30 maggio 2022

Iván Fischer e la BFO chiudono la stagione del Giovanni da Udine

  Doveva esserci Daniil Trifonov sul palco del Giovanni da Udine accanto alla Budapest Festival Orchestra, ma una tendinite l'ha costretto a cancellare la piccola tournée europea e di conseguenza l’appuntamento conclusivo della stagione musicale del teatro friulano. È un peccato, ma l'Incompiuta di Schubert che ha sostituito il Quarto concerto di Beethoven in programma è comunque un bell'accontentarsi, soprattutto se a suonarla è questa orchestra e a dirigerla c'è Iván Fischer, che dell'orchestra ungherese è una diretta emanazione. O viceversa. La simbiosi tra direttore e musicisti ha ormai maturato un tale livello da produrre un suono che pare innaturale per quanto è perfettamente controllato ed esposto. Non è solo questione di concertazione, ma di sviluppo di ogni singola frase. Qualcosa di prodigioso soprattutto negli archi, che aprono e chiudono ogni arcata senza lasciare che si scorga l’attacco del suono e che sanno rafforzare l’intensità espressiva di una nota, o la sua forza, senza modificarne la dinamica.

  È una perfezione strumentale che nella Prima Sinfonia in Re maggiore di Mahler esplode in un livello di virtuosismo grandioso, sia per quanto riguarda le singole sezioni, sia per la capacità di Iván Fischer di tenere insieme ogni pezzo incastrandolo con gli altri. Fischer non è il genere di direttore che si inventa cose strane o che ripensa le idee del compositore per arrivare a imprimere una versione personalistica dell’opera. È piuttosto uno che riesce a tirare fuori tutto quello che c’è nella pagina, imprimendo la propria cifra nei piccoli dettagli: nell’articolazione, nel fraseggio, nel carattere, nel colore.

  Apre la sinfonia sussurrando, come raccontasse la sorpresa di un risveglio primaverile, al secondo movimento dà accenti grevi da taverna di campagna, acuendo quell’ascendenza popolare che si ritrova, seppur in modo diverso, nelll’iperespressività larmoyant e stiracchiatissima del valzer del Trio. C'è un'anima mitteleuropea ancestrale in questa musica che l'orchestra ha nel sangue. È una idiomaticità che ritorna negli echi di ciarda del terzo tempo, che va animando il motivetto luttuoso in canone introdotto del contrabbasso.

  Non è un Mahler forsennato né travolgente quello fatto da Fischer, anzi, è per certi versi klempereriano, non meditabondo ma ben ragionato, analizzato in profondità nell’architettura e per certi versi persino spiegato: le chiuse di primo e quarto movimento, faticose, estenuate e pesanti, così ineditamente speculari, danno al quadro un’organicità che sfugge alle esecuzioni più “emozionali”. Non è tuttavia un vigore che ammorba o affatica, ma atto ad accumulare una tensione drammatica che esplode nel giubilo finale, che si ascolta doppiamente in estasi: da un lato per la carica vitalistica della musica in sé, dall'altro perché osservare Fischer che pilota questo macchinario gigantesco come fosse una console appaga la passione feticistica di qualsiasi amante della musica sinfonica.

  Quanto alla Budapest Festival Orchestra, è tra le migliori che si possano ascoltare sulla scena internazionale da diversi anni a questa parte. Ha un suono morbido e lussureggiante, carico e caldo sì, ma limpido, sempre elegante e bilanciato, e una gamma di sfumature sia nelle sezioni che nelle prime parti che pare inesauribile.

  Trionfo a fine concerto che si spegne solo quando il direttore congeda l'orchestra. Curiosa la proposta, a termine dell’Incompiuta, delle poche battute del terzo movimento abbozzate da Schubert.



12 maggio 2022

Rigoletto ritorna al Verdi di Trieste

  Nelle stagioni del Verdi di Trieste, che ormai non sgarrano di un centimetro dai binari del grande repertorio, Rigoletto rispunta con cadenza quinquennale. La cosa curiosa, spulciando la cronologia, è la presenza costante di Devid Cecconi, già in locandina nell’”epoca Oren” del teatro, nel 2006, al debutto assoluto nel titolo e su un palcoscenico, e ancora chiamato nel secondo cast nella produzione del 2012, che vantava due stelle in fieri come Salsi e Meli. Cecconi mancò l’interlocutoria inaugurazione di stagione del 2016, firmata dalla coppia Carminati-Grinda, mentre torna da protagonista nello spettacolo in scena in questi giorni.

  E che protagonista! A dispetto di uno strumento che rispetto al passato sembra aver perso un po’ di “peso”, Cecconi è un artista che scava nella parola, che colora e accenta, smorza e sfuma, con una sicurezza tecnica e un controllo dell’emissione irreprensibili, soprattutto nella scomoda zona alta della tessitura, che molti Rigoletti tendono a risolvere in un forte costante o ad accomodarsi declamando brutalmente. Il suo è un Rigoletto maturato a fondo e sviscerato nel dettaglio, in cui rabbia, patetismo, amore paterno, frustrazione e viscidume morale si combinano a disegnare un personaggio completo e chiaroscurato.


Foto Fabio Parenzan


  Difficile trovare un difetto alla Gilda di Ruth Iniesta, che è perfetta sul piano vocale, musicalissima, ha una dizione cristallina e dà altresì al personaggio una tempra moderna forse non in linea con lo spettacolo, ma molto affascinante. Quella della Iniesta è una Gilda tutt’altro che ingenua, ma piuttosto una ragazzina smaliziata che non vede l’ora di togliersi di torno il padre per iniziare a godersi la vita e la libertà.

  Antonio Poli è un notevolissimo prospetto di Duca di Mantova. Un Duca che deve ancora farsi e risolvere qualche piccola magagna, ma che fa anche ascoltare ottime cose. Il primo atto è guardingo, con bei momenti uniti a qualche salita avventurosa verso gli acuti, così come manca di spavalderia La donna è mobile. Di contro, Poli apre il secondo atto con un recitativo meraviglioso, seguito da una Parmi veder le lagrime di pregevolissimo legato e ampiezza, tornita con una serie di contrasti dinamici prodigiosi sul piano tecnico ed espressivo.


Foto Fabio Parenzan


  Solidissima la prova di Abramo Rosalen, Sparafucile dal bel timbro nero e dal volume portentoso, così come è perfetta la Maddalena di Anastasia Boldyreva: bel velluto e bella presenza, per il personaggio difficile pretendere di più. Alterno il contributo della tante parti di contorno. Rocco Cavalluzzi è un Monterone deludente. Nel momento in cui si scrittura un Monterone bisogna assicurarsi di una sola cosa: che tutti gli strali che va lanciando quando sale sul palco suonino abbastanza minacciosi e tonanti, anche perché in quei momenti l’orchestra sotto spinge parecchio. Se manca quello, manca tutto. Molto convincente la Giovanna di Kimika Yamagiwa, che la regia dipinge come una prezzolata pronta a vendere la  sicurezza di Gilda in cambio di qualche pezzo d’oro. Buone le prove di Dario Giorgelé e Dario Sebastiano Pometti, rispettivamente Marullo e Matteo Borsa, mentre fa più fatica il Conte di Ceprano di Francesco Musinu. Al solito affidabilissima Rinako Hara, impegnata nella doppia parte della Contessa di Ceprano e del paggio della Duchessa. Corretto nel suo piccolo intervento Damiano Locatelli, usciere di Corte.


Foto Fabio Parenzan


  Tiene salde le redini Valentina Peleggi, che si trova a guidare un'orchestra allargata oltre la buca vera e propria, che è in buona parte rialzata in bolla con la platea, e con una piccola appendice sui palchi di barcaccia. Ne consegue qualche difficoltà nel regolare i volumi in rapporto con il palco, anche nei momenti in cui l’orchestra alleggerisce la dinamica verso il pianissimo. Al di là delle condizioni ambientali ineludibili, Peleggi fa ascoltare una buona concertazione e anche la giusta attenzione al palco, cui manca solo un briciolo di cantabilità nei momenti più ariosi. Ciò detto, l’Orchestra del Verdi suona molto bene, sia come qualità di amalgama, sia come precisione, consentendo alla direttrice di enucleare alcuni dettagli interessanti dell’orchestrazione e di ottenere certi stacchi di tempo belli decisi ma sempre pulitissimi (come il Cortigiani, giustamente più svelto di quanto voglia la tradizione). È molto positiva anche la prova del Coro del Verdi preparato da Paolo Longo.


Foto Fabio Parenzan


  Quanto allo spettacolo, Éric Chevalier, segue una linea programmatica chiara stampata nero su bianco nel programma di sala: “un’opera popolare come Rigoletto è in grado di attirare un nuovo pubblico, ma deve essere presentata in modo leggibile e comprensibile, per rivolgersi efficacemente allo spettatore che non abbia necessariamente i codici del teatro lirico. Mi sembra fondamentale, registicamente, interpretare l’opera in modo tale da non scoraggiare chi si appresta per la prima volta al linguaggio lirico”. Si può condividere o meno il punto di vista - e io non lo condivido affatto: pensare di destinare Rigoletto a un pubblico digiuno nel momento in cui lo si allestisce in un teatro in cui l’opera va in scena ogni cinque anni è una tesi difficilmente sostenibile, né si capisce perché il supposto neofita dovrebbe ricevere un’attenzione maggiore rispetto a chi a teatro ci va assiduamente, cioè la gran parte del pubblico in sala - ma una volta preso per buono l’assunto di partenza, si cerca di apprezzarne la coerenza realizzativa. Che nel caso in questione è complessivamente buona. Certo, è il più classico dei Rigoletti didascalici di tradizione, con la gobba abnorme, il cappello da giullare e tutto il resto, ma la regia è ben curata e la vicenda “spiegata” con chiarezza. Le scene, firmate dallo stesso Chevalier, sono scarne e low-budget ma funzionali. Un grosso praticabile rotante con una scalinata centrale assolve alle necessità “ambientali” di massima, mentre una serie di proiezioni sullo sfondo completa il quadro. I costumi “d’epoca” di Giada Masi sono complessivamente molto belli, mentre è davvero troppo piatto il disegno luci, che altrimenti curato avrebbe potuto valorizzare in modo migliore il palcoscenico.

Successo caloroso per tutti a fine recita, con ovazioni per i tre protagonisti.