16 settembre 2012

La Traviata e Rigoletto alla Fenice di Venezia

È tempo di Verdi al Teatro la Fenice con due pezzi di trilogia popolare che si sa, fanno sempre il loro bell’effetto. Niente di nuovo sotto il cielo di Venezia ma due riprese di spettacoli già visti e rivisti per chiudere la stagione in attesa che le porte del teatro si riaprano a novembre con la doppia inaugurazione targata Otello e Tristan, uno via l’altro.



La Traviata è quella ormai storica di Robert Carsen, lo spettacolo che nel 2004 tenne a battesimo il teatro rinato dalle proprie ceneri e che ancora trova spazio, a pieno diritto, in cartellone. Allestimento suggestivo, intenso, commovente. Carsen ha il grande merito di saper rendere in modo pienamente convincente il particolarissimo strabismo del personaggio che se da un lato cerca la redenzione da un passato compromettente nell’amore e nella fuga (senza riuscirci), dall’altro subisce il progressivo rigetto da parte di quella società borghese che pur è parte di lei, finendo per perdere l’una e l’altra cosa. 
C’è il denaro onnipresente a ricordarci continuamente quale sia la professione di Violetta, denaro che diventa l’unico strumento di comunicazione tra le persone, solo parametro di valutazione del valore di rapporti e relazioni.
L’ambientazione è contemporanea per parlare ai contemporanei, come Verdi avrebbe voluto – almeno questo è quanto sostiene il regista canadese. Il primo atto ha i tratti di un party dalla mondanità quasi hollywoodiana con la vacuità della borghesia in trionfo. Davvero di rado “il popoloso deserto che appellano Parigi” è parso tanto popoloso e tanto deserto assieme, fatuo ed effimero come i valori di quella stessa società. 
L’ambientazione della prima parte del secondo atto riproduce una foresta che non è difficile leggere come simbolo della purezza cui Violetta aspirerebbe. I soldi che piovono dal cielo, in luogo delle foglie secche, ci ricordano che l’agognata redenzione è destinata a restare soltanto una speranza. La festa successiva si sviluppa tra i tavoli di un nightclub in mezzo a giochi d’azzardo, prostitute e lap dance. 
Nel terzo atto si torna a casa di Violetta. Non c’è più lo sfarzo di un tempo, il salone è spoglio, la tappezzeria stracciata. La ricchezza volgarmente esibita, straripante del primo atto lascia posto ad una povertà decadente. Violetta muore sul pavimento tra le braccia di Alfredo mentre attorno il mondo continua ad andare avanti col suo ritmo forsennato. Annina scappa con la pelliccia della padrona e la casa viene invasa dagli operai al lavoro per il nuovo proprietario. Popoloso deserto appunto.

Patrizia Ciofi è ancora una volta Violetta in questo allestimento cucito su misura per lei. Dire che il soprano non sia vocalmente onnipotente è dovere di cronaca (il volume è modesto, il registro acuto faticoso), che tali limiti compromettano la riuscita complessiva del personaggio una falsità. La creazione teatrale che la Ciofi restituisce è poco meno che straordinaria. Il soprano sa cogliere ogni sfumatura di un personaggio che oramai conosce alla perfezione, il canto è – pur con i limiti evidenziati – cesellato nell’originalissima gestione della dinamica e nello scavo della frase musicale, il fraseggio approfondito con cura certosina. Non c’è verso o parola che siano sprecati, ogni dettaglio si somma al precedente nel dare vita a una Violetta di sconvolgente complessità e ricchezza. Il terzo atto è il capolavoro del soprano capace di rendere al meglio i repentini cambi d’umore, il passaggio dalla malinconia alla speranza, gli episodi quasi deliranti fino al rassegnato disincanto finale, in tutto perfettamente assecondata dall’atmosfera sospesa disegnata dall’orchestra di Matheuz.

Antonio Poli è Alfredo, e lo è per davvero. Un Alfredo finalmente giovane, appassionato, dall’intemperanza quasi adolescenziale. È un ragazzo che scopre l’amore con tutto l’entusiasmo di cui è capace, gettandosi a capofitto in una storia che inizia male e finisce peggio. Il tenore inoltre ha voce di rara bellezza e sa servirsene con abilità. Bravo due volte.

Giovanni Meoni nei panni di Giorgio Germont, il padre che nessuno vorrebbe avere, sfoggia voce bella e timbrata al servizio di una linea di canto elegante e variegata. Il baritono asseconda la lettura registica che mette a nudo la doppia morale del personaggio, vero e proprio emblema del moralismo borghese. Un Germont più cinico calcolatore che impiccione imbranato, di fatto privato d’ogni umanità.

Sul podio dell’ottima orchestra della Fenice, Diego Matheuz era attesissimo al doppio cimento operistico dopo la nomina a direttore musicale del teatro. Esame passato a pieni voti. Il maestro venezuelano sceglie di spogliare la musica di ogni traccia di retorica o compiacimento puntando ad una drammaticità asciutta, cruda. I tempi sono per lo più serrati, il ritmo incandescente, il suono orchestrale di nitore sinfonico. Memorabili nella resa sia il già citato terzo atto che la festa, condotta con furia dionisiaca sin dall’ingresso delle maschere salvo poi trovar pace in un concertato di evocativa leggerezza.

Ventiquattro ore e dagli abissi sull’anima spalancati da Carsen si passa al Rigoletto di Daniele Abbado. E tutto un sol giorno cangiare poté, direbbe il gobbo. Non c’è molto in questo Rigoletto, idee poche e confuse, noia tanta e coerente dall’inizio alla fine. Il protagonista è truccato come il Joker di Batman e Mantova ha i colori tetri di una Gotham City sonnolenta. La scenografia scarna, né bella né brutta, si serve del minimo indispensabile, perlopiù pareti grigie buone ad ogni occorrenza, gli artisti in scena sono mossi (poco in verità) senza troppa fantasia. L’impostazione dello spettacolo ha tutto il sapore della tradizione più stantia fintamente travestita “di moderno” con il risultato di non dire niente di interessante né in una direzione né in quell’altra.
Per fortuna l’opera è fatta anche di musica e pare che Matheuz, sempre lui, con l’orchestra ci sappia fare. Anche per Rigoletto il suono orchestrale è splendido, trasparente, gli attacchi puliti e cristallini. Pur non basta. La tensione teatrale è retta al meglio con ottimo senso del ritmo, il sostegno al canto esemplare. Basterebbe citare la maledizione di Monterone che poche volte è suonata tanto incisiva, con violoncelli e contrabbassi secchi e martellanti, l’ impalpabile accompagnamento al “Caro nome” o l’esplosiva tempesta col volume a palla eppur perfettamente calibrata negli equilibri strumentali.

Dimitri Platanias, Rigoletto, può vantare voce di buon volume e poco altro. Il canto è piatto e monocorde, non c’è traccia di approfondimento psicologico né musicale, l’intonazione è spesso imprecisa. In compenso ci sono tutti gli acutazzi di tradizione ivi compresi quelli che sarebbe il caso di lasciare al ricordo del passato.
Ottima viceversa la Gilda di Desirée Rancatore che trova nell’impervia scrittura verdiana terreno ideale per una vocalità che si esalta nel registro acuto, dominato con precisione inappuntabile. Dire che il soprano si limiti ad un’eccellente esecuzione musicale sarebbe ingiusto o quantomeno ingeneroso. Gilda è un personaggio che spesso viene ridotto ad una macchietta dall’ingenuità caricaturale, teatralmente inconsistente. La Rancatore riesce invece a farne un’adolescente volitiva, consapevole delle propria sensualità, risoluta e a rendere lo sviluppo psicologico che nell’arco dei tre atti la porta dall’estasi dell’innamoramento alla drammatica scelta del sacrificio.

Non convince del tutto il Duca di Celso Albelo, autore di una prova altalenante in cui si sono alternati momenti di alto livello, come l’aria del secondo atto, ad altri francamente poco esaltanti, anche in ragione di un canto meno sicuro di quanto ci abbia abituati ad ascoltare in passato. Il registro acuto è parso meno spavaldo ed insolente che in altre circostanze, troppo spesso risolto con suoni nasali e fastidiosi portamenti, l’interpretazione piuttosto generica.

Gianluca Buratto, Sparafucile, ha voce tonante, gestita in un canto dalla dinamica varia e scavo della parola inusuale per il personaggio mentre Anna Malavasi è una Maddalena di bella voce e presenza. Tutte all’altezza della situazione le parti minori sia per quanto riguarda La Traviata che Rigoletto. Ottima la prova del coro del teatro preparato da Claudio Marino Moretti, impeccabile per qualità e precisione.

Entrambi gli spettacoli saranno replicati a targhe alterne fino a fine mese. E comunque viva Verdi, sempre.

8 settembre 2012

Un Don Giovanni in Bianco e Nero conquista Udine

Serata d’opera al Teatro Giovanni da Udine con il Don Giovanni di Mozart proposto nell’ambito del Festival Bianco & Nero. Mozart ha quel insopprimibile viziaccio di convincere sempre e comunque, anche quando la drammaturgia dell’opera sia sacrificata da un allestimento in forma semi-scenica con conseguente rinuncia a buona parte della carica teatrale del lavoro.

L’orchestra trovava posto a centro palcoscenico, abbracciata da un impianto semplice e geometrico all’interno del quale si muovevano coro e solisti, spigliati e ben coordinati da un curato lavoro di regia. Sullo sfondo, unico elemento scenografico, un’alternanza di proiezioni accompagnava l’azione suggerendo allo spettatore un’ambientazione friulana della vicenda o proponendo puntuali richiami librettistici e precisazioni drammaturgiche talora ridondanti.

Gabriele Ribis, protagonista e curatore della messa in scena, sceglie di rinunciare all’ambiguità di Don Giovanni, che pure sarebbe la cifra distintiva del personaggio, facendone un’incarnazione del male assoluto. Quello di Ribis è un Giovanni luciferino, meschino, vile, rude. Non c’è nobiltà, non c’è il poetico disincanto dell’antieroe che sceglie di annientarsi nel proprio nichilismo. È un Don Giovanni a metà strada tra la lettura manichea (e tutto sommato moralista) di stampo romantico e l’originale dicitura di “dramma giocoso” che vuole accentuato il carattere farsesco e comico del personaggio. Un’impostazione radicale che strizza l’occhio al passato e che ha il pregio di trovare un’immediatezza ed una forza teatrale d’effetto soprattutto su chi con l’opera abbia minore confidenza ma che necessariamente rinuncia ad indagare più intriganti suggestioni. In una semplificazione del capolavoro mozartiano, Giovanni è spogliato di ogni traccia di eroismo, ridotto di fatto ad un arrogante e sgraziato signorotto di campagna che ricorda da vicino il barone Ochs auf Lerchenau e la sua triste fine altro non è che la giusta condanna per la sua dissolutezza. In linea con l’impostazione drammaturgica del personaggio Ribis non ricercava il preziosismo vocale, puntando piuttosto ad un canto violento, spavaldo, temerario.

Contraltare al licenzioso protagonista sono i nobili signori da lui ingannati, depositari del bene e della giusta morale in trionfo nel finale (che pure racchiuderebbe in sé una sottile ironia accusatoria nei confronti della “buona gente”, ingiustamente trascurata). Annamaria Dell’Oste offriva la propria esperienza in una Donna Anna convincente per canto ed approfondimento psicologico, curata nel fraseggio, precisissima nell’impegnativa aria del secondo atto. Domenico Balzani era un Leporello dotato di voce sonora ed ottima musicalità, Federico Lepre un Don Ottavio remissivo come da tradizione, garbato vocalmente e sicuro nell’ardua gestione del fiato nell’aria del primo atto (purtroppo l’aria “il mio tesoro intanto” è stata sacrificata in favore del meno interessante duetto Masetto-Zerlina “per queste tue manine”). Diana Mian è cantante dotata di bella voce e solida tecnica che ha ben figurato nei panni di Donna Elvira. A completamento del cast Michele Bianchini, tonitruante ed imponente Commendatore, la vispa Zerlina di Selma Pasternak e il Masetto di Filippo Fontana.

Il maestro Filippo Maria Bressan, alla guida della buona FVG Mitteleuropa Orchestra, offriva un Mozart di gusto moderno, asciutto e curato nel dettaglio senza scadere in effetti dozzinali o languori di facile presa. Buona la prova del Coro del FVG diretto da Cristiano dell’Oste.

A termine spettacolo applausi trionfali e prolungati per tutti.