7 novembre 2011

Lucia di Lammermoor in scena al Teatro Comunale di Pordenone

Riecco a quattro mesi di distanza la Lucia di Lammermoor che aveva chiuso la stagione del Verdi di Trieste riproposta dall’omonimo teatro pordenonese con cast quasi invariato e stesso direttore. Lo spettacolo che già aveva raccolto ampi consensi all’esordio triestino è stato salutato calorosamente dal pubblico del Comunale, che non ha lesinato applausi agli artisti impegnati nella produzione.

Lucia di Lammermoor è uno dei massimi vertici del romanticismo italiano, sempre che di romanticismo si possa parlare, ben sapendo che nel nostro paese il movimento non trovò suolo tra i più fertili, tant’è che il soggetto venne preso in prestito dal dramma The Bride of Lammermoor dello scozzese Walter Scott che Salvatore Cammarano ridusse a libretto per la musica di Gaetano Donizetti. 

Proprio nella Lucia il compositore bergamasco trova un'ispirazione che si materializza nella perfetta coerenza musicale come nella realizzazione di un particolare colore orchestrale straordinariamente confacente alle tinte cupe della trama. È proprio tale peculiarità compositiva a nobilitare un soggetto non tra i più originali in cui viene narrato l’amore irrealizzabile tra due giovani innamorati appartenenti a famiglie rivali.



Il bell'allestimento curato dal regista Giulio Ciabatti si serviva delle scene di Pier Paolo Bisleri nel creare un’atmosfera brumosa, spettrale, uno scenario desolato in cui si muovevano (non sempre agilmente) i protagonisti ed il coro. Molto efficace e pregnante l’impianto scenico che riusciva a rimandare attraverso la desolazione degli ambienti al tormento, alla malinconia e all’angoscia in cui versa la protagonista Lucia, condizione che non potrebbe che risolversi nell’ineluttabile follia. 
Sobria ed elegante la regia soprattutto per quanto riguarda i movimenti del coro, trasfigurato in un’entità immateriale, quasi una presenza, mentre meno curata è parsa la recitazione dei solisti che talora sembrava lasciata all’iniziativa personale piuttosto che seguire un disegno predefinito.

Sul versante musicale si imponeva Silvia Dalla Benetta che ha vestito ancora una volta i panni della sfortunata Lucia. Il soprano non ha voce tra le più belle ma sa compensare i propri limiti con un fraseggio sorvegliato, un sapiente dosaggio dei colori ed ottima musicalità. Risolta al meglio la pazzia, banco di prova per qualsiasi soprano che affronti il grande repertorio belcantistico, di cui la cantante, pur non possedendo la funambolica coloratura delle grandi, ha offerto un’eccellente realizzazione che gli è valsa un applauso prolungato.

Meno convincente l’Edgardo di Massimiliano Pisapia la cui voce suonava opaca e talora forzata nei centri salvo poi trovare sfogo in acuti voluminosi e squillanti. Poco vario il canto, costantemente tenuto tra il forte e il mezzoforte, come la recitazione risolta nella consueta rassegna di pose da tenore. Va dato atto al cantante di essere l’unico nuovo innesto nel cast rispetto alle recite triestine ed in tal senso può essere compresa la cautela con cui ha affrontato la parte.

Giorgio Caoduro offriva un’ottima lettura del monolitico Enrico, personaggio da cui è difficile cavare qualcosa che vada oltre la ruvida arroganza. Il baritono ha voce non grande ma di bel colore che sa ben piegarsi alle necessità del canto sempre risolto con eleganza e pregnanza stilistica. Convincente lo ieratico ed austero Raimondo di Giovanni Furlanetto, solido nel canto e misurato nella recitazione. 
Buone le parti di fianco.

Julian Kovatchev è musicista sensibile e maestro affermato tuttavia ancora una volta ha dimostrato di non trovare nel belcanto il proprio repertorio d’elezione. L’accompagnamento al canto risultava monotono, metronomico, il suono prevaricante su solisti e coro, i momenti di forte esplodevano nel più incontrollato fragore mentre nei passaggi più intimi sono mancati la trasparenza e l’abbandono che ci si aspetterebbe di ascoltare. In particolare il finale primo ed il sestetto, che sono pagine tra le più belle dell’intero repertorio, suonavano confuse e disordinate mancando quello slancio e quell’equilibrio tra le componenti che la musica donizettiana richiederebbe. Del tutto ingiustificata la scelta, che sarebbe stata obsoleta già negli anni settanta, di mutilare la partitura di ampie porzioni compreso il duetto tra Lucia e Raimondo del secondo atto e la celebre scena della torre in apertura di terzo atto. 
Ciononostante va segnalata la prova positiva di coro e orchestra del Teatro Verdi di Trieste che si confermano compagini di eccellete livello.

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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