27 ottobre 2020

Iván Fischer torna all’Olimpico per il Vicenza Opera Festival

Il primo concerto di Iván Fischer per il Vicenza Opera Festival 2020 è stato anche l’ultimo, forse dell’anno. Almeno con il pubblico in sala, perché il secondo appuntamento è andato comunque in streaming, magra consolazione, ma se non altro si cerca di lanciare un segnale fuori dalla bolla per ricordare che questo mondo, quello del teatro, della musica eccetera, esiste. C’è di buono che ai pochi presenti, rigorosamente distanziati, immascherinati e imbalsamati sulla seduta com’è giusto che sia (perché il teatro è un posto sicuro, giova ricordarlo), resterà il ricordo di una grande serata nelle settimane che verranno, quando di musica dal vivo non se ne farà più.


D’altronde Iván Fischer è uno dei massimi direttori viventi, è notizia di pochi giorni fa che la Concertgebouworkest l’abbia eletto suo direttore ospite onorario, un primo passo per riempire il trono ancora vacante dopo l’affaire Gatti. Quella che invece è proprio la “sua” di orchestra, la Budapest Festival Orchestra, di cui è fondatore e mentore da quasi quarant’anni, rimane una delle compagini più idiomatiche, oltre che tecnicamente portentose in circolazione.

Un’orchestra che conserva quella capacità sempre più rara di coniugare alla trasparenza, intesa come intelligibilità di ogni linea e perizia esecutiva del singolo, una pienezza d’impasto un po’ “alla russa”, fatta di archi caldi e fiati di puro velluto. Una qualità che impressiona forse ancor più che altrove nell’Haydn della Sinfonia 104 in Re maggiore, repertorio ormai divenuto terreno di conquista per filologi e barricaderi della prassi storicamente informata. Cosa degnissima e apprezzabile, sia chiaro, ma che ci ha progressivamente privati dell’opportunità – e diciamolo, anche del piacere – di ascoltare il repertorio classico fatto “alla vecchia”, con suononi belli grassi e colori caravaggeschi. Fischer invece quelle radici non le rinnega, anzi, le omaggia. Certo lo fa con un organico stringato – sette primi, sei secondi e così via – ma capace di produrre una pienezza di cavata e respiro impressionante. Non spinge nemmeno sull’acceleratore Fischer, anzi, se la prende tendenzialmente comoda, sapendo che il ritmo e la tensione sono ben più debitori all’articolazione che alla frenesia. E basta sentire come vivifica gli sforzando degli archi sul finire del quarto movimento, accompagnandoli con cenni danzanti, per rendersene conto. Quel che si ascolta è in sostanza un Haydn bello corpulento, a momenti quasi imponente, in cui tuttavia la mole del suono mai deprime leggerezza e mobilità.

Va da sé che tali peculiarità timbriche e scelte d’organico si sposino alla perfezione con la scrittura dell’Ariadne auf Naxos, purtroppo proposta solo in selezione, se così si può dire. Prima l’aria di lei (Es gibt ein Reich), poi il finalone. Lei è Camilla Nylund, voce luminosa e di ottima educazione, artista fine, che però, complice la strana acustica dell’Olimpico, fatica a svettare sull’orchestra. Lui invece, il Dioniso che fu Teseo, è Albert Joseph Glueckert, tenore dallo strumento non baciato dalla natura, un po’ legnoso e poco propenso a “girare”, ma solido negli infidi sbalzi della parte. 

Sono invece una più brava dell’altra le tre ninfe, che fanno ascoltare meraviglie nei passi corali e tappano i buchi laddove manca una Zerbinetta. Sono rispettivamente Olivia Vermeulen, Driade, Samantha Gaul, Naiade, e Mirella Hagen quale Eco.

Il miracolo però lo fa Fischer, che accompagna al calor bianco, con tutta la passione e la carica emozionale che questa musica miracolosa incoraggia. Quando sull’ultima nota del tenore l’orchestra esplode in fortissimo, trascinata dagli ottoni, in sala scatta qualcosa di catartico.

Successo travolgente a fine concerto, con il pubblico in piedi a ringraziare e salutare a tempo indefinito la musica dal vivo.

21 ottobre 2020

La prima di Beatrice Rana al Giovanni da Udine

Di questi tempi ogni alzata di sipario è una corsa a ostacoli. Senza considerare i casi più sfortunati in cui salta tutto, è sufficiente una piccola variazione delle norme di sicurezza, evenienza tutt’altro che infrequente, per scompaginare i programmi già ballerini di un teatro. È ciò che è successo al Giovanni da Udine, che a poche ore dall’apertura della stagione musicale ha dovuto sdoppiare il concerto dopo che le limitazioni si sono fatte più stringenti e dilazionare il pubblico tra la serata già in calendario e la mattina seguente. Fortunatamente Beatrice Rana non è tipo che si lascia intimorire e se c’è da replicare lo stesso programma a poche ore di distanza dice di sì. Programma ampio e impegnativo tra l’altro, un vero e proprio biglietto da visita per il nome più in vista della nuova generazione di pianisti italiani.

foto di Simon Fowler

Di fronte a Beatrice Rana ci si trova a conciliare due sensazioni apparentemente in contrasto: la prima, predominante, è che si ammiri una pianista completa, di quelle che padroneggiano la grammatica dello strumento in ogni cavillo al punto da poterla piegare a qualsiasi intenzione. Pianissimi di ogni gradazione, forti brillanti e grandi che scoccano come frustate, nuances, libertà agogiche sempre in pieno controllo e così via. C’è di contrasto l’indimostrabile impressione che abbia ampi margini per superare se stessa e che la sua perfezione, soppesata al microgrammo in ogni nota, aspetti di essere scardinata. Ad oggi Beatrice Rana è una meravigliosa pianista alla ricerca di una totale emancipazione dai vincoli che si è autoimposta. Non perché vi sia una qualche carenza oggettiva e quantificabile delle sue letture, tutt’altro, salvo forse – a sindacabilissimo gusto di chi scrive – la mancanza di un pizzico di audacia nello spezzare gli argini del “buongusto”, ma perché quel suo autocontrollo assoluto, rigidamente studiato nel minimo dettaglio, rischia di instradare delle qualità da fenomeno verso uno degli spauracchi più temibili per un artista: la non imprevedibilità. Minaccia insomma di precludere alla prima della classe lo scatto a fuoriclasse.

Certo è quasi paradossale fare le pulci all’artista e alla maestra Beatrice Rana, considerando che di mani così educate e onnipotenti ne girano poche. E anche di pensieri così compiuti: ascoltandola è chiaro che alla base del suo lavoro ci sia un’idea precisa dell’opera, di ogni singola opera, una visione organica che nasce da tanto studio e dalla voglia di fare le cose in coscienza e con puntiglio. Ma forse è proprio questo il freno. Sullo sfondo rimane la sensazione di un autocontrollo severissimo che limita fantasia e libertà, che è anche la libertà di prendersi dei rischi non calcolati e potenzialmente catastrofici, di provare a cedere qualche centimetro all’istinto.

Il suo Chopin dei quattro scherzi ad esempio è così perfetto e sorvegliato che sembra uscire direttamente dalla sala di registrazione, mentre c’è più colore nelle terzo libro di Ibéria, ove i continui cenni danzanti e pittoreschi emergono con tutta la leggerezza antiretorica che sa restituire loro solo il grande musicista, senza enfasi né distacco.

La valse è viceversa emblematico di quanto si diceva poc’anzi. Rana lo spiega benissimo: ogni dettaglio è al suo posto, ogni linea in vista, i detriti di valzer saltano fuori distintamente anche nel marasma più intricato, eppure manca quella leggerezza ariosa di chi scherza con la musica, buttandola fuori a folate inattese.

Successo molto caloroso a fine concerto.