27 ottobre 2014

Il Re Pastore di Mozart al Teatro Verdi di Trieste

C’è un filo sottile che collega Il Re Pastore con La Clemenza di Tito, opere mozartiane distanti nel tempo, meno nello spirito. Che poi, per ispirazione e riuscita complessiva, la seconda surclassi l’acerbo lavoro giovanile, è cosa davanti agli occhi di tutti.

Il teatro Verdi di Trieste, facendo di necessità virtù, propone un allestimento de Il Re Pastore che rispolvera le scene (molto belle) create da Pier Paolo Bisleri proprio per la Clemenza della scorsa stagione. Il risultato non solo convince ma ha appunto il merito di mettere in evidenza i nessi tra i due Mozart di derivazione metastasiana e di conseguenza l’evoluzione del linguaggio musicale e drammaturgico del compositore, delle sue ragioni più profonde, la mutazione del rapporto con una società in cambiamento ed un pensiero illuministico che entra in crisi. Il ritratto dell’età dei numi che esce dal Re Pastore, massimamente nelle figure di Alessandro ed Aminta, è caratterizzato da un’ingenuità quasi commovente ed un ottimismo che Mozart metterà progressivamente in discussione.



Elisabetta Brusa, regista dello spettacolo, congela l’azione in un teatro stilizzato ed olimpico; la scelta è quella di definire i personaggi quasi fossero archetipi, maschere di un gioco delle parti. La spontaneità della vita bucolica, cui Aminta si vede costretto a rinunciare, lascia il posto ad una recita sociale: l’uomo al di fuori del proprio ambiente, lontano dagli affetti, diviene un burattino senz’anima. L’impianto tuttavia, al di là dell’eleganza formale, mostra la corda nella rigidità dello scorrimento e nella staticità della narrazione.

Complessivamente positiva l’esecuzione musicale. Felix Krieger guida un’orchestra in gran forma con gusto e carattere, evitando sbavature o scollamenti ma senza perdere di vista la narrazione: i tempi sono rapidi senza essere frenetici, il suono terso, il palco è assecondato con attenzione vigile ma non servile.

Alida Berti, Aminta, ha voce di bel colore, solida tecnica e sa tenere il palco con personalità. L’aria l’amerò, sarò costante, oltre ad essere uno dei vertici musicali dell’opera, è risolta dall’artista – di concerto con la regia – con grande intensità. Piace senza riserve Eva Mei, esperta mozartiana, cantante dalla vocalità levigata e tecnicamente rifinita, morbida nell’emissione e dall’intonazione impeccabile.

Convince Tony Bardon, Alessandro impacciato sulla scena ma vocalmente e musicalmente autorevole. Paola Antonucci al di là di qualche forzatura negli acuti, viene a capo con sicurezza della parte di Tamiri. Alessandro Codeluppi, Agenore, deve ancora rifinire l’emissione ma evidenzia buon gusto e stile appropriato, soprattutto nei recitativi.

A fine recita ottima accoglienza per tutta la compagnia da parte dello scarso pubblico in sala.

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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20 ottobre 2014

Arabella Steinbacher e Kevin John Edusei

Kevin John Edusei è un direttore tedesco poco noto nel nostro paese, essendo cresciuto, dopo la vittoria del primo premio al concorso Mitropoulos nel 2008, ai margini dei giri più prestigiosi. Da poco nominato direttore principale dei Münchner Symphoniker, compagine non di primissimo livello ma solida ed affidabile, Edusei giungeva al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, accanto alla violinista Arabella Steinbacher, per il terzo appuntamento della stagione di musica e balletto. Ciò che davvero colpisce di Edusei è l'eleganza del gesto, ampio e leggero, che traduce in suono una spiccata sensibilità musicale; ci piacerebbe avere occasione di ascoltarlo presto alla guida di un'orchestra dai mezzi più raffinati.

Apriva il concerto l'Ouverture Das Märchen von der schönen Melusine, lavoro tra i più celebri ed influenti di Felix Mendelssohn. Kevin John Edusei conduceva i Münchner Symphoniker con nerbo e buon passo, prestando attenzione agli equilibri ed alla morbidezza del suono. L'orchestra rispondeva con compattezza, benché non immune da imprecisioni, soprattutto tra gli ottoni.

Nella Sinfonia n. 2 in do maggiore op. 61 di Robert Schumann, pregi e difetti dell'orchestra risultavano ancora più evidenti: accanto all'affiatamento ed alla piacevolezza dell'amalgama, merito soprattutto di archi complessivamente convincenti, emergeva la timidezza di legni ed ottoni, spesso imprecisi o poco incisivi. I limiti dell'orchestra erano tuttavia arginati dalla concertazione pulita e tesa di Edusei, capace di valorizzare la scrittura contrappuntistica della sinfonia attraverso l'esaltazione del dialogo tra le sezioni strumentali. Pur nella limitatezza della tavolozza timbrica, il direttore lavorava accuratamente sulle sfumature dinamiche e sul bilanciamento delle voci orchestrali. Nella perfettibilità del quadro generale,in particolare degli interventi solistici, Edusei sapeva ricavare fraseggi interessanti e pregevoli soluzioni interpretative ma soprattutto risolvere la sinfonia con un buon ritmo, riducendo i cali di tensione a pochi momenti, per lo più nell'adagio espressivo.

Protagonista e trionfatrice del concerto è stata tuttavia la violinista Arabella Steinbacher, giovane musicista bavarese già nota sulla scena internazionale, chiamata ad affrontare il famosissimo Concerto per violino e orchestra in mi minore op. 64 di Felix Mendelssohn. Al di là del virtuosismo e dell'inappuntabile bagaglio tecnico della musicista, caratteristiche ormai imprescindibili per affrontare la carriera da solista, Arabella Steinbacher colpiva soprattutto per il calore e la rotondità del suono. La violinista sapeva reggere con medesima morbidezza e pulizia le frasi legate ed elegiache dell'andante come i passaggi vorticosi della cadenza finale, il tutto senza scadere in ammiccamenti o calligrafismi ma nemmeno in un arido esercizio di perfezione tecnica. Edusei la sosteneva con gusto, assecondando scelte agogiche e dinamiche della solista e rispettandone la centralità.

Accoglienza entusiastica del pubblico in sala per direttore e per la violinista Arabella Steinbacher, salutata da lunghe ovazioni al termine della propria esibizione.

17 ottobre 2014

A Udine arrivano Daniele Gatti e l'Orchestre National De France

Secondo appuntamento della stagione musicale, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine giungeva attesissimo il maestro Daniele Gatti, direttore italiano tra i più celebri ed apprezzati a livello internazionale, per un concerto che lo vedeva protagonista alla guida della “sua” Orchestre National De France.
Gatti è senza dubbio un musicista di prim'ordine - lo testimonia la carriera che sta facendo - capace di scelte discutibili od esaltanti ma raramente banali; al di là delle preferenze personali, che possono far storcere il naso dinnanzi ad interpretazioni tanto eccentriche, in cui la ricerca del dettaglio può talvolta scadere nel calligrafismo o nell'annacquamento della narrazione musicale, è innegabile che Gatti sia in possesso di una preparazione tecnica eccellente e di una personalità non comune. L'Orchestre National De France, di cui il maestro milanese è direttore principale, è una compagine di ottimo livello, molto affiatata e, aspetto fondamentale, disposta ad assecondare il podio con fiducia cieca, in ogni suggestione agogica o dinamica – questa è l'impressione che si poteva trarre durante il concerto.

Apriva la serata Petruška, Burlesque in 4 scene di Igor Stravinskij. Daniele Gatti sceglieva un colore chiaro e tagliente, accentuando il lato grottesco della partitura con sonorità sgarbate, quasi jazzistiche, talora calcando la mano sul volume e sulle dissonanze, ma senza mai dare l'impressione di perdere il controllo dell'orchestra. Bandita ogni traccia di edonismo timbrico, il maestro puntava su una drammaticità cruda, esasperando i contrasti e delineando fraseggi brucianti. Le difficoltà della partitura mettevano in luce, accanto alla bravura tecnica di Gatti, capace di guidare l'esecuzione con assoluta concentrazione senza sbavature ritmiche o musicali, i minimi limiti dell'orchestra. Le difficoltà cui si fa riferimento riguardano una certa cautela nell'affrontare i primi quadri del balletto, risolti non senza meccanicità, ed il colore orchestrale talora eccessivamente secco e povero, soprattutto ad inizio concerto. Assolutamente splendido il finale con Gatti capace di affiancare ad accelerazioni incandescenti, ripiegamenti soffusi, impalpabili, seguito senza incertezze dall'orchestra.

Inappuntabile la seconda parte di concerto, dedicata a Richard Strauss, con il poema sinfonico Don Juan e la Suite dal Rosenkavalier. L'orchestra trovava una morbidezza ed una brillantezza di suono che in Stravinskij esano mancati, sia negli interventi solistici sia per quanto riguarda l'amalgama.
Il Don Juan alternava alle esplosioni testosteroniche dei fortissimi, sempre perfettamente a fuoco (con gli ottoni, splendenti, sugli scudi), preziosismi mai forzati o ridondanti, perfettamente inseriti nel disegno generale. Pur mancando nei pianissimi quella leggerezza magica che forse è il traguardo più arduo da raggiungere per un'orchestra, risultava evidente la cura maniacale del podio per le sfumature dinamiche e per il fraseggio, in ogni singola frase o arcata.
La Suite da Der Rosenkavalier ha segnato il vertice esecutivo della serata, sia per la bellezza e per la perfezione della resa orchestrale, sia per la compiutezza interpretativa. Gatti leggeva la composizione non senza avere in mente l'opera da cui la Suite è tratta, esaltandone il carattere malinconico e crepuscolare. Brillava per intensità poetica il motivo della presentazione della rosa, disegnato da un'orchestra delicatissima, mentre il valzer di Ochs (finale secondo nell'opera) veniva staccato con leggera ironia, senza scadere in caricature o sottolineature agogiche esagerate.

A fine concerto accoglienza trionfale del pubblico udinese, salutato con una memorabile esecuzione dell'Intermezzo dalla Manon Lescaut di Puccini.

12 ottobre 2014

Il Don Giovanni di Michieletto torna alla Fenice

In tempi di grande difficoltà per la maggior parte delle fondazioni lirico-sinfoniche italiane, il Teatro la Fenice di Venezia pare un’oasi di pace e serenità. Cinque produzioni in due mesi, qualità sempre soddisfacente e abbondanza di pubblico. Dopo le riprese di Trovatore, Traviata e Inganno Felice è la volta di Don Giovanni, capolavoro mozartiano riletto nell’allestimento capolavoro – si parva licet – di Damiano Michieletto. Piaceva all’esordio, continuava a piacere alle riprese successive ed ancora oggi, giunto alla quarta riproposizione, lo spettacolo dell'(ormai ex) enfant prodige del teatro operistico italiano riscuote un successo indiscusso. Ovviamente le voci critiche non sono mai mancate e continuano a pigolare per ogni libertà registica o presunto tradimento del verbo mozartiano, disconoscendo ogni conquista del teatro operistico contemporaneo o bollandola come perversione del gusto. Lo spettacolo di Michieletto invece funziona, è coerente, agile e intellettualmente brillante. 



Ribadiamo quanto scritto in precedenza:

“Viva la libertà! La libertà morale, intesa come coraggio di svincolarsi dagli obblighi sociali e dalle “imposture della gente plebea”, irrealizzabile chimera di uomini schiavi del sistema ed inevitabilmente attratti da chi riesca a spezzare le proprie catene per inseguirla, a costo della vita. Questo è Don Giovanni secondo Damiano Michieletto, regista cui il Teatro La Fenice di Venezia ha affidato la trilogia dapontiana, inaugurata da questo stesso titolo, ormai diversi anni fa, con un fortunatissimo e pluripremiato allestimento (scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti e luci di Fabio Barettin).
L’impianto scenografico presenta gli interni di un palazzo settecentesco, claustrofobico e vagamente decadente. Un efficace gioco scenico produce un continuo mutamento degli ambienti attraverso la rotazione delle pareti, restituendo l’impressione di un labirinto privo di vie di fuga. Don Giovanni è onnipresente, proiezione dei desideri femminili e delle aspirazioni (o dei complessi di inferiorità) maschili, signore del palazzo e delle vite altrui. La sessualità – in luogo della sensualità – è esasperata, la violenza esplicita ed abusata, massimamente nella figura del protagonista, guardato con orrore e disapprovazione dagli altri personaggi (quasi dei proto-borghesi) eppure continuamente inseguito. Un Don Giovanni rifiutato ma blandito, come fosse per loro, se non personificazione dell’inconscio, il lato oscuro di sé, il desiderio di assecondare i proprio istinti più biechi, animaleschi ed immorali. E tale è l’immedesimazione tra il libertino e i suoi interlocutori che nessuno di loro saprà sopravvivere alla morte del protagonista nel colpo di teatro finale escogitato dal regista.”

Protagonista era Alessio Arduini, cantante dalla voce non onnipotente ma di bel colore, omogenea su tutta le gamma ed adoperata con gusto e cognizione stilistica. Il baritono si rendeva autore di una prova assolutamente convincente per personalità ed aderenza al disegno registico. Al suo fianco il Leporello istrionico e travolgente di Alex Esposito; al di là dell’indiscussa classe vocale, il basso ha un magnetismo che cattura e, pur con qualche eccesso nel finale secondo, sapeva guadagnarsi l’incondizionata simpatia del pubblico.

La Donna Anna di Jessica Pratt convinceva per intonazione e pulizia di emissione mentre Maria Pia Piscitelli veniva a capo della scrittura di Elvira non senza difficoltà nelle agilità e negli acuti.
Eccellente la prova di Juan Francisco Gatell, Don Ottavio dalla linea di canto elegantissima, espressivo nel fraseggio e disinvolto in scena. La commovente aria dalla sua pace, per meriti condivisi con l’accompagnamento di Stefano Montanari, è stata di gran lunga il momento musicalmente più riuscito della serata.
Corretti Caterina di Tonno e William Corrò, Zerlina e Masetto; imponente ma poco rifinito il Commendatore di Attila Jun.

Esaltante la concertazione di Stefano Montanari, maestro di estrazione barocca capace di infondere ritmo e leggerezza alla trama orchestrale. La direzione tesa e travolgente di Montanari non sacrificava alla velocità né la ricchezza di dettagli né i colori, scovando in partitura, in particolar modo nell’accompagnamento alle arie, il giusto approfondimento delle ragioni psicologiche dei personaggi. L’ottima Roberta Ferrari, al cembalo, seguiva con garbo, fantasia ed inappuntabile senso del ritmo.

Paolo Locatelli


Gregory Kunde debutta nel Trovatore alla Fenice di Venezia

Il mondo dell’opera è talmente folle da sconfinare spesso nell’assurdo. Probabilmente non pochi “laici” faticherebbero a comprendere le ragioni che muovono un melomane, magari spingendolo a pellegrinaggi intercontinentali per prendere parte a qualche irrinunciabile evento. Nel caso specifico l’attesa era tutta per il debutto di Gregory Kunde nel Trovatore di Verdi, parte totemica per la vocalità di tenore finalmente affrontata da una delle personalità più peculiari ed affascinanti nel panorama operistico contemporaneo. Fin qui niente di strano, non fosse che il cantante, prossimo ad entrare nella settima decade di vita, si trovava ad impersonare un personaggio poco più che adolescente, vocalmente molto probante (soprattutto se si decide di eseguire la famosa “pira” in tono con tanto di do finale e Kunde – nota per i vociomani più talebani – l’ha fatto) ed esposto agli inevitabili confronti con i grandi e i piccoli del passato.



Alla prova del palco Kunde ha convinto decisamente. Forte di una tecnica prodigiosa, il tenore americano ha risolto la parte con una sicurezza tale da fare invidia a cantanti che all’anagrafe potrebbero essere suoi nipoti. Certo qualcosa mancava, sia in termini di freschezza vocale, sia, com’è ovvio, nella credibilità complessiva della figura, limiti compensati pienamente dalla maturità dell’interprete e dalla solidità del musicista.

Purtroppo tutto il contorno si rivelava al di sotto delle aspettative a cominciare dall’infelice allestimento di Lorenzo Mariani, già passato in Fenice qualche anno fa, per cui valgono le impressioni ricavate allora, se possibile ulteriormente inasprite:

La scenografia, evocativa nelle intenzioni, pacchiana nella sostanza, non solo non riesce a destare nello spettatore una minima parte di quanto si prefiggerebbe di fare ma peggio ha la colpa di essere, laddove non sia velleitaria o confusa, quasi grottesca. Se lo scenario, nella sua grigia neutralità, dominato da una luna tanto grande quanto bruttina, potrebbe ben accomodarsi all’atmosfera notturna del dramma verdiano, davvero non si riesce a comprendere la presenza di generici orpelli che sarebbe inutile elencare. Avrebbe altrimenti giovato una regia che si incaricasse di dirigere solisti e coro con maggiore senso del teatro o perlomeno con un gusto più attuale mentre il regista ripropone l’obsoleto campionario di pose da teatro d’opera d’antan che ormai si vedono solo nelle pellicole in bianco e nero o nelle parodie del teatro d’opera fatte da chi d’opera sa ben poco.

Il resto del cast non lascerà segni indelebili nella memoria dello spettatore minimamente scafato. Buona la prova di Veronica Simeoni per gusto e controllo del canto, pur soffrendo in certi momenti la grandezza della parte. Carmen Giannattasio, dopo una prima prima parte corretta, evidenziava non pochi problemi negli acuti e nell’intonazione nel quarto atto. Artur Ruciński ha una vocalità impressionante per volume, lui lo sa e non fa niente per nasconderlo. Purtroppo è mancato ogni tentativo di modellare il canto in un’espressività che andasse oltre alla concitazione o all’aggressività più truce. Impeccabile la prova del basso Roberto Tagliavini, ottimo Ferrando.

Anche Daniele Rustioni, direttore spesso interessante, non centrava il bersaglio. Il maestro dava dell’opera verdiana una lettura in cui ogni traccia di poesia o di approfondimento circa l’atmosfera, la tinta orchestrale, veniva proditoriamente accantonata in favore di una generica veemenza che, trascorsi i primi minuti, perdeva di mordente e tensione. Ovviamente si tratta di un’impostazione legittima se supportata da un disegno coerente che riesca a mantenere viva la narrazione, nel caso specifico invece la povertà dei colori e la genericità dell’accompagnamento lasciavano la prova in un’indeterminazione che finiva per non convincere.

Eccellente la prova del coro, pur costretto dalla regia a movenze costantemente al limite del caricaturale.

Paese del Sorriso a Trieste

Che ruolo ricopre l’operetta nel teatro contemporaneo? A differenza del teatro lirico che, col passare del tempo, ha trovato un proprio linguaggio per adattarsi al mutare della sensibilità del pubblico, l’operetta rimane ancora saldamente incollata ad un’estetica d’altri tempi di difficile inquadramento al gusto odierno. Quando persino un Michieletto, massimo campione italiano della contemporaneità dell’opera, non centra il bersaglio, sorge spontanea la domanda sul margine di manovra di regista ed interpreti per risolvere questo genere teatrale peculiare e tecnicamente molto insidioso. Sicuramente le generalizzazioni sono sempre rischiose, tuttavia lo stile “misto”, la voluta frivolezza, la comicità abbondantemente superata, mettono l’interprete in serie difficoltà: il rischio, come avviene per l’opera buffa, di scadere nella comicità d’avanspettacolo (che pure a qualcuno piace) o viceversa di perdere la dimensione leggera, cercando di caricare di eccessivi significati lavori relativamente poco pretenziosi sotto il profilo intellettuale, è tutt’altro che uno spettro remoto.

Il paese del sorriso, lavoro di Franz Lehar tra i più noti ed amati, tornava al Teatro Verdi di Trieste per rinsaldare quel rapporto privilegiato che la città ha sempre avuto con l’operetta, ripristinando, benché con un solo titolo in programma, lo storico festival ormai sospeso da diverse stagioni.



L’allestimento è quello di Damiano Michieletto già transitato sul palcoscenico del Verdi nel 2008. Si tratta di uno spettacolo complessivamente gradevole, soprattutto per merito delle scene di Paolo Fantin (fenomenale collaboratore del più noto regista): un’installazione emisferica domina la metà destra dello spazio scenico, assumendo via via diverse sembianze e fungendo da unico ornamento di una scenografia altrimenti spoglia. In questo ambiente statico prendeva corpo una regia relativamente ispirata: non si può certo dire che mancassero la cura o l’attenzione per il dettaglio (tutt’altro, anche le controscene erano curatissime, ogni gesto calibrato con attenzione), ciò che invece lasciava diverse riserve era il gusto della stessa e la sua ispirazione a cliché appartenenti ad un modo di fare teatro che mostra ormai più di qualche ruga. Il problema non sta solamente nella risoluzione del lato comico dell’opera ma anche nella sua coniugazione con quei risvolti più profondi e dolenti, qui talvolta negletti ed altre volte eccessivamente sottolinati; lo scoglio principale dell’operetta è questo: la risoluzione organica di stili e registri comunicativi differenti e distanti con coerenza e compattezza, sia nello spirito (comico e malinconico), sia tecnicamente (l’unione di prosa e canto) ed in questo falliva lo spettacolo triestino. 

Come accennato la fusione tra parti recitate e cantate appariva, anche per limiti degli interpreti, particolarmente difficoltosa: Ekaterina Bakanova ad esempio, che è un’ottima cantante ed attrice, non trovava certo valorizzazione in una parte che la costringe a cimentarsi in una recitazione prosaica dalla dizione impacciata, così come il tenore Alessandro Scotto di Luzio, poco incisivo e convincente nel parlato. Le parti cantate erano risolte viceversa molto bene, soprattutto per quanto riguarda il soprano, ma nel complesso la prova non convinceva completamente.
Al loro fianco Ilaria Zanetti (Mi), Andrea Binetti (Gustav) e l’eunuco di Simone Faucci, pur con abilità canore meno rifinite, si dimostravano in possesso di una padronanza tecnica idiomatica ben più convincente che li rendeva capaci di affrontare il palco con maggiore cognizione stilistica.
Sul podio dell’orchestra del Verdi Antonino Fogliani guidava con sostanziale correttezza, qualche eccesso di volume e buona cura per il suono.
A fine spettacolo buona accoglienza del non foltissimo pubblico presente in sala.