27 novembre 2012

Ivor Bolton dà il la alla Stagione del Giovanni da Udine

Per uno strano gioco di nomi è l’Ouverture del Don Giovanni di Mozart ad aprire la stagione del Teatro Nuovo Giovanni da Udine. Mozarteumorchester sul palco, Ivor Bolton sul podio, teatro colmo o poco meno. 

Orchestra e direttore hanno la musica del genio salisburghese nel sangue e sanno suonarla con invidiabile disinvoltura e stile inappuntabile. Bolton opta per una lettura illuministica, dagli equilibri apollinei, in cui la dimensione melodrammatica del brano è deliberatamente accantonata in favore della leggerezza e della trasparenza di suono. L’ouverture mozartiana esce dalle mani del direttore come una splendida scultura canoviana in cui il marmo, pur lavorato nel sublime stile neoclassico, non riesce a scansare del tutto quel senso di rigidità e freddezza che ne sono cifra intrinseca. Non ci sono i colori tetri né la tragicità presagita nell’andante iniziale, non l’esuberante vortice dionisiaco dell’allegro ma un’eleganza sinfonica, più versata alla ricerca della qualità del suono che alla restituzione di un significato teatrale – che in simile contesto non avrebbe peraltro alcun senso ricercare.

Ancora Mozart con il concerto 23 per pianoforte e orchestra e sul palco del GdU sale il pianista Fazil Say, autore di una prova di grande spessore. Un Mozart estroverso e brillante quello del musicista turco. Non c’è quell’intimo raccoglimento a cui hanno abituato taluni grandi ma un’urgenza espressiva che si tramuta in immediatezza, freschezza d’animo. Il suono, di perlaceo splendore, si innalza spavaldo su quel cuscino di velluto che Bolton sa cavare dall’orchestra, il temperamento del pianista è convogliato in forza espressiva, mai in forzature o cadute di gusto. L’allegro è affrontato con esuberanza creando un piacevole effetto di contrasto sulle tinte pastello scelte da Bolton, l’adagio, teso ma raccolto, si stempera nella funambolica conclusione con un crescendo di tensione. Qualche minimo inciampo nell’allegro finale non rovina una prestazione maiuscola, applauditissima dal pubblico (a sua volta ricambiato con due preziosi bis).

Se già nella prima parte di concerto Bolton era piaciuto, con la terza di Brahms il direttore inglese conquista il pubblico. L’orchestra, rimpolpata nell’organico, trova una straordinaria compattezza di suono pur senza perdere di leggerezza e precisione. L’ispirazione compositiva del tedesco, che nella terza sinfonia raggiunge vertici assoluti sia nella costruzione e manipolazione della linea melodica ed armonica che nella caleidoscopica varietà di colori, è restituita dall’Orchestra Mozarteum fino all’ultima delle sfumature. Non è cosa di tutti i giorni un Brahms tanto sobrio nel gusto, liberato dalle incrostazioni post-romantiche di tradizione, eppure intenso, poetico ma garbato. Nella lettura di Bolton non c’è spazio per l’effetto facile né per ruffianerie di sorta, la musica è linguaggio comune, un discorso in divenire che il maestro sa rendere scorrevole forte di una sottile gestione del ritmo, evitando al pari dell’eccessiva rigidità l’utilizzo dozzinale del rubato che spesso affossa le esecuzioni della musica brahmsiana. Le sezioni orchestrali si inseguono ed abbracciano in un gioco ad incastro perfettamente calibrato in cui trovano posto le mille suggestioni della partitura con coerenza e straordinario senso di unità, senza cedimenti o cali di tensione.

Boreyko e Suwanai al Teatro Nuovo Giovanni da Udine

L’artista che devastato da una passione infernale cerca la morte nell’oppio trovandovi una realtà allucinata in cui l’amata diviene melodia e il mondo dapprima visione, figurazione, infine delirio. Cos’è la Symphonie fantastique se non uno straordinario collage di ritagli di vita intriso di romanticismo fino all’ultima delle note, un lavoro di splendida incoerenza concettuale travestita di finti significati – o meglio, di fantasia – appiccicati l’uno con l’altro a formare un capolavoro, né più né meno? Se non è un unicum nella storia della musica, senz’altro è una chiave di volta, un punto di ripartenza. In un groviglio confuso di idee e fantasie, episodi di esistenza e sogni, il compositore francese fonde vita vissuta ed immaginata, realtà ed ideali in un racconto musicale più onirico che autobiografico. Se l’amore per l’attrice Harriett Smithson e la forzata aderenza al “programma” di vita d’artista restano ad oggi un tentativo poeticamente forse non memorabile di dare al materiale un senso di unicità e coerenza (dai contenuti di stampo forzosamente romantico), la musica invece è rivoluzionaria nel vero senso della parola. Lo è nell’utilizzo dell’alchimia, degli impasti strumentali, del timbro orchestrale, nella concezione coreografica del suono. Né va negata la strabiliante adesione al dettato musicale dell’immagine evocata, secondo quel concetto di musica a programma che è cifra basilare del poema sinfonico che con Berlioz nasce e che dominerà l’ideale artistico di musicisti tra i più importanti della seconda metà del secolo e del primo novecento.

Sul palco del Teatro Nuovo Giovanni da Udine l’Orchestre National de Belgique guidata da Andrey Boreyko offriva una prova del capolavoro di Berlioz che chi abbia avuto fortuna di ascoltare, non dimenticherà facilmente. La formazione belga ha dimostrato di possedere lo spessore tecnico delle compagini sinfoniche di primo livello assecondando al meglio il disegno interpretativo, dal gusto più russo che francese, del direttore. Una sinfonia fantastica in cui Boreyko ha potuto dare sfogo a tutto il suo temperamento in una lettura vibrante, energica, emozionante. Un profluvio di sapori e colori, di alchimie, perfettamente restituite da un’orchestra impeccabile, densa e brillante, capace di sostenere al meglio i cinque tempi dell’opera sia nei passi più elegiaci (un valzer di beethoveniana poesia) che nei momenti apertamente infuocati (un Sabba teso e delirante di diabolica furia).

Non solo Berlioz al GdU, tutt’altro. La prima parte di concerto ha visto la talentuosa Akiko Suwanai e il suo Stradivari impegnati nel concerto per violino e orchestra op.77 di Brahms. Virtuosismo ed ottimo gusto al servizio della musica del compositore tedesco, protagonista dei primi impegni stagionali del teatro udinese. Esecuzione di gran classe ed eleganza quella della violinista giapponese, tecnicamente ineccepibile e molto curata nel suono (aiutata dall’ampia cavata e dalla pienezza di suono dello strumento) pur senza pagare dazio all’espressività, anzi, cogliendo appieno il gusto romantico del concerto. Chi invece ha convinto meno in Brahms è stato il direttore che è parso ingessato, forse imbrigliato dall’obbligato rapporto con la solista, che non è riuscito a trovare quella coerenza di intenzioni e quella spontaneità che hanno caratterizzato il suo Berlioz. Se è vero che l’orchestra è suonata diafana e morbida nei passi più soffusi, Boreyko non è riuscito ad evitare un certo senso di pesantezza e rigidità, quasi metronomica, nei momenti di forte orchestrale, soprattutto nella prima parte di concerto.

Vivica Genaux al Teatro Nuovo Giovanni da Udine

Vivica Genaux è raffinata, elegante, bella di una bellezza affatto appariscente così come la sua voce. Stella internazionale della musica barocca si presenta al Giovanni da Udine con un programma novecentesco, di quelli da tenere il pubblico mille miglia lontano. Invece il pubblico c’era ed ha applaudito entusiasta un’artista e un repertorio che in Italia non hanno la risonanza che meriterebbero di avere. Philipp von Steinaecker sul podio della buona FVG Mitteleuropa Orchestra, compagine affidabile anche nelle insidiose pagine da XX secolo, accompagnava con garbo e buon senso la cantante, vera trionfatrice della serata.

Le variazioni su un tema di Frank Bridge op.10 e le variazioni e fuga su un tema di Purcell op. 34 di Benjamin Britten scorrono via lisce, senza infamia e senza lode, suonate con precisione e correttezza da un’orchestra che non può certo definirsi specialista del repertorio (e quale orchestra lo sarebbe?) ma che pure convince. Mancano quella disinvoltura e quella brillantezza di suono che porterebbero al salto di qualità ma, anche per merito di una direzione attenta e sensibile, la prova non dispiace.

Quando entra lei, Vivica Genaux, la musica cambia; non cambia il compositore invece, non subito, con le Folk Songs di Britten, forse la parte meno esaltante del suo concerto. Con le Siete canciones populares españolas di Manuel de Falla e le Folk Songs di Luciano Berio soprattutto, la Genaux raggiunge vertici di intensità interpretativa rari. L’artista francese sceglie una linea essenziale, composta, lavora di sottrazione. La sua voce è nuda, scoperta, rinuncia alla proiezione strumentale di memoria belcantistica in favore di un’intimità quasi confidenziale. Sembra parlare ad ogni singolo ascoltatore quella voce, come se ci fossero solo loro due, lei e lui. Mille colori ed inflessioni in un canto aperto il giusto, dal retrogusto jazzistico (quasi crossover verrebbe da dire, se l’appellativo non suonasse offensivo), novecentesco in sostanza, perfetto per la scrittura di Berio. Sono le sue Folk Songs la parte migliore della serata, ricordi da affidare a una memoria gelosa, momenti di tale intensità da commuovere il più arido dei cuori. La Genaux è un’artista che respira la contemporaneità e sa restituirla come pochi altri, non c’è retorica nel suo canto né compiacimento, non c’è voglia di impressionare, nessun esibizionismo. C’è tanta verità invece, c’è la ricerca del sapore più adatto per ogni parola, per ogni frase musicale e c’è la personalità della grande cantante. Fortunato chi c’era.

Otello e Tristan und Isolde al Teatro La Fenice

Il Teatro La Fenice fa le cose in grande, con una doppia inaugurazione affidata al maestro Chung. I titoli prescelti sono l'Otello verdiano e Tristan und Isolde di Wagner. Di seguito riporto le recensioni dei due spettacoli pubblicate su IlDiscorso.



Recensione – Otello è il precipizio di un uomo saldo e forte corrotto nell’intimo dall’ingiuria più atroce di tutte, il sospetto dell’ingiuria stessa. Una storia di drammi potenziali, evocati, vagamente immaginati ma irreali, di situazioni nascoste dalle lenzuola di un letto che prendono via via corpo e sostanza, trascinando nel baratro il Moro e con lui tutti gli altri.

Si direbbe che non sia la gelosia la protagonista invisibile di questo Otello quanto piuttosto l’invidia, abominevole estrinsecazione di un animo sordido, l’animo di Jago. Jago come simbolo del male assoluto dunque, alfiere di una perfidia incomprensibile, folle e gratuita, che possiamo intuire ma non capire benché palesata appieno nel Credo, massima presa di distanza dall’originale shakespeariano.

Ci sono le stelle ad avvolgere e guidare la storia di Otello, un cielo che osserva da lontano le miserie umane, cornice inconsapevole e lontana, astri ed oroscopi – sovente chiamati in causa nel libretto di Boito – che sono parte fondamentale della scenografia di questo spettacolo d’inizio stagione al teatro veneziano, degna commemorazione del duecentesimo anniversario del massimo operista (e forse massimo uomo di teatro) della storia italiana. La scena si serve di pannelli raffiguranti costellazioni e di un cubo centrale che diviene fulcro e cuore cangiante della vicenda. Un Otello dal gusto tradizionale in fin dei conti, piacevole all’occhio tra stucchi dorati, processioni ed esotismi raffinati ma debole in alcune soluzioni che talvolta sanno di déjà vu o che, seppur indovinate, non riescono a realizzarsi in unitarietà e coerenza (i fantasmi che tormentano Otello, le barche-reliquie agitate dai ciprioti in trionfo durante l’uragano e verso gli abissi del mare nel concertato finale del terzo atto, a rappresentare il naufragio definitivo del condottiero roso dall’ingiuria che diviene sempre più tangibile, l’ascesa di Otello e Desdemona nel finale quarto verso quella Pleiade ardente che nel primo atto contemplavano innamorati). Va in ogni caso reso il merito al regista Francesco Micheli di aver lavorato con perizia su masse e solisti rendendo lo spettacolo teso e scorrevole.

Gregory Kunde è l’Otello che aspettavamo da anni. Non c’è traccia dell’impostura tradizionale che vorrebbe il Moro affidato a vocalità drammatiche dal colore baritonale ma una voce schiettamente contraltina in zona acuta che pure suona ampia anche nelle parti più basse del pentagramma (com’è lecito pensare risultasse il primo interprete Tamagno). La parte risolta nel canto anche dove sarebbe comodo scivolare in un declamato affatto consono al dettato verdiano. Ci sono tutte le sfumature e gli alleggerimenti che piace – e che è pure tanto raro – ascoltare in Otello al pari delle esplosioni violente che dal tono autoritario del primo atto passano via via all’indomabile furia del secondo, fino all’ira cieca del terzo. I momenti di raccoglimento (Dio, mi potevi scagliar o l’impervio finale quarto) così come il duettone del primo atto sono risolti in un canto a fior di labbra morbido e sfumato di commovente intensità.

Leah Crocetto è una Desdemona che guarda Otello dritto negli occhi, per nulla remissiva. Le manca la disinvoltura dell’interprete esperta, soprattutto sul versante musicale troppo ingessato al solfeggio, la voce è tuttavia bella e sonora nei centri e corre come meglio non potrebbe in ogni angolo della sala mentre soffre un po’ il registro grave. L’attrice è impacciata e talora cede alla tentazione di concedersi a pose da divastra.

Lucio Gallo sembra cercare per Jago una vocalità che non gli appartiene scurendo la voce che rimane inevitabilmente bloccata in gola. L’intonazione è spesso imprecisa, soprattutto nel brindisi, mentre sa regalare momenti indovinati (un sogno tutto a fior di labbro, forse in odore di falsetto ma particolarmente suggestivo). Fallisce nei numerosi passaggi di canto di conversazione dove fatica a trovare la giusta misura, scivolando spesso nel parlato o caricando eccessivamente l’accento. Compensa un canto non sempre pregevole con discreta presenza scenica. Buona la prova di Francesco Marsiglia, Cassio squillante e partecipe, di Elisabetta Martorana, Emilia di bella voce, all’altezza tutti gli altri.



Sul podio di un’ottima orchestra della Fenice, il maestro Myung-Whun Chung fa dell’opera verdiana un dramma infuocato, una corsa inarrestabile verso la tragedia. Forte di una sottile gestione dell’agogica e di un lavoro millimetrico sul ritmo come sugli impasti orchestrali, il direttore coreano scansa sistematicamente ogni sorta di sentimentalismo, puntando dritto verso una teatralità immediata, epidermica. Otello esce dalle mani di Chung come narrazione emotiva, l’orchestra è la vera protagonista, la voce del non detto, del pensiero o del sottinteso. Se è vero che si è sentita la mancanza di un abbandono maggiore nei momenti squisitamente lirici dell’opera (il duetto d’amore su tutti), perfetti sono parsi il mobilissimo uragano iniziale, l’accompagnamento ditirambico al brindisi, il concertato del terzo atto, abilmente equilibrato nei volumi e gestito in un crescendo emotivo travolgente. Eccellente la prova del coro della Fenice preparato da Claudio Marino Moretti.


Recensione – Pare che Wagner intendesse, con Tristan und Isolde, erigere un monumento a quell’amore totalizzante di cui mai aveva avuto esperienza e che pure viveva in lui come il più bello dei sogni. Un amore giusto – o forse sbagliato – a tal punto da annientare ogni cosa eccetto se stesso, amore che chiede eternità, quella della notte e della morte, che vede nella luce esecrata del giorno l’ordine etico e morale degli uomini, troppo piccolo e povero per comprendere la dimensione di un sentimento tanto grande. E forse tutto sommato aveva ragione Nietzsche quando scrisse che se è vero che ogni gioia vuole eternità, in fondo l’epilogo del Tristano non è poi tanto tragico.



L’amore tra Tristano e Isotta c’è da sempre, dal primo incontro, il filtro d’amore probabilmente neppure esiste, esso è – nel malinteso che si tratti di un veleno mortale – il nullaosta alla definitiva esplosione della passione. Loro, due anime sole che si riconoscono l’una nell’altra, che unite sono tutto e sole meno di niente, il resto del mondo diventa indifferente, potrebbe non esistere che sarebbe lo stesso.

Paul Curran sceglie di spogliare la scena d’ogni eccesso lasciando sul palco i personaggi e poco più, il delicato gioco di luci sulle scenografie grigiastre disegna un’atmosfera delicata e poetica. Il buon lavoro sui solisti rende la regia – benché statica – efficace soprattutto quando i cantanti siano capaci di reggere la tensione teatrale che una simile impostazione richiede. Il primo atto è un gioco di distanze ed incomunicabilità che diventano via via sempre più sottili fino al contatto fisico, erotico, il secondo un dolce abbandono alla tenerezza – piuttosto che all’eros – tra i due amanti protetti dalla notte. Il terzo si giova di uno straordinario protagonista capace di catalizzare l’attenzione su di sé, forte di una consapevolezza interpretativa da artista di razza. Un Tristan lacerato dal peso dell’assenza, tenacemente aggrappato alla spalla di Kurwenal in un delirio di solitudine reso in un canto scavato fino all’ultima delle sillabe.

Il maestro Myung-Whun Chung dà del capolavoro wagneriano una lettura vibrante, mobilissima, lontana mille miglia dai misticismi e dai languori di certa tradizione ma versata piuttosto ad un’analisi vivisettoria della partitura, restituita da un’orchestra al di sopra di ogni lode. La musica è narrazione intima, abbandono all’emozione (talora incontrollato, soprattutto nei volumi), quella della passione travolgente ed irrefrenabile degli amanti che sa trovare ripieghi di sofferta intensità, senza inciampare in cali di tensione. L’orchestra del teatro veneziano suona con precisione e pienezza, di un colore cupo, riflesso di quella notte che nel dramma wagneriano ha i colori della verità.

Brigitte Pinter è per voce e personalità impari alla parte. Lo strumento ha poco di bello ed è impiegato con alterne fortune in un canto faticoso ed opaco, l’intonazione spesso perfettibile, il peso vocale insufficiente a vincere l’orchestra laddove la voce di un’Isolde dovrebbe tuonare con lei. Il primo atto è discreto, il secondo risolto non senza fatica, il terzo problematico, concluso con un Mild und leise pieno di buone intenzioni e poco altro.

Ottima viceversa la prova di Ian Storey nei panni di Tristan. Dopo un inizio cauto il tenore solleva la testa appropriandosi della parte in ogni sua sfumatura. Canto e recitazione si fondono nel ricamare un Tristano intenso, persino commovente nell’atto terzo. La gestione sensibile e curatissima del canto, il fraseggio cesellato e la partecipazione emotiva compensano abbondantemente ciò che talora manca in termini di volume.



Eccellente la Brangäne di Tuija Knihtilä, mezzosoprano dalla voce preziosa per colore e pienezza di suono. Non convince invece il Kurwenal di Richard Paul Fink i cui buoni propositi non possono che rimanere tali in ragione di un’emissione eterodossa che esita in un canto fibroso e impreciso. Positiva la prova del basso Attila Jun, Re Marke possente ma mai stentoreo, sofferto senza essere lambiccato, pienamente convincente nello scomodo monologo del secondo atto. All’altezza della situazione il Melot di Marcello Nardis, il pastore di Mirko Guadagnini, il pilota di Armando Gabba, sorprendente il giovane marinaio di Gian Luca Pasolini.

Paolo Locatelli
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