26 novembre 2015

Idomeneo apre la stagione del Teatro La Fenice di Venezia

Fossi un regista avrei i sudori freddi all’idea di affrontare un’opera settecentesca, soprattutto un capolavoro serio e di grande respiro come l’Idomeneo di Mozart. Non perché si tratti di una creazione di scarsa attrattiva o dalla drammaturgia inconsistente, tutt’altro. Piuttosto per la difficoltà tecnica che la costruzione a numeri chiusi necessariamente procura e per la struttura formale della musica, assai più rigida e vincolante di quanto non sarà in seguito, il tutto costretto nei vincoli e negli stereotipi dell’opera seria. Difficile insomma creare un’azione fluida e dinamica su questa continua alternanza di recitativi, arie e cori, difficile definire dei caratteri e dar loro plasticità, difficilissimo disegnare la recitazione sulla musica.



Per l’inaugurazione della stagione 2015-16 il Teatro la Fenice di Venezia ha puntato su Alessandro Talevi il quale, spiace ravvisarlo, manca clamorosamente il bersaglio, inciampando appunto in quell’insidiosa staticità che in questo repertorio è tranello micidiale.
Il regista, tentando di veicolare un messaggio universale, privo di riferimenti specifici e immediatamente definibili, finisce per non dire nulla. Ogni spunto è appena accennato, le idee si rincorrono senza continuità e sviluppo diventando in un attimo velleità stagnanti. Anche laddove sia chiaro un disegno preciso tutto pare stucchevole e saputo: l’evoluzione dei personaggi ad esempio è assolutamente convenzionale, a tratti banale, sia nei singoli, la cui recitazione ricalca tutti gli stereotipi del teatro più polveroso, sia nelle masse. Lo scontro di civiltà è trattato con ingenuità disarmante, inscatolato in un manicheismo che si risolve in buonismo: da un lato i Cretesi, cattivi, oppressori (e vagamente ariani), dall’altro i Troiani, alfieri di un innocenza incontaminata, che vengono dapprima brutalizzati e infine felicemente integrati tra balli e abbracci.
Non mancano nemmeno momenti di involontaria comicità: di fronte alla pastasciuttata del finale primo e all’ineffabile siparietto che accompagna la marcia del secondo atto (No.14) si fatica a rimanere seri.
Le scene di Justin Arienti non dispiacciono ma, nella loro impostazione tradizionale, poco giovano alla dinamicità del tutto. Manuel Pedretti firma i brutti costumi.

La povertà dell’allestimento lascia l’amaro in bocca considerando che l’esecuzione musicale si attesta su ben più confortanti livelli. Il merito va principalmente a Jeffrey Tate il quale firma una direzione di straordinaria bellezza che coniuga al massimo livello le ragioni della musica con quelle del teatro. Esecuzione vibrante e dettagliatissima ma soprattutto coerente che mai, nonostante la durata dell’opera e la riapertura di tutti i tagli, si concede cali di tensione o cedimenti. L’orchestra, in splendida forma, suona con ammirevole ricchezza di colori e trasparenza, rendendo piena giustizia a Mozart e al palcoscenico.

Straordinario il coro del teatro preparato da Claudio Marino Moretti (e meravigliosamente sostenuto da Tate) che raggiunge vertici di assoluta poesia.



Brenden Gunnell, Idomeneo, ha vocalità e tecnica più versate ad altro repertorio, lo si percepisce chiaramente nella coloratura pasticciata e nella linea non immacolata. Tuttavia la particolare emissione, che privilegia sonorità chiare e scoperte, dona grande espressività al canto, massimamente nei recitativi. Le arie hanno forse un piglio eccessivamente muscolare, scelta che comunque non stride con la caratterizzazione del personaggio.

Monica Bacelli canta con classe la parte di Idamante: fraseggio, musicalità, varietà di colori ed accenti, tutto contribuisce a delineare una figura coerente e palpitante.
È invece impari alla scrittura mozartiana l’organizzazione vocale di Michaela Kaune, Elettra a cui difettano acuti, agilità e stile. La bella presenza e una notevole personalità compensano in parte un canto non all’altezza della situazione.
Ekaterina Sadovnikova, Ilia, mostra qua e là qualche segno di fatica ma nel complesso la sua prova convince, soprattutto per la sobrietà del fraseggio ed il gusto. Il timbro è poi molto bello e adatto alla parte. Eccellente l’ Arbace di Anicio Zorzi Giustiniani: voce di bel colore, emissione morbida, agilità dipanate con facilità quasi irridente. Una prova davvero maiuscola.
Buono il Gran Sacerdote di Nettuno di Krystian Adam; corretti tutti gli altri ad eccezione della Voce (malferma) dell’oracolo di Michael Leibundgut.

15 novembre 2015

Don Giovanni apre la stagione del Verdi di Trieste

Ha senso al giorno d'oggi allestire un Don Giovanni che rinunci, più o meno consapevolmente, ad ogni conquista recente di approfondimento drammaturgico? Evidentemente la risposta è sì, considerata l'accoglienza trionfale che si è guadagnata la nuova produzione del capolavoro mozartiano in scena al Teatro Verdi di Trieste, titolo inaugurale della stagione 2015-16.


Ciò detto, va tristemente ravvisato che lo spettacolo, pensato da Allex Aguilera, di pensato pare avere ben poco. Non dispiacciono le scene tradizionali firmate da Philippine Ordinaire, un impianto fisso che riproduce il cortile interno di un palazzo e che accoglie praticamente l'intera vicenda, così come belli sono i costumi di William Orlandi. Manca purtroppo tutto il resto, a partire dal lavoro sulla recitazione di solisti e coro come pare evidente l'assenza di un disegno esegetico chiaro. I caratteri sono appena abbozzati e comunque assai convenzionali, molto è lasciato all'iniziativa dei singoli; le arie vengono risolte con il cantante fermo in proscenio, i duetti con le solite mossette che sarebbero parse polverose già negli anni Settanta, il dialogo tra palcoscenico e musica è, sul piano attoriale, praticamente nullo. Il risultato è uno spettacolo estremamente statico ed innocuo in cui il libretto è svolto in modo quasi pedissequo ma che poco racconta del lavoro mozartiano, fermandosi al livello di lettura più semplice e superficiale.

Fortunatamente l'esecuzione musicale si attesta su ben altri livelli. Il Mozart del Maestro Gianluigi Gelmetti ha poco a che fare con quello che, in gran parte del mondo, è moneta corrente e si riallaccia ad una tradizione ormai minoritaria, caratterizzata dall'utilizzo di un'ampia orchestra che esprime sonorità imponenti e felpate. Insomma un Don Giovanni inteso come prologo dell'estetica romantica piuttosto che come pura espressione del classicismo. Non è il Mozart contemporaneo ma è assai ben suonato e, in fin dei conti, non privo di fascino anche perché, accettati i presupposti di partenza, Gelmetti dimostra una volta di più di conoscere il mestiere: il palco è sostenuto alla perfezione, le dinamiche sono varie e meditate come ricca è la tavolozza timbrica. I tempi rapidi poi aiutano alla scorrevolezza della narrazione. Lo asseconda alla perfezione l'orchestra del Teatro Verdi di Trieste che si dimostra ancora una volta compagine di grande affidabilità e qualità.

Nicola Ulivieri veste i panni del protagonista con gran disinvoltura: l'ottima tecnica ed il bel timbro vocale sono al servizio di un eccellente artista che sa fraseggiare, accentare e che domina la scena aggiungendo molto di proprio allo spettacolo.
Non meno convincente l'istrionico Leporello di Carlo Lepore che, pur costretto dalla regia a calcare la mano sul grottesco, si conferma basso dalla solida vocalità e dalle eccellenti risorse comunicative. Non di meno il canto è impeccabile.
Raquel Lojendio, Donna Anna, è cantante dai mezzi importanti: la voce suona omogenea e di buon volume, il temperamento è notevole come notevole è la musicalità; alcuni acuti forzati e le agilità non impeccabili della seconda aria sono peccati veniali nel contesto di una prova convincente.
Molto brava Raffaella Lupinacci che porta sulla scena una Donna Elvira cui non mancano né il carisma né le qualità vocali. La voce è di timbro affascinante, omogenea e timbrata nel registro medio e acuto mentre qualche opacità inficia i gravi.
Luis Gomes canta assai bene la parte di Don Ottavio, nonostante il timbro non sia di quelli indimenticabili. Se molto buona è stata l'esecuzione dell'aria del primo atto (Dalla sua pace), eccellente ci è parsa la resa de Il mio tesoro intanto.
Diletta Rizzo Marin disegna una Zerlina dalla voce corposa e di carattere nonostante l'intonazione non sia sempre impeccabile. Positiva la prova di Gianpiero Ruggeri, Masetto. Solido e ieratico il Commendatore di Andrea Comelli.

Bene si comporta il coro preparato da Alberto Macrì.

A fine recita il pubblico ha salutato con entusiasmo l'intera compagnia, qualche isolata e timida contestazione per il regista.



Cast alternativo:

Il Don Giovanni che ha aperto la stagione del Verdi di Trieste è stato accolto con un entusiasmo quasi sorprendente per un teatro che pareva ormai avviato verso una progressiva ed inesorabile disaffezione da parte del pubblico. Il cambio di sovrintendenza sembra aver portato un clima nuovo, già avvertibile sin dal battage pubblicitario che ha preceduto l'esordio dello spettacolo e culminato in un vero e proprio assalto al botteghino da parte del pubblico. Dalla prima, recensita su queste pagine, fino all'ultima replica cui si fa riferimento in questo articolo, il capolavoro di Mozart ha registrato un'affluenza altissima, con più di un “tutto esaurito”. Lo spettacolo è piaciuto insomma ma soprattutto ha fatto molto parlare e discutere, massima ambizione per una produzione teatrale.

Il merito del successo va innanzitutto ad una compagnia di canto affidabile ed omogenea, ben coordinata dal Maestro Gianluigi Gelmetti sulla cui direzione valgono le considerazioni fatte in occasione della prima: un Mozart inattuale ma assai ben suonato e indubbiamente pensato. Si avverte chiaramente un disegno musicale preciso nella calibratura dei colori, dei tempi adottati e nelle dinamiche come è evidente una cura certosina per la qualità del suono. Certo non è una direzione di grande slancio o fantasia e qualche contrasto maggiormente marcato o guizzo d'imprevedibilità in più non sarebbe dispiaciuto. L'orchestra del Verdi suona ancora una volta senza sbavature e con notevolissima precisione.

Il cast alternativo è dominato dalla personalità di Mattia Olivieri che tratteggia un protagonista molto convincente per adesione al personaggio, spontaneità e presenza scenica. Il giovane bass-baritone ha poi un grande talento: sa costruire la recitazione sulla musica, di cui sfrutta accenti e suggestioni creando una figura che, pur convenzionale nella caratterizzazione, domina il palco catalizzando l'attenzione su di sé. Il canto è ben risolto grazie alla solida tecnica ed all'ampiezza della vocalità; con l'esperienza e la maturazione dello strumento arriveranno un più ferrato controllo dell'intonazione, non sempre impeccabile, e una maggiore attenzione per i colori e l'accentazione nei recitativi.

Molto buona anche la prova di Fabrizio Beggi, Leporello dalla voce di bel timbro e dal volume imponente che fraseggia con gusto e calca il palcoscenico con disinvoltura.
Brava la Donna Anna di Marie Fajtová; il soprano, a dispetto di qualche pasticcio di dizione e di una voce intrinsecamente poco attraente, dimostra di avere un controllo dell'emissione ed una fluidità nelle agilità fuori dal comune.
Il Don Ottavio di Marco Ciaponi è risolto con correttezza: la voce è di bel timbro, il canto morbido ed omogeneo.
Non convince Anush Hovhannisyan, Donna Elvira che avrebbe la personalità richiesta dalla parte ma che palesa più di un impaccio nel sostegno del fiato e nel registro acuto.
Positive le prove di Enrico Marrucci (Masetto) e di Ilaria Zanetti (Zerlina): entrambi non hanno voci di particolare attrattiva ma si sforzano di dare senso a quanto vanno cantando grazie ad un apprezzabile lavoro sulla parola, sui colori e ad una recitazione vivace. Ancora una volta pienamente convincente Andrea Comelli nei panni del Commendatore.
Impeccabili gli interventi del coro preparato da Alberto Macrì.

Il rodaggio giova allo spettacolo firmato da Allex Aguilera che, rispetto alla serata inaugurale, risulta meno ingessato e statico. Rimane purtroppo la desolante povertà di idee della regia e la non entusiasmante realizzazione dei pochi spunti presenti. La scena del banchetto finale, anche ad una seconda visione, risulta di raggelante bruttezza.
Trionfo entusiastico per tutti con ovazioni da stadio per Olivieri, Beggi e Fajtová.

Charles Dutoit dirige i Wiener Symphoniker

Anche il pubblico del Teatrone, come gli udinesi chiamano affettuosamente il Giovanni da Udine, deve di tanto in tanto accontentarsi dell'ordinario, in luogo dello straordinario che da quelle parti è l'abitudine. Il concerto dei Wiener Symphoniker diretti da Charles Dutoit non è di quelli che lasciano il segno ma piuttosto un esercizio di buona routine, con qualche idea originale annacquata da una genericità di fondo.

L'impressione che rimane a fine serata è che ci sia un certo grado di incomunicabilità tra podio e orchestra, o meglio non si riesce e comprendere se siano i sinfonici inadatti a dare concretezza alle intenzioni del maestro o quest'ultimo incapace di sfruttare a pieno il potenziale dei musicisti. Probabilmente la verità sta nel mezzo. Si direbbe che Dutoit abbia un'idea ben precisa in merito all'interpretazione musicale: un approccio più analitico che istintivo, mirato ad un'analisi strutturale della partitura. Nel momento in cui si trova di fronte un'orchestra che non ha i mezzi per realizzare alla perfezione queste intenzioni, per limiti nella trasparenza delle sonorità e nell'esattezza ritmica dell'esecuzione, si finisce per avvertire un senso di incompiutezza del tutto. In sostanza la non eccezionale qualità timbrica espressa dai viennesi non viene riscattata da una lettura che vada oltre l'esposizione dell'architettura dei lavori in programma. Gli spunti a ben guardare non mancano e, a tratti, sono ben realizzati: il dosaggio delle dinamiche è ammirevole e regala qualche pianissimo suggestivo, certi dettagli di fraseggio o impasti lasciano intravedere la zampata del grande artista. Rimane tuttavia una povertà di colori di fondo che finisce per omogenizzare ogni brano in un unico linguaggio espressivo.

I pezzi da Romeo e Giulietta di Sergej Prokof’ev che aprono il concerto, assemblati pescando nella prima e nella seconda suite op. 64, sono il momento più debole della serata: alla mancanza di nerbo della direzione, tendenzialmente lenta e metronomica, si somma un suono orchestrale grigiastro e pesante che sovente costringe legni ed ottoni a forzare per emergere. Alcune imperfezioni negli attacchi e qualche sbavatura dell'intonazione, soprattutto tra i violini, non migliorano il quadro.

Decisamente meglio la seconda parte. Il Prélude à l'après-midi d'un faune di Debussy è ordinario nell'impostazione, poco elastico ma assai ben eseguito. Dutoit ottiene sonorità leggere e vaporose ma non inconsistenti, stacca un tempo lento che sa reggere con classe e lascia una notevole libertà di fraseggio ai solisti. L'equilibrio tra la trasparenza dell'ordito orchestrale e la rotondità dei suoni è sapientemente mantenuto, lo sviluppo del brano fluido e senza cedimenti.

Onesta routine anche per i Quadri di un'esposizione di Modest Musorgskij in cui si apprezzano la varietà di dinamiche è la bella compattezza di suono ma che soffrono la scarsa fantasia del podio nelle indicazioni agogiche e nella tavolozza timbrica; dalla straordinaria orchestrazione di Ravel si potrebbe cavare qualche colore di più. Pulita ma monocorde l'esecuzione dell'orchestra, non completamente immune da inesattezze nella scansione ritmica degli ottoni.

A dispetto di ogni riserva si dà conto della trionfale accoglienza del pubblico.

2 novembre 2015

...tra la Carne e il Cielo

Il quarantennale dalla scomparsa di Pier Paolo Pasolini qui nel pordenonese, terra che accolse parte dell'infanzia e della giovinezza dell'intellettuale e cui rimase legato fino alla fine, ha scatenato le fantasie più brillanti come le più perverse con esiti che spaziano, talvolta senza soluzione di continuità, dal sublime al grottesco. Si è visto e ascoltato un po' di tutto insomma, dagli ossequi veneranti fino alle elucubrazioni di chi riterrebbe auspicabile sfruttare il “brand Pasolini” per rilanciare il territorio, in un tripudio di eventi, incontri e celebrazioni che non di rado hanno assunto i tratti dell'auto-celebrazione.


Tanta retorica dunque, ma anche molte iniziative interessanti tra cui rientra senz'altro l'intuizione dei vertici del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone di commissionare una composizione originale al musicista Azio Corghi (presente in sala) ispirata ai lavori di Johann Sebastian Bach, padre della musica occidentale amatissimo da Pasolini.

Il risultato è “… tra la Carne e il Cielo”, opera per violoncello concertante, voce recitante maschile, soprano, pianoforte e orchestra, basata su testi dello stesso Pasolini organizzati secondo il disegno drammaturgico di Maddalena Mazzocut-Mis. Composizione affascinante in cui i versi affidati alla voce di Omero Antonutti si fondono agli echi bachiani calati nel linguaggio musicale contemporaneo. Assai brava la violoncellista Silvia Chiesa, capace di dare colore ed anima a questo lavoro mentre la Filarmonica di Torino diretta da Tito Ceccherini e il Fazioli di Maurizio Baglini le fanno da solida spalla. Al soprano Valentina Coladonato sono affidati gli ostici intermezzi cantati.

Corghi è il protagonista anche nella prima parte di concerto con le sue Filigrane Bachiane per pianoforte e corde percosse, rielaborazione del primo volume del clavicembalo ben temperato, affidate al sempre eccellente Maurizio Baglini ed agli archi dell'Orchestra Filarmonica di Torino.

Rimangono le due composizioni destinate alla sola orchestra diretta da Tito Ceccherini, Le Tombeau de Couperin di Maurice Ravel e Ricercare dall’Offerta Musicale di Bach - Webern, in cui tuttavia non si va oltre una pallida correttezza esecutiva.

Buona l'accoglienza del pubblico a fine concerto.

1 novembre 2015

Temirkanov al Giovanni da Udine

È un felicissimo ritorno quello di Yuri Temirkanov e della sua Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo al Teatro Nuovo Giovanni da Udine. Capita ormai sempre più raramente di ascoltare compagini che, al di là della perfezione tecnica, conservino un'identità timbrica immediatamente riconoscibile, un colore inconfondibile che le collochi nel solco di una tradizione. I Filarmonici di Temirkanov sono un'eccezione alla regola: il suono è antico, lussuoso, è quello che nell'immaginario collettivo si è soliti associare alle orchestre russe, cosa che non stupisce affatto considerando che l'attuale direttore principale ereditò il podio del grande Evgenij Mravinskij, di cui fu per altro allievo, nel 1988. Gli archi esprimono sonorità pastose e piene, legni ed ottoni hanno, rispetto al nitore ed alla brillantezza di altre scuole, un calore ed una sensualità ammalianti.

Non di meno colpisce l'affiatamento che lega podio e musicisti: il gesto di Temirkanov potrebbe sembrare a tratti oscuro, ambiguo, eppure l'orchestra è capace di seguirlo al millimetro, rispondendo ad ogni suggestione o improvvisa illuminazione del maestro. Si ha l'impressione che il direttore, piuttosto che concertare, suoni l'orchestra come fosse un unico stupefacente strumento: Temirkanov plasma il ritmo con tale libertà e inventiva che parrebbe quasi impossibile seguirne il passo, la sua musica è un prodigio di rubati, accelerazioni brucianti ed abbandoni, di fraseggi disegnati con un cenno delle dita o un'occhiata. E invece l'orchestra lo asseconda senza incertezze, anzi, unendo a questa sorprendente elasticità una qualità di esecuzione eccezionale (l'attacco degli archi nell'Andantino quasi allegretto della Sheherazade è, sul piano puramente estetico, tra i suoni più belli che abbia mai ascoltato).

Difficile dire se convinca maggiormente Shéhérazade, suite sinfonica, op 35 da le "Mille e una notte" di Nikolaj Rimskij-Korsakov o la Sinfonia n.2 in Mi minore di Sergej Rachmaninov. L'approccio alle opere è in fondo simile, caratterizzato da una grandissima cantabilità, da sonorità compatte ed avvolgenti, levigatissime anche nei forti più tonanti, e da una tensione narrativa senza cedimenti. È evidente il lavoro sulla qualità timbrica di ogni frase, per ogni sezione orchestrale; violini primi e secondi dialogano con voci diverse, persino il pizzicato dei contrabbassi riesce ad esprimere un timbro inedito e prezioso. La perfezione strumentale dei professori d'orchestra è poi al di sopra di ogni lode.

Tutto è animato dalla fantasia di Temirkanov che non smette mai di inventare, di aggiustare e rifinire. Il direttore cerca ed ottiene un'esecuzione estremamente espressiva e sentita che, pur sacrificando qualcosa in fatto di analiticità e trasparenza, si giova di una coerenza ed una fluidità straordinarie.

Eccellente il primo violino di Lev Klychkov in Rimskij-Korsakov.

A fine concerto accoglienza trionfale del pubblico udinese, salutato frettolosamente da un Temirkanov visibilmente provato e stanco.