30 novembre 2018

Macbeth inaugura la stagione del Teatro La Fenice

Non c'è dolore più grande della perdita di un figlio. Macbeth e sua moglie avevano una bambina da prima o seconda elementare, che è morta. Lui ha reagito chiudendosi in se stesso, lei con una rabbia che a buttarla fuori forse fa un po' meno male. Il problema è che una disgrazia del genere non si supera, non bastano i farmaci per mettere a tacere i fantasmi, anzi, il dolore si accumula giorno dopo giorno, frapponendo veli su veli tra la coppia e il mondo vero, sempre più distante e spettrale.

Foto Michele Crosera

E qui arriva il primo problema per Damiano Michieletto, regista del Macbeth che apre la stagione del Teatro La Fenice: quando si decide di ribaltare la drammaturgia di un'opera bisogna fare i conti con tutto quello che l'autore avrebbe previsto. Michieletto non si dimentica della trama, né la caccia sotto a un tappeto come si fa con la polvere, anzi, la porta avanti con coerenza quasi da tradizionalista, e l'effetto è straniante. Per i primi tre atti non si capisce da che parte guardi lo spettacolo e soprattutto dove voglia portare: sembra di assistere a due Macbeth cuciti insieme senza troppe ragioni per farlo, come in una sorta di macabra Arianna a Nasso. La drammaturgia si sdoppia in due rivoli che corrono separati, affiorando a fasi alterne o, di tanto in tanto, nello stesso momento, a cortocircuitare. Da una parte c'è la scalata al potere, un potere più astratto che immediatamente definibile, che pare avere qualcosa a che fare con l'affermazione di un ruolo nella società (c’è sì una corona che è un simbolone grande così, ma gli abiti di Carla Teti sono da 2018), dall'altra il dramma psicologico della coppia, che dalla stessa società va via via alienandosi. E chi è che inasprisce i tormenti di Macbeth e Signora, rigirando il coltello nella piaga? Ovviamente sono i bambini, quelli degli altri. I figli che loro non hanno più allargano il compasso che li separa dalla realtà, ogni pargoletto è un giro di vite. Questa frattura avviene a colpi di omicidi, che non paiono nemmeno tali, ma assomigliano piuttosto alla cancellazione, alla repulsione o alla dimenticanza. Il sangue dei morti è una crema che sa di bianchetto, i cadaveri vengono ingoiati da enormi teli di plastica (che sono, di fatto, il solo elemento costitutivo delle scene) quasi svanissero nella nebbia dell’oblio. La manomissione della drammaturgia non è che un pretesto per spostare la prospettiva sulla vicenda, che non è più esterna ma è quella dei due protagonisti. Quello che Michieletto vuole raccontare è il mondo visto con gli occhi dei Macbeth, che diventa sempre più indistinguibile, offuscato e infine delirante.

Foto Michele Crosera

I conti tornano proprio nell'ultimo atto, quando la frattura psicotica tra i coniugi e la realtà è ormai insanabile. Lei si perde in una foresta di altalene – Birnam, geniale! – lui trova la pace estrema per mano del solo che può capirlo, Macduff, quell’altro che ha subito un lutto paragonabile.

Al netto del lavoro sulla drammaturgia, che è incisivo e affascinante, ma che per convincere del tutto richiederebbe un briciolo di virtuosismo in più in certi passaggi non completamente risolti, resta il lavoro di regia vero e proprio, che Michieletto sa fare da padreterno. I solisti recitano tutti e tutti dal bene al benissimo, le masse sono manovrate plasticamente e sulla musica senza un’esitazione (anche per merito dei movimenti coreografici curati da Chiara Vecchi). Le luci di Fabio Barettin sono provvidenziali nel sostenere il racconto, esaltando l’azione e donando mutevolezza a un palco per lo più spoglio e gelido nelle tinte.

Paolo Fantin infatti, che ci ha abituati a scenografie colossali, in questo Macbeth sembra volersi defilare per lasciare il pallino del gioco tutto nelle mani del regista. Sul palco non c’è quasi niente: due pareti laterali di lampade al neon e una serie di sipari scorrevoli in plastica che dal fondo avanzano verso la platea. Nella seconda parte un sacco gigante di nylon bianco scende dal cielo e con esso qualche altalena, altro simbolo didascalico ma efficace. Ne nasce una sorta di limbo, un non luogo confuso tra realtà e allucinazioni, popolato da spettri del passato (le streghe e i figli morti), aloni del circostante e ricordi, tanti e dolorosi.

Foto Michele Crosera

Myung-Whun Chung è al suo debutto nel Macbeth e la cosa impressionante è che a tratti si ha la sensazione di ascoltare l'opera stessa per la prima volta. Mai gli anfratti sepolcrali della partitura, i gemiti, le ombre più inquietanti e i sussulti di terrore erano parsi tanto nitidi. Un Macbeth a tinte cupe se non cupissime, dalla drammaticità sconquassante, che sembra davvero inghiottire nelle fauci dell’inferno. L’orchestra bisbiglia malignamente – Duncano sarà qui? e sotto gli archi sogghignano – deflagra in esplosioni atomiche all'apparizione di Banco, sospira di muto dolore nel coro del quarto atto (un funerale di bambini) e regge sempre il canto, respirando con esso.
I professori della Fenice sono in forma strepitosa e danno il meglio di sé, soprattutto per qualità timbrica e plasticità delle dinamiche.

Foto Michele Crosera

Luca Salsi è il titolare più accreditato della parte di Macbeth dei giorni nostri. La voce è brunita e "grassa" e si apre in un ventaglio dinamico che va dal pianissimo più leggero e sostenuto al forte più tonante, i fiati sono da cronometro, il volume ragguardevole. L’interprete è poi estremamente rifinito nell’accento e nello scavo della parola scenica, anche a costo di spingersi a marcare con veemenza talune intenzioni. A voler spaccare il capello in quattro, c'è qualche slittamento dell'intonazione qua e là, soprattutto nel declamato più esposto, che non di rado riesce leggermente parlicchiato.

Molto bene Vittoria Yeo, che è subentrata alla prevista Tatiana Serjan appena prima dell'antegenerale. La voce è piccola, almeno lo è in rapporto alla tradizione esecutiva della parte, ma le note ci sono tutte e, soprattutto, c'è un personaggio completo. Il canto è pulito ed espressivo, le agilità sono buone, il timbro non particolarmente accattivante ma omogeneo e naturale (seppur la voce sia leggerina, la Yeo non la camuffa né gonfia). Bellissima sul palco nei suoi abiti da upper class, la Lady della Yeo è una giovane donna cui la vita ha scombinato i progetti, togliendole dalle mani tutto quello che avrebbe dato per scontato.

Simon Lim, Banco, è al solito affidabile per ampiezza e solidità del canto. È assai rodato il Macduff di Stefano Secco che, pur con qualche durezza e trucchetto – d’altronde l’aria arriva quasi a freddo – cesella e fraseggia con varietà e incisività la Paterna mano ed è sempre puntuale e convincente nei suoi interventi.

Completano onorevolmente il cast Marcello Nardis (Malcom), il sempre corretto Armando Gabba, più psichiatra che medico in senso classico, Antonio Casagrande ed Elisabetta Martorana (rispettivamente domestico e dama), Emanuele Pedrini (Sicario) e Umberto Imbrenda, Araldo.

Delle tre apparizioni dei Piccoli Cantori Veneziani preparati da Diana D’Alessio ed Elena Rossi, almeno due sono molto buone.

In forma mondiale il coro diretto da Claudio Marino Moretti.

Alla fine accoglienza calorosissima per il cast, trionfale per Chung e alterna per regista e soci, sonoramente fischiati e buati da una fetta difficilmente quantificabile, ma minoritaria, del pubblico.

Recensione pubblicata su OperaClick

Foto Michele Crosera

23 novembre 2018

Jukka-Pekka Saraste e Christopher Park in concerto al GdU

Quanti grandi, piccoli e medi direttori sono usciti dalle mani di Panula? Lo spettatore meno accorto non se lo aspetterebbe mai, ma la scuola finlandese ha sfornato una sfilza di maestri, autoctoni o in “vacanza studio”, da fare impallidire molti confronti. Jorma Panula è il condottiero di questo esercito, una figura leggendaria per ogni aspirante direttore d’orchestra. Ancora oggi i suoi corsi richiamano musicisti da tutto il mondo, attirati da quel taumaturgo che pare essere in grado di infondere la scienza della bacchetta a chiunque sia disposto ad apprendere. Da lì è saltato fuori un certo Esa-Pekka Salonen, che del Teatro Nuovo Giovanni da Udine ha inaugurato la stagione poche settimane fa, o Mikko Franck, Sakari Oramo (anch’egli transitato trionfalmente sullo stesso palco il maggio scorso) e molti altri.

Anche Jukka-Pekka Saraste è uscito dallo stesso pozzo, proprio negli stessi anni di Salonen, e anch’egli ha affrontato la prova del teatro udinese, che da diversi anni è solito ospitare artisti di assoluto prestigio. Il suo approccio alla materia chiarisce la discendenza soprattutto da un punto di vista: l’analiticità. A Saraste non sfugge niente, e lo si avverte chiaramente soprattutto nell’Eroica di Beethoven. Non è il genere di direttore che imprime una propria identità al fraseggio e al colore, o che abbia il tocco magico dello stregone – anzi, la sua orchestra, per quanto eccellente, tende al bianco e nero –, ma è finissimo concertatore e vivisettore. Non c’è tema o inciso che gli sfugga, gli equilibri sono sempre pesati al microgrammo, il senso dell’architettura beethoveniana e della plasmatica evoluzione del materiale musicale chiarissimo. Insomma Saraste mette in bella mostra il testo, con attenzione capillare alla dinamica e all’articolazione, mentre pare poco interessato a connotarlo di una cifra propria. Il che non è affatto un male, beninteso, anche perché l’obiettivo è centrato senza eccessi di pesantezza o rigidità.

Nel Concerto n.1 op. 15 in re minore per pianoforte e orchestra che apre la serata il carattere dell’orchestra non è diverso, né è diverso il suono. La WDR Sinfonieorchester Köln è ottima compagine, precisa e scattante, asciutta negli archi senza enfatizzare troppo la secchezza (nonostante l’uso centellinato del vibrato) e con un’eccellente schiera di legni. Scappa via qualcosa ai corni, come capita spesso, ma sono peccati veniali. L’affiatamento col maestro è poi assai rodato – Saraste la guida dal 2010, quando succedette a Semyon Bychkov – e lo dimostra la perfetta rispondenza tra gesto, in verità non bellissimo, e suono.

Christopher Park è pianista dal tocco leggero, più morbido che brillante, che “virtuoseggia” senza clamore né smania d’imporsi, ma con sentimento. Non affonda mai i tasti con arroganza, né nei pianissimi, che sono perlati ma senza compiacimento, né quando c’è da pestare sull’avorio. Se questo approccio intimista può mostrare un po’ la corda nei primi due movimenti, ove alla lunga si avverte la mancanza della ricerca di qualche colore o intenzione più audace, esce vincitore nell’Allegro molto, risolto con gaiezza quasi irridente.

Grande successo personale per Park, che si congeda con un bis chopiniano, e trionfo finale per l’orchestra che saluta con lo Scherzo della Sesta di Schubert


Recensione pubblicata su OperaClick.

18 novembre 2018

I puritani aprono la stagione del Verdi di Trieste

Nei Puritani che aprono la stagione del Verdi di Trieste c’è una piacevole sorpresa: si chiama Ruth Iniesta ed è una giovane cantante di belle speranze e solido presente, catapultata sul palco all’ultimo minuto per sostituire la titolare Elena Moşuc. Voce di lirico leggero omogenea e penetrante, non particolarmente pesante ma sempre alta e timbrata, e tecnica agguerrita che le consente di legare, smorzare, dipanare la coloratura e fraseggiare come si deve. Canta bene, anzi benissimo, la Iniesta, ma è anche artista e siccome gli artisti si pesano sul minuscolo dettaglio, ecco un esempio. C’è un passaggio, nel terzo atto, in cui Arturo cerca di giustificarsi per l’assenza: “fur tre mesi” dice, e lei risponde esausta “no, no, fur tre secoli”. Ebbene, quei due “no” apparentemente insignificanti la Iniesta li colora e dice ognuno con un’intenzione e una verità da grande. Piccolezze che pesano tantissimo.

Poi c’è anche tutto il resto: la pazzia è ottima, il finale primo le vale un applauso a scena aperta e anche in quel duettone infinito che è il terzo atto la Iniesta arriva in fondo fresca come una rosa. Difetti? A voler essere pignoli qualche sovracuto esce leggermente stiracchiato, ma attaccarsi a queste inezie è tara da disturbo melomaniacale di personalità. Segnatevi il nome perché ne sentiremo parlare.

Foto Fabio Parenzan

Insomma è andata bene, ma non solo per merito di Elvira. Il teatro triestino ha messo in piedi un’inaugurazione di stagione di tutto rispetto, rendendo giustizia a quella summa di belcanto smisurato che è l’estremo capolavoro belliniano. Perché c’è sì un’ottima protagonista femminile, ma anche la controparte tenorile se la cava ottimamente. Antonino Siragusa esce indenne dalla tessitura folle di Arturo, ed è già molto (senza tagli e con da capo vari il terzo atto è un gioco al massacro per la gola di qualsiasi tenore). Canta da grande professionista, le note ci sono tutte, la resistenza è stupefacente e anche il tono dell’espressione è sempre quello giusto.

Certo, l’impressione che si ha è che la parte non sia l’ideale per la voce di Siragusa, che rimane quella di un (eccellente) rossiniano. Non è questione di pruriti vociologici, ma innanzitutto una faccenda di sostanza. Il tenore romantico dell’opera italiana di primo Ottocento è una delle tante emanazioni dei rinnovamenti culturali e di costume che modificarono la società, portando, tra le altre cose, proprio a uno svincolamento dall’estetica di cui Rossini fu ultimo baluardo e allo sviluppo di una vocalità nuova. Certo è un processo complesso di cui oggi è difficile individuare nettamente i tratti caratterizzandolo con precisione assoluta, ma la scrittura stessa di Arturo suggerisce la necessità di un corpo vocale più sostanzioso, soprattutto nel medium, una tornitura che consenta di fraseggiare con maggiore varietà di accenti e colori.

Foto Fabio Parenzan

Il terzo asse portante dello spettacolo è Fabrizio Maria Carminati che sul podio del Verdi è di casa (ed è un bene che sia così!). Dalle alte sfere del loggione lamentano una certa timidezza di volumi e piattezza di dinamiche – scherzi dell’acustica dei teatri all’italiana –, limiti che dalla platea non si avvertono affatto, tutt’altro. Equilibri calibrati al grammo – e che belli i concertati! – tempi agili e incalzanti, controllo perfetto del palco e, last but not least, una compattezza della narrazione incrollabile che non teme la riapertura di tutti i tagli.
L’Orchestra del Verdi suona bene anche se non al meglio delle sue possibilità per qualità dell’amalgama, idem il coro preparato da Francesca Tosi che sbarella un po’ all’inizio ma va migliorando.

Restano le voci gravi. Mario Cassi (Riccardo) parte con qualche difficoltà nel recitativo di sortita e risolve l’aria seguente senza convincere troppo, ma poi cresce. Ha voce che va irrobustendosi con l’acuirsi della tessitura e trova sfogo in acuti bombastici, ma in basso difetta ancora di un po’ di corpo e rotondità, almeno per questo repertorio. Alexey Birkus è un Sir Giorgio dal canto educato e volume modesto, ma è anche interprete tutt’altro che compassato. Bravissima la Enrichetta di Nozomi Kato, all’altezza il Sir Bruno Roberton di Andrea Binetti così come è sempre affidabile Giuliano Pelizon che dà corpo e voce (parecchia) a Lord Gualtiero Valton.

Foto Fabio Parenzan

Anche Katia Ricciarelli e Davide Garattini Raimondi vincono la loro sfida. Per un regista I puritani sono un’insidiosissima polpetta avvelenata: tre ore di arie, duetti e cori in cui succede poco o niente e una drammaturgia che fa un passo indietro a vantaggio del canto in sé per sé. E certo la scelta (sacrosanta) di riaprire i tagli e riprendere da capo le cabalette non aiuta l’incedere teatrale. La Ricciarelli e Garattini puntano sulla tradizione, scelta che a Trieste è sempre vincente in partenza e che nel caso specifico lo è doppiamente perché in quest’opera qualsiasi tentativo di “manomissione” è sempre una scommessa ad altissimo rischio. Costumi (Giada Masi) e luoghi sono da libretto: la scena fissa di Paolo Vitale riproduce una fortezza diroccata o in via di costruzione, difficile dirlo, che tra impalcature, rampe e scale, accoglie l’intera vicenda; un cielo in proiezione chiude il fondale. Ne esce uno spettacolo visivamente piacevole, talvolta eccessivamente statico – d’accordo, in certi momenti è davvero difficile inventarsi qualcosa che catalizzi l’azione, ma un briciolo di dinamismo in più sarebbe auspicabile – e che racconta in modo chiaro la storia. Il pubblico gradisce, molto.

Successo pieno e caloroso.

Gioventù mia, tu sei morta

Io conobbi questa Bohème - e il signor Carlos Kleiber che sta sul podio - registrandola su un’audiocassetta dalla Filodiffusione. Si sentiva da cani ma prima che internet spopolasse bisognava ingegnarsi in qualche modo. Ci ho pensato qualche giorno fa mentre un elegante signore mi raccontava di quando Kleiber lo invitò a colazione. Tra le altre cose gli disse che il valzer di Musetta dovrebbe esprimere il rimpianto e la malinconia, e anche secondo me è così. Non è forse il finale di Secondo Quadro il momento più straziante dell’opera? È l’ultimo raggio di felicità abbagliante e di spensieratezza, l’estremo respiro di gioventù prima che la vita presenti il conto (Così presto? Chi l’ha richiesto?). Da quel momento inizia la vita vera, quella in cui si deve lavorare per mangiare, in cui ci si scopre mediocri, in cui ci si ammala e si muore. Ficcarlo in un tripudio di bambini e soldati festanti è cosa da puro genio, è una sorta di “sabato del villaggio” all’ennesima potenza.
Il sipario successivo si alza su lattivendole e spazzini che sfidano il gelo per due soldi, il grande pittore è finito a fare l’imbianchino e la cantante dà lezioni ai passeggeri, i due innamorati hanno litigato e lei sta crepando. La bella età di inganni e d’utopie se n’è andata per sempre.



14 novembre 2018

Anna Moffo per me

Anna Moffo. Oggi molti giovani la amano, io per primo. Non nel senso che io sia giovane, ma che me ne sono innamorato da ragazzino, al primo ascolto (Musetta), senza nemmeno sapere quanto fosse bella. Difficile dire qualcosa di una cantante mai incontrata dal vivo, ma ci provo. Non penso che la Moffo fosse un genio musicale o di introspezione, non so come suonasse la sua voce a teatro ma immagino che non avesse niente di trascendentale. Eppure.

Andrea Bomben mi faceva notare quanto sia “vera” la sua Butterfly in rapporto alle contemporanee, in particolare alla Scotto (la Callas lasciamola fuori, gioca in un campionato a parte) così sono andato a riascoltarmele. Beh, ha ragione. La Moffo è pulita, asciutta, è sincera di una genuinità adolescenziale. Non matroneggia e non sbrodola mai in “oversinging”, non camuffa la voce, non gonfia, non ricerca colori su colori per sottolineare questa o quella sillaba o per far vedere che "lei sì che sa cantare”. È così com’è. Qualche traccia di birignao e un po’ di polvere ci stanno, d’altronde sono passati 60 anni.
E pensare che la Moffo è sempre stata sminuita proprio per questo suo non avere niente di speciale. Ma non è vero che non avesse niente di speciale, non aveva niente di troppo. Tempo fa mi è capitato di pensare la stessa cosa ascoltando la sua Susanna con Giulini: in mezzo all'ampollosità di Taddei e ai ricami della Schwarzkopf, così adorabilmente fasulli, lei sembra cinquant’anni avanti. Mi immagino gli ormoni del povero Cherubino, di fronte a una bonazza del genere.

Nonostante tutto, è anche l’unica che si avvicina in qualche modo al mio ideale di una Carmen dalla sensualità inconsapevole e dal sorriso disarmante alla Julia Roberts. Peccato che sia arrivata tardi e in un contesto deprimente. Poi ci sarebbero un migliaio di però, sì vabbè, ma, anche se... Ma “L’amo, l’amo e non ragiono!”



9 novembre 2018

L’Histoire du Soldat tra Stravinskij e Pasolini

Alla fine si ha l’impressione che Pier Paolo Pasolini venga tirato per la giacchetta con la scusa – nobilissima, beninteso – di celebrarne il ricordo. Intendiamoci, il progetto che il Teatro Giuseppe Verdi di Pordenone porta avanti da almeno tre anni è sacrosanto e merita tutti gli applausi del mondo, però nel caso specifico l’esito è quantomeno alterno.

Ma andiamo per gradi. Nei primi anni settanta Pasolini pensò a una trasposizione cinematografica dell’Histoire du Soldat, favola che Stravinskij e Ramuz trassero da Afanasiev. La storia va in parallelo a quella dei tanti Faust o Tom Rakewell che vendono l’anima al diavolo e finiscono malissimo: il soldato, che nel caso specifico si chiama Giuseppe, baratta il suo violino con le arti magiche del demonio. Inutile dire che alla fine a guadagnarci è il secondo.

Quale occasione migliore del centenario dalla prima (1918) combinato con l’anniversario della scomparsa dell’intellettuale friulano per mettere in scena una versione del lavoro di Stravinskij ibridata con gli appunti di PPP? Il Verdi ci ha pensato e l’ha fatto, almeno sulla carta, con tutti i crismi del caso, producendo uno spettacolo nuovo di zecca.

Il progetto parte da lontano e contempla anche un libro di Roberto Calabretto, di fresco dato fuori (L’Histoire du soldat, Edizioni ETS, 2018). Qual è dunque il problema? Che alla prova dei fatti, cioè del palcoscenico, di Pasolini in questa riscrittura non resta molto. L’adattamento che Gianni Farina fa del testo, proprio alla luce degli appunti di cui sopra, è debole nell’incisività di versi e drammaturgia ma soprattutto dà l’impressione di essere distante dalla poetica del modello. Certo ci sono alcuni riferimenti ai luoghi, ai film, alla critica sociale, alla sua estetica, ma non basta. Come sempre, quando si parla di arte, c’è un fossato che separa la teoria dalla pratica da scavalcare.

Lo stesso Farina cura la regia. La trama procede attraverso la narrazione non efficacissima di Consuelo Battiston e una serie di videoproiezioni (di Davide Maldi e Micol Rubini) che guarda al cinema pasoliniano e a quello muto – il mio vicino di seduta ha generosamente pensato a Dreyer – senza replicarne la forza dirompente.

Tra gli attori convince più il demonio disturbante di Roberto Pagura, un diavolaccio brutto e sudicio che a un certo punto irrompe in platea, che il soldato di Giacomo Pontremoli che è introverso e anti(em)patico ai limiti dell’inettitudine probabilmente per scelta, ma che in quanto tale non muta di un millimetro in corso d’opera. Michela Facca dà corpo alla Principessa e lo fa con certa mestizia alienata, quella sì vagamente pasoliniana.

Nelle proiezioni si intravede un alone di neorealismo che tuttavia non è emancipato dal modello con personalità sufficiente da dargli una connotazione pienamente convincente per la sensibilità odierna, anzi, a tratti sembra quasi riprenderlo facendogli il verso.

Fatta la tara dei limiti, lo spettacolo ha dalla sua un buon ritmo, e la brevità in ciò lo aiuta, resta però la sensazione dell’occasione buttata.

Il senso di incompiutezza del versante prosaico è parzialmente compensato dalla buona esecuzione musicale. Fabio Sperandio adempie a quello che dev’essere il compito principale di un direttore in questi casi: racconta una storia e lo fa senza trascurare le ragioni della musica. Incalza, colora e tiene quel po’ di palco che c’è senza esitazioni. Insomma si apprezza una vera regia musicale che tappa le falle di quella teatrale.

I musicisti dell’Ensemble Zipangu lo seguono bene, con duttilità, qualità e limitando al minimo le sbavature.

Applausi convinti ma sbrigativi.

Salva me, fons pietatis

Verdi, come tutti i grandi, si lascia capire un po’ come siamo capaci di fare e ci concede di leggere dentro alla sua opera qualcosa di noi. La spiritualità laica del Requiem per me è questa cosa qua. Nella furia degli ottoni e del coro maschile che invoca martellando un “Rex tremendae maiestatis” più impaurito che terrificante, ecco la luce di un’arcata vocale che parte dal basso e passa al soprano, al mezzo e poi al tenore: “Salva me, fons pietatis”. Una speranza che pare sollevarsi dalla tenebra. Le voci cercano una quadra, si rincorrono e si frammentano finché non si ritrovano, tutte insieme, su un do. La pietas, che intendo nella sua accezione più immanente e terrena, è la salvezza. E per me la pietas è l’amore al massimo grado, poiché totalmente disinteressato: il rispetto per l’altro, la disponibilità a pensarsi al suo posto ed entrare nei suoi patimenti, ad accettarne la fallibilità. Un’utopia probabilmente. Per chi ci crede è qualcosa che ha a che fare con la religione, io, ateo, la chiamo umanità.


Ho appena finito di ascoltare questa incisione di Gardiner: una meraviglia di rispetto al dettato e, una volta tanto, ai metronomi segnati in partitura. Consigliatissima

6 novembre 2018

Buona la seconda per il Requiem di Chung, peccato che io sia andato alla prima

Anche se manca un matrimonio formale, La Fenice e Myung-Whun Chung sono una coppia di fatto. L'inaugurazione di stagione è sua sul doppio fronte operistico e sinfonico, poi Capodanno, un paio di concerti e altre due produzioni teatrali. Bene, benissimo, visto che la relazione pare funzionare alla grande da diversi anni a questa parte.

D’altronde le doti stregonesche di affabulatore del suono del maestro coreano sono note e riescono sempre a cavare dall'orchestra una qualità che trascende la mera contemplazione edonistica del bello. Partendo dalle premesse di cui sopra la Messa da Requiem di Verdi parrebbe un puntello ideale per cementare il sodalizio, soprattutto se ci si ricorda l'intensità spirituale del suo ultimo Stabat Mater rossiniano.

Tutto a posto dunque? No. Perché l’arte non è scienza e non è sufficiente replicare le condizioni di partenza di un esperimento per ottenere il medesimo risultato. In musica per trovare la quadratura del cerchio bisogna provare, provare e riprovare finché non è abbastanza e, alla fine di questo Requiem, l'impressione è che orchestra e direttore di tempo insieme ultimamente ne abbiano passato poco.

Perché c'è sì il Chung-touch, quello che fa bisbigliare i contrabbassi come fossero suonati dallo sbuffo di una finestra lasciata aperta, c'è compattezza, c’è una concertazione molto attenta agli equilibri, ma ci sono anche troppi pasticci di struttura e di precisione. Se i violoncelli sbrodolano l'attacco dell’Offertorium non è certo per un loro limite intrinseco ma perché evidentemente quel passaggio non è stato rodato come si sarebbe dovuto. Lo stesso discorso vale per l'intonazione ballerina di archi e ottoni in taluni segmenti o per le sbavature del flauto, per certo imbolsimento dell'amalgama e per altri sgarri disseminati qua e là.

Per carità, l'esito non è affatto disastroso, anzi, è complessivamente molto buono, ma proprio perché la distanza che separa la pregevole esecuzione da quella grandiosa è questione di dettagli, l'amarezza raddoppia. E pretendere il meglio da un direttore di tal pasta non è un eccesso di severità.

Per il resto fila tutto più o meno liscio. Chung conosce il Requiem a menadito e lo sa pennellare con morbidezza di colori e dinamiche, riesce ad allargare il respiro senza ammorbare o buttarla sul misticismo, infiamma la corda della drammaticità con strappi che fanno vibrare il pavimento della Fenice e, fatto per nulla banale, sostiene il canto andandogli incontro e cullandolo. Le prime battute ad esempio sono magiche, dilatate allo spasimo ma rette con una tensione che le rende tutt’altro che estenuate, e ci sono molti altri passaggi che tolgono il fiato (il fugato finale del coro, bellissimo!). Però nel complesso si percepisce un sentore di incompiutezza, di un cammino che si è fermato a pochi passi dal traguardo. Tutto rimane lì, avvolto in un velo di prudenza, come un giocattolo imballato nel pluriball per evitare che si rompa.

Chi invece centra il bersaglio è il Coro di Claudio Marino Moretti. Sussurra, strepita, tuona, ruggisce, alita e sa piegarsi ad ogni altra suggestione espressiva senza perdere smalto o brillantezza. Meraviglioso.

Serata complicata per Maria Agresta. Difficile dire se per stanchezza o forma precaria, fatto sta che la voce risponde poco soprattutto in alto, dove ogni pianissimo è una roulette ed esce spesso fisso e calante. Ci sarebbe un’attenzione all’espressione da artista di razza, ci sarebbe il giusto legato, ci sarebbero tantissime buone intenzioni che però rimangono nove volte su dieci incompiute.

Veronica Simeoni ha un’ottava acuta svettante e luminosa sorretta da un’emissione morbida il giusto. Anche se scendendo manca un po’ di corpo, il mezzosoprano ha l’intelligenza di non pompare mai i suoni o di intaccare la linea: canta con la vocalità che gli appartiene, facendo della levigatezza il proprio punto di forza.

Antonio Poli si danna l’anima per risultare vario e incisivo: sfuma alla mezzavoce, colora e sa anche imporsi quando serve. La voce però tende a restare un po’ “indietro”, il che le conferisce una velatura che sacrifica qualcosa in termini di brillantezza e squillo; certo rispetto ai tempi andati il volume si è espanso notevolmente, soprattutto in basso.

Ottima la prova di Alex Esposito. È vero, di natura non gli appartengono l'ampiezza e la ricchezza della polpa nei gravi, ma poco importa; appena la tessitura sale il suo canto si espande sempre morbido e timbrato e la parola è dominata in ogni sillaba senza leziosaggini o sottolineature eccessive.

Buon successo a fine concerto con picchi di entusiasmo per Chung.