, scavato sia musicalmente che nella psicologia, un Macbeth pavido e debole, vittima della propria insicurezza ancor prima che della consorte. Consorte che aveva voce e sembianze del soprano greco Dimitra Theodossiou, cantante dotata di strumento ampio e sonoro, impiegato in un canto impeccabile e preciso, vario nei colori e misurato nel gusto (mentre a volte la recitazione è parsa eccessivamente caricata). 

Piaceva Paolo Battaglia, Banco intenso e partecipe ma non sempre irreprensibile nel canto. Sicuro e spavaldo Armaldo Kllogjeri, Macduff di bella voce e solida musicalità. Buona la prova di Giacomo Patti, Malcolm, positive tutte le parti minori con particolare menzione per la Dama di Sharon Pierfederici e il medico di Dario Giorgelè.

Va reso merito all’ottima prova del coro del teatro triestino, parte fondamentale nell’opera verdiana, protagonista di una prova maiuscola.

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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