27 ottobre 2020

Iván Fischer torna all’Olimpico per il Vicenza Opera Festival

Il primo concerto di Iván Fischer per il Vicenza Opera Festival 2020 è stato anche l’ultimo, forse dell’anno. Almeno con il pubblico in sala, perché il secondo appuntamento è andato comunque in streaming, magra consolazione, ma se non altro si cerca di lanciare un segnale fuori dalla bolla per ricordare che questo mondo, quello del teatro, della musica eccetera, esiste. C’è di buono che ai pochi presenti, rigorosamente distanziati, immascherinati e imbalsamati sulla seduta com’è giusto che sia (perché il teatro è un posto sicuro, giova ricordarlo), resterà il ricordo di una grande serata nelle settimane che verranno, quando di musica dal vivo non se ne farà più.


D’altronde Iván Fischer è uno dei massimi direttori viventi, è notizia di pochi giorni fa che la Concertgebouworkest l’abbia eletto suo direttore ospite onorario, un primo passo per riempire il trono ancora vacante dopo l’affaire Gatti. Quella che invece è proprio la “sua” di orchestra, la Budapest Festival Orchestra, di cui è fondatore e mentore da quasi quarant’anni, rimane una delle compagini più idiomatiche, oltre che tecnicamente portentose in circolazione.

Un’orchestra che conserva quella capacità sempre più rara di coniugare alla trasparenza, intesa come intelligibilità di ogni linea e perizia esecutiva del singolo, una pienezza d’impasto un po’ “alla russa”, fatta di archi caldi e fiati di puro velluto. Una qualità che impressiona forse ancor più che altrove nell’Haydn della Sinfonia 104 in Re maggiore, repertorio ormai divenuto terreno di conquista per filologi e barricaderi della prassi storicamente informata. Cosa degnissima e apprezzabile, sia chiaro, ma che ci ha progressivamente privati dell’opportunità – e diciamolo, anche del piacere – di ascoltare il repertorio classico fatto “alla vecchia”, con suononi belli grassi e colori caravaggeschi. Fischer invece quelle radici non le rinnega, anzi, le omaggia. Certo lo fa con un organico stringato – sette primi, sei secondi e così via – ma capace di produrre una pienezza di cavata e respiro impressionante. Non spinge nemmeno sull’acceleratore Fischer, anzi, se la prende tendenzialmente comoda, sapendo che il ritmo e la tensione sono ben più debitori all’articolazione che alla frenesia. E basta sentire come vivifica gli sforzando degli archi sul finire del quarto movimento, accompagnandoli con cenni danzanti, per rendersene conto. Quel che si ascolta è in sostanza un Haydn bello corpulento, a momenti quasi imponente, in cui tuttavia la mole del suono mai deprime leggerezza e mobilità.

Va da sé che tali peculiarità timbriche e scelte d’organico si sposino alla perfezione con la scrittura dell’Ariadne auf Naxos, purtroppo proposta solo in selezione, se così si può dire. Prima l’aria di lei (Es gibt ein Reich), poi il finalone. Lei è Camilla Nylund, voce luminosa e di ottima educazione, artista fine, che però, complice la strana acustica dell’Olimpico, fatica a svettare sull’orchestra. Lui invece, il Dioniso che fu Teseo, è Albert Joseph Glueckert, tenore dallo strumento non baciato dalla natura, un po’ legnoso e poco propenso a “girare”, ma solido negli infidi sbalzi della parte. 

Sono invece una più brava dell’altra le tre ninfe, che fanno ascoltare meraviglie nei passi corali e tappano i buchi laddove manca una Zerbinetta. Sono rispettivamente Olivia Vermeulen, Driade, Samantha Gaul, Naiade, e Mirella Hagen quale Eco.

Il miracolo però lo fa Fischer, che accompagna al calor bianco, con tutta la passione e la carica emozionale che questa musica miracolosa incoraggia. Quando sull’ultima nota del tenore l’orchestra esplode in fortissimo, trascinata dagli ottoni, in sala scatta qualcosa di catartico.

Successo travolgente a fine concerto, con il pubblico in piedi a ringraziare e salutare a tempo indefinito la musica dal vivo.

21 ottobre 2020

La prima di Beatrice Rana al Giovanni da Udine

Di questi tempi ogni alzata di sipario è una corsa a ostacoli. Senza considerare i casi più sfortunati in cui salta tutto, è sufficiente una piccola variazione delle norme di sicurezza, evenienza tutt’altro che infrequente, per scompaginare i programmi già ballerini di un teatro. È ciò che è successo al Giovanni da Udine, che a poche ore dall’apertura della stagione musicale ha dovuto sdoppiare il concerto dopo che le limitazioni si sono fatte più stringenti e dilazionare il pubblico tra la serata già in calendario e la mattina seguente. Fortunatamente Beatrice Rana non è tipo che si lascia intimorire e se c’è da replicare lo stesso programma a poche ore di distanza dice di sì. Programma ampio e impegnativo tra l’altro, un vero e proprio biglietto da visita per il nome più in vista della nuova generazione di pianisti italiani.

foto di Simon Fowler

Di fronte a Beatrice Rana ci si trova a conciliare due sensazioni apparentemente in contrasto: la prima, predominante, è che si ammiri una pianista completa, di quelle che padroneggiano la grammatica dello strumento in ogni cavillo al punto da poterla piegare a qualsiasi intenzione. Pianissimi di ogni gradazione, forti brillanti e grandi che scoccano come frustate, nuances, libertà agogiche sempre in pieno controllo e così via. C’è di contrasto l’indimostrabile impressione che abbia ampi margini per superare se stessa e che la sua perfezione, soppesata al microgrammo in ogni nota, aspetti di essere scardinata. Ad oggi Beatrice Rana è una meravigliosa pianista alla ricerca di una totale emancipazione dai vincoli che si è autoimposta. Non perché vi sia una qualche carenza oggettiva e quantificabile delle sue letture, tutt’altro, salvo forse – a sindacabilissimo gusto di chi scrive – la mancanza di un pizzico di audacia nello spezzare gli argini del “buongusto”, ma perché quel suo autocontrollo assoluto, rigidamente studiato nel minimo dettaglio, rischia di instradare delle qualità da fenomeno verso uno degli spauracchi più temibili per un artista: la non imprevedibilità. Minaccia insomma di precludere alla prima della classe lo scatto a fuoriclasse.

Certo è quasi paradossale fare le pulci all’artista e alla maestra Beatrice Rana, considerando che di mani così educate e onnipotenti ne girano poche. E anche di pensieri così compiuti: ascoltandola è chiaro che alla base del suo lavoro ci sia un’idea precisa dell’opera, di ogni singola opera, una visione organica che nasce da tanto studio e dalla voglia di fare le cose in coscienza e con puntiglio. Ma forse è proprio questo il freno. Sullo sfondo rimane la sensazione di un autocontrollo severissimo che limita fantasia e libertà, che è anche la libertà di prendersi dei rischi non calcolati e potenzialmente catastrofici, di provare a cedere qualche centimetro all’istinto.

Il suo Chopin dei quattro scherzi ad esempio è così perfetto e sorvegliato che sembra uscire direttamente dalla sala di registrazione, mentre c’è più colore nelle terzo libro di Ibéria, ove i continui cenni danzanti e pittoreschi emergono con tutta la leggerezza antiretorica che sa restituire loro solo il grande musicista, senza enfasi né distacco.

La valse è viceversa emblematico di quanto si diceva poc’anzi. Rana lo spiega benissimo: ogni dettaglio è al suo posto, ogni linea in vista, i detriti di valzer saltano fuori distintamente anche nel marasma più intricato, eppure manca quella leggerezza ariosa di chi scherza con la musica, buttandola fuori a folate inattese.

Successo molto caloroso a fine concerto.

18 settembre 2020

Con Roberto Devereux alla Fenice si torna alla normalità, più o meno

Dopo il Roberto Deverux alla Fenice ho realizzato di aver visto molti più spettacoli in forma semi-scenica di quanti pensassi, evidentemente a mia insaputa. Si scherza, ma fino a un certo punto. La locandina infatti recita così, e in effetti qualcosa manca – scene e costumi, ad esempio: due piccoli dettagli – ma è un'assenza che in fin dei conti pesa poco. Forse perché sullo sfondo rimane comunque la coda dell'arca che in estate attraversava palco e platea, oggi riconsegnata ai suoi legittimi proprietari, che con le luci giuste non è un brutto vedere. Forse semplicemente perché c'era bisogno di tornare all'opera in modo quasi normale, dopo tutti questi mesi. Però la quantità e la qualità dell'azione teatrale vera e propria non sembrano affatto ridimensionate dal prefisso "semi", almeno rispetto a una recita belcantistica standard (luminose eccezioni escluse, ovviamente).



Per quel prodigio che qualcuno chiama serendipità, le contingenze del momento, che costringono Alfonso Antoniozzi a ripensare il suo Devereux sottraendo e sottraendo di nuovo, hanno l'effetto di un reset benefico del genere. Via tutto, si riparte da zero, il che significa fondare lo spettacolo su due cose: luci, e nel caso specifico il lavoro di Fabio Barettin è di grande suggestione, e recitazione dei cantanti. Una recitazione che deve scansare qualsiasi interazione ravvicinata, ma che non per questo è rinunciataria. Si gioca molto su distanze che si allargano e restringono, un po' a elastico, e sulla capacità degli interpreti di catalizzare su di sé tensione ed attenzione, cosa che a qualcuno riesce meravigliosamente, a qualcuno meno. Anche il coro completamente impalato, in nero, ha una sua potenza tragica malgrado l’immobilismo forzato, o forse proprio grazie ad esso. La sospensione dell'incredulità vacilla soltanto di fronte alle mascherine, d'obbligo anche negli spostamenti in scena delle masse, ma di questi tempi è un sacrificio che non pesa.

In sintesi, questo spettacolo nascerà anche da una serie di compromessi, ma funziona bene. È un Devereux ripulito dai luoghi comuni un po' baracconi di certo modo di intendere l'opera, che ovviamente deve rinunciare a ogni richiamo storico, al grande affresco, ma che in compenso punta la lente sul dramma intimo dei personaggi principali, che è un dramma di incomunicabilità. Il distanziamento coatto non fa che esasperare questa incapacità di venirsi incontro, di capirsi, rendendo di fatto tangibile quel fossato non solo metaforico che separa l'uno dall'altro. Quello cui si assiste è in definitiva, nonostante tutto, teatro. Se questa è la forma semi-scenica, evviva la forma semi-scenica.




Il resto è nelle mani dei cantanti. Roberta Mantegna ha voce luminosa e linea di canto (quasi) immacolata, bei fiati lunghi per reggere le frasi spianate e agilità sicure, ma non riesce a scavare in profondità tra le pieghe di Elisabetta, soprattutto tra quelle più inquietanti. È una Regina alle prime armi, che deve ancora farsi il pelo sullo stomaco, senza malizie né ombre, troppo monodimensionale e liliale.

Discorso opposto per Lilly Jørstad, Sara, che forse è ancora acerba per reggere senza colpo ferire la scrittura e che tende ad arrivare leggermente corta un po' dappertutto, in alto, in basso, nei fiati, però ha tutta la personalità che serve per dare uno spessore al suo personaggio. 

Alessandro Luongo fa un gran bel duca di Nottingham. "Chiaroscurato", si sarebbe detto qualche tempo fa, attento alla parola, alla dinamica e all'espressione del canto. Se alla voce manca forse una punta di brillantezza per svettare più imperiosa sull'orchestra, all'artista non si può rimproverare davvero niente. Enrico Iviglia e Luca Dall’Amico, rispettivamente Lord Cecil e Sir Gualtiero Raleigh, sono presenze pressoché stabili nel teatro veneziano e, al solito, si difendono con onore. 

Resta il protagonista, Enea Scala, che è una sorpresa. Non perché non si conoscessero già le qualità di questo tenore, quanto per la maturazione costante che sa mettere in campo prova dopo prova, sia in termini di vocalità, che ha ormai acquisito uno spessore timbrico e di peso nei centri come nel registro acuto senza perdere spavalderia, sia per la sicurezza con cui manovra il canto vero e proprio. 

Non è più una sorpresa da parecchio tempo invece Riccardo Frizza, che questo repertorio non solo lo conosce a menadito, ma lo respira. Il belcanto non si risolve solo nella concertazione – ottima, come la prova dell'orchestra di casa– e nel ritmo teatrale, che pur non scade mai, ma ci vuole quella capacità di dare aria alle linee melodiche, di muovere con flessibilità il battito e la dinamica, così che un semplice accompagnamento arpeggiato si faccia canto. Quando un direttore arriva a questo traguardo, nel repertorio italiano, ha vinto. Una gran prova.

Il coro della Fenice preparato da Claudio Marino Moretti è sempre un bel sentire, anche se i mesi di inattività paiono aver incrinato leggermente la compattezza dei giorni migliori. Il ritorno a regime, che si spera definitivo, gioverà anche a loro.

Note su note: la nuova Cavalleria di Janowski

Quarantena, quindi c'è tempo per fare cose, tipo ascoltare opere che non reggo o reggo a fatica. Tanto più se si tratta di una nuova uscita (prossimo 10 aprile, se proprio proprio vi interessa). Le note di rilascio parlano di "approccio sinfonico al Verismo", come se non ci avessero già pensato Karajan o Sinopoli, giusto per fare due nomi a caso, con cantanti e orchestre ben più interessanti. La domanda è: c'era davvero bisogno di una nuova Cavalleria Rusticana in disco? Evidentemente la risposta è no, considerando che la scelta della discografia ufficiale è sterminata e offre soluzioni per tutti i gusti. Quale sia poi il senso di una registrazione in cui gran parte del cast pare non avere un'idea precisa di ciò che va cantando e comunque non lo fa nemmeno in modo trascendentale, io non lo comprendo. Mediamente si va dall'accettabile (Santuzza, tale Melody Moore) al "lasciamo perdere" (Turiddu e Alfio, rispettivamente Lester Lynch e Brian Jagde, il primo un po' meglio del secondo). 

E poi c'è il vecchio Marek Janowski a cui tutti vogliamo un sacco di bene perché ha fatto tante cose con cui siamo cresciuti ma che, ammettiamolo, non è mai stato un musicista da miracoli. Qui va avanti con passo spedito e tanta voglia di far rullare i tamburi, non sempre a ragion veduta. L'orchestra che ha davanti è la sorella minore della gloriosa Staatskapelle, la Filarmonica di Dresda, che suona bene ma non manda mai in estasi. Almeno non non in questo disco. 

Pentatone ha in catalogo cose più interessanti, passare oltre.


Angela Denoke e la Gustav Mahler Jugendorchester aprono la stagione pordenonese

Poche storie, la pandemia non è un'opportunità ma una gran seccatura, anche e soprattutto per chi con la musica ci vive. Come ogni seccatura può essere aggirata con intelligenza e spirito di adattamento, oppure ci si può arrendere, ridimensionando le aspettative o tirando i remi in barca. La prima via è la più faticosa, perché per mantenere gli standard di qualità a fronte di una marea di limitazioni ci vuole il triplo del lavoro, ci vogliono conoscenza, fantasia, elasticità eccetera, oltre all’adozione di una mole mostruosa di misure di sicurezza. Insomma è molto, molto complicato. Però è possibile. Lo dimostra il progetto Gustav Mahler Jugendorchester, al solito in residenza tra Pordenone -  sponda Teatro Verdi - e Bolzano, con una delegazione extra spedita a Dresda per rimpinguare le file dalla Staatskapelle per l'inaugurazione di stagione. Una GMJO a organico ridotto e frazionato in piccoli gruppi paralleli che si avvicendano senza incontrarsi mai, nonché privata della consueta tournée europea, ma viva.

Angela Denoke e la Gustav Mahler Jugendorchester

Certo con un programma ridisegnato sulla base delle contingenze, che impongono un organico assottigliato nella mastodontica spina dorsale degli archi, né potrebbe essere altrimenti visto che sul palco occorre mantenere le opportune distanze e lo stesso vale per la vita quotidiana, che i ragazzi spendono fianco a fianco dal primo giorno all’ultimo.

Cambiano le proporzioni e cambia il sapore dell’orchestra dunque, ma non la soddisfazione di chi la ascolta. In fondo come insegna Schicchi, in questo mondo una cosa si perde – l'affiatamento ad esempio: un ensemble radunato in pochi giorni non può avere il respiro comune di quello che si cementa per un mese intero, o quel GMJO-sound caldo e appassionato che rinnova anno dopo anno – una si trova. Un’inedita trasparenza che non è solo leggerezza, ma quasi un cambio di paradigma, e il piacere di andare sul piccolo, sul dettaglio, di preferire l’acquerello da salotto alla cattedrale affrescata. 

E in questa ottica non si poteva scegliere nome migliore di Tobias Wögerer, già direttore assistente della Mahler accanto ad Herbert Blomstedt, forse l’unico per cui questa situazione emergenziale si sia rivelata una vera occasione. Probabilmente in un contesto ordinario Wögerer si sarebbe visto preferire un nome di cartello, di quelli che in genere si fanno carico della tournée estiva, invece si è trovato tra le mani un'orchestra tutta sua, piccola ma preziosa, da costruire e plasmare. E con quali risultati! Prendete il classico giovane direttore scalpitante tutto gran-gesto ed esuberanza che, direbbe Muti, “zompetta” sul podio scuotendo al vento la chioma. Ecco, Wögerer ne è la nemesi, il contraltare nobile. Dirige a mani nude con la chiarezza di chi sa cosa serve per ottenere il risultato ricercato senza concedere niente allo show, non ha modelli o idoli su cui ricalcare movenze e mimica né cerca mai l’effetto di facile presa, che pur alla sua età sarebbe un peccato perdonabilissimo. È semplicemente – “semplicemente” si fa per dire - un musicista fine e pensante, capace di concertare e di condurre senza sofisticazioni le linee, nello Schubert del terzo intermezzo da Rosamunde (se lo suoni così, hai davvero qualcosa da dire), come nell’Idillio di Sigfrido o nella trascrizione di Benno Sachs del Prélude à l’après-midi d’un faune. Però sa anche accompagnare. Ne dà prova accanto ad Angela Denoke, maestra assoluta della parola scolpita, liederista di classe ma ancor più artista con il teatro nel sangue, che agli ottimi Lieder eines fahrenden Gesellen accoppia una donna di Erwartung da brividi.

Chiude in trionfo il Concerto per pianoforte, tromba e orchestra n.1 in Do minore op. 35 di Dmítrij Šostakóvič, forse l’unico momento in cui si sia avvertita la mancanza di un organico più nutrito che potesse spalleggiare con maggiore robustezza la brillantezza del tocco di Maurizio Baglini e la tromba vellutata, ma pur sempre imperiosa, di Martín Baeza-Rubio

L’orchestra, che, giova ricordarlo, si è riunita solamente un paio di giorni prima del weekend di concerti pordenonesi, è più “orchestra” domenica che sabato, in netta crescita d’intesa e omogeneità con un solo giorno di rodaggio aggiuntivo. D’altronde ad ogni leggio siedono musicisti di grande presente e avvenire. Spiace che quest’anno il progetto debba chiudersi così in fretta.

23 marzo 2020

Il Čajkovskij di Vladimir Jurowski

Ci pensavo l'altra sera ascoltando il terzo atto di quella bella Frau ohne Schatten che Vladimir Jurowski diresse ad Amsterdam parecchi anni fa. Si può storcere il naso di fronte al suo modo eccentrico di fraseggiare e articolare, così libero rispetto allo scritto e alla tradizione - nella Frosch si prende certe licenze curiose che non aiutano nemmeno i cantanti, tant'è che pronti via e Barak si perde una frase intera - però la personalità è innegabile. Il suo Čajkovskij, che sto passando a setaccio in questi giorni, non è diverso. Sviluppa le linee con un piglio anticonvenzionale che ora mi entusiasma, ora mi turba, forse proprio perché sono abituato a qualcosa di completamente diverso, ma che almeno rende appetitosa l'ennesima integrale sinfonica dopo altre mille tutte identiche. Più che un epigono del romanticismo, questo Čajkovskij è il padre dei sinfonisti russi del Novecento: cupezze timbriche tenebrose, tutti gli spigoli bene in vista, secchezza meccanica nei passaggi marziali (Prokof'ev è lì, dietro l'angolo), una tensione sbrigativa quando l'orchestra dovrebbe cantare appassionata, certo scalpitare nervoso, se non ironico, nei momenti in cui siamo abituati ad ascoltare la bellezza in trionfo. Non immagino una Quinta più antiedonistica e scorbutica di questa: nel quarto movimento sembra che tutto sia sul punto di saltare per aria, è quasi irritante fisicamente, proprio nel senso che trasmette irrequietezza.
L'effetto è spiazzante, almeno su di me lo è stato, al punto che non so dire se il Čajkovskij di Jurowski mi piaccia del tutto. Di sicuro ci avverto la mancanza di qualcosa, ne colgo la frammentarietà e la parzialità, le forzature, però ne sono anche molto affascinato. Uno degli ascolti più stimolanti in queste giornate piene di musica.


18 febbraio 2020

Karajan - Ritratto inedito di un mito della musica

Leone Magiera inizia il suo personalissimo, e dunque soggettivo, ritratto di Herbert von Karajan raccontando la propria giovinezza accanto alla ragazza, e poi donna, che li fece conoscere: Mirella Freni, prima moglie dell'autore. Dai bacetti furtivi nell'ultima fila di un cinema, narrati con la stessa dolcezza serena che il vecchio Verdi riserva a Fenton e Nannetta, alla soffitta para-pucciniana di Glyndebourne dove li raggiunse una busta gialla intestata che conteneva la scrittura per quella Bohème scaligera che avrebbe fatto la storia. Il direttore delle Nozze di Figaro in cui lei cantava Susanna, John Pritchard, fino a quel giorno puntiglioso e scostante, si fece improvvisamente affabile e mansueto. Era il potere dell’aura di Karajan. Dove e quando il grande direttore avesse ascoltato la Mirellina, per volerla con sé alla Scala, non lo si è mai saputo, pare che lui amasse travestirsi e intrufolarsi nei teatri sotto mentite spoglie quando voleva ascoltare qualcosa o qualcuno senza farsi riconoscere.



Questo libro non è una biografia né ha la pretesa di esserlo, ma un ulteriore contributo all'iconografia pagana di quello che è stato il direttore d'orchestra più celebre e discusso del secolo scorso, per certi versi è un omaggio a un uomo e artista che Magiera ha conosciuto bene e ammirato ancora di più. Un omaggio che ha il taglio del diario più che della cronaca.

Ci sono diversi aneddoti gustosi, qualche pettegolezzo simpatico e qualcuno pruriginoso (Karajan ne è stato spesso vittima ma non disdegnava nemmeno farsi a sua volta gli affari degli altri), ma ci sono anche alcune osservazioni musicali troppo brevi per esaurire un argomento ma abbastanza intriganti da stimolare la curiosità di approfondire. Insomma è un libro che si beve d'un fiato.

Quel che rimane, girata l’ultima pagina, è una consapevolezza rafforzata: Karajan fu un mistero sfuggente e inafferrabile anche per chi ci lavorò fianco a fianco. Troppo massiccio è il suo contributo e troppo ampia la sua parabola, forse persino eccessive le sue contraddizioni, per sperare di inquadrarlo o risolverlo.

17 febbraio 2020

Gil Shaham nel teatrone

Gil Shaham conosce il concerto Concerto op. 64 per violino e orchestra di Felix Mendelssohn-Bartholdy anche capovolto, d’altronde di tempo per metterlo a puntino, almeno dall'incisione giovanile accanto alla Philharmonia di Giuseppe Sinopoli, ne ha avuto parecchio, trent'anni buoni. Trent'anni che non sono passati invano, perché se il Mendelssohn del disco Deutsche Grammophon era così appassionato ed estroverso, quasi voluttuoso nell'espressività timbrica, il Shaham di oggi è un musicista per certi versi evoluto. Tecnicamente mostruoso, basta osservarlo sciorinare quelle cascate di sedicesimi dell’Allegro molto vivace, ma non esteriore. O meglio, esteriore lo è, e anche molto, nella mimica e nell'atteggiamento, perché più che un solista a volte sembra uno showman che gioca con l'orchestra, tra ammiccamenti e cenni danzanti. Però è uno showman che suona eccome, non fa finta. Quando c'è da attaccare l'Andante, ad esempio, avanza verso la platea, così da potersi permettere un suono piccolo piccolo, intimissimo. Gran finezza, visto che anche il suo Stradivari, come tutti gli altri violini della casa, non è strumento dal volume imponente, ma piuttosto di luminosità e bellezza canoviana che Shaham esalta al massimo livello.



Se gli è dato di esprimere una palette cromatica ed espressiva così variegata è anche per merito di James Gaffigan, quarantenne americano poco noto dalle nostre parti, il quale è un eccellente accompagnatore che sa guardare e assecondare il solista come si deve, ad esempio nel finale di primo movimento, quando Shaham imprime un'accelerazione stringente al tempo che il podio raccoglie e trasmette.

Però Gaffigan è anche un ottimo concertatore. Ne dà prova sin dall’Ouverture del concerto, Le Ebridi dello stesso Felix Mendelssohn-Bartholdy, eseguita e “spiegata” benissimo: preparare un’orchestra significa anche rendere giustizia alla raffinatezza di orchestrazione di un brano. Discorso analogo vale per il suo Sibelius (Sinfonia n. 2 op. 43) che è suonato molto bene, pesato negli equilibri e ben dosato negli scarti dinamici, anche se episodico, o semplicemente rapsodico. La costruzione frammentaria della sinfonia, fatta di temi che si incrociano, si mescolano e si perdono, fatica a trovare quella reductio ad unum che è prerogativa dei grandi interpreti di questo autore. Certo Gaffigan può fare affidamento su una macchina, i Luzerner Sinfonieorchester, che risponde ad ogni cenno. Orchestra scattante e pulita, capace di amalgamare al meglio i pianissimi come i forti, cui manca solo una più definibile identità timbrica per il salto di qualità definitivo.

Successo calorosissimo con il Valzer triste dello stesso Sibelius offerto come bis.

8 febbraio 2020

Boris Godunov: i torbidi a Trieste

Il Boris Godunov in scena al Verdi di Trieste è uno specchio magico per guardare altrove. Non è il "nostro" teatro, probabilmente non lo sarebbe stato neppure trent'anni fa, ma piuttosto un viaggio nel tempo e in luoghi lontani, quelli della periferia sovietica. Teloni a tinte calde, icone e campane che piovono dal cielo, costumi più carnevaleschi che storici e improponibili "parrucchi". D'altronde un vecchio allestimento dell’Opera di Dnipro, a firma di Yurii Victorovych Chaika, non poteva che offrire qualcosa del genere.
Non è teatro indagatore o di psicologia, forse nemmeno affresco storico, perché l'arbitrarietà generale è troppa per crederci, ma un rito collettivo. È una rievocazione, la celebrazione di una tradizione che ritorna sempre uguale a se stessa non per leggere il presente ma per riallacciare un rapporto con le radici.



Una tradizione che è anche musicale. Qui c'è un direttore, Alexander Anissimov, che oltre a conoscere a menadito la materia sa dove mettere le mani e sa tenere insieme palco, coro (anzi, cori, perché c'è pure quello di Dnipro e si sente) e orchestra di casa, in buonissima serata tra l'altro.

E c'è un cast di importazione che ha pregi e difetti della cultura che esprime. Voci belle grosse ma spesso ruvide, comicità greve e caricaturale, ingenuità stereotipata della recitazione, ma anche molta coerenza. Quello è il mondo che devono rappresentare e quello fanno, chiedere o aspettarsi qualcosa di diverso sarebbe sciocco e forse persino sbagliato.
Insomma non è l’opera come la vorrei io, ma la rispetto.

Certo il protagonista Taras Shtonda è consumato mestierante che sa portare a casa scrittura e personaggio, così come gli altri due vecchi: il Pimen di Olesii Strizhak, che è in realtà un giovinetto, e il Šujskij di Eduard Srebnytski, ottantatreenne si dice (complimenti!). La coppia dei giovani, Vladyslav Goray (Grigorij) e Kateryna Tsimbaliuk (Marina), pensa più a cantare che a essere, ma se non altro entrambi hanno le qualità necessarie per farlo bene.



Quanto alle scelte editoriali, siamo in zona centone. Il Boris Godunov è una giungla di versioni e rimaneggiamenti e difficilmente se ne ascoltano due edizioni perfettamente sovrapponibili, però può essere utile avere una traccia di base per orientarsi.
La locandina parla di una fantomatica edizione 1872, seconda licenziata da Musorgskij, che tuttavia rimane solo a mo' di linea generale. C'è dentro un po' di Rimskij (l'impagabile chiusa bombastica del duettone di finto-amore, così meravigliosamente tamarra), un po' di 1869 (prima e originale versione dell'opera: il quadro di San Basilio che apre il Quarto atto arriva da lì) e, purtroppo, molti tagli.
Tagli non totalmente biasimevoli, considerando che l'obiettivo primario di chi mette in cantiere un'opera simile non è la filologia ma tenere sveglio e incollato alle poltrone il pubblico, cosa non banale in un repertorio ormai inusuale. Infatti molti dei pochi che hanno avuto l'ardire di presentarsi in sala sono fuggiti intervallo dopo intervallo.
Alla fine eravamo in quattro gatti, ma contenti.

7 febbraio 2020

Trevino-Baeva, una coppia che funziona

Mettere in piedi un gran concerto è relativamente semplice. Basta scegliere un’ottima orchestra, un direttore che la sappia tenere in pugno e abbia qualcosa da dire e, magari, anche un solista di alto profilo. Detto, fatto. D’altronde al Giovanni da Udine questo algoritmo elementare pare lo conoscano bene, visto che lì i grandi concerti sono più la regola che l’eccezione.

Alena Baeva, la “solista di alto profilo” del caso, non è una nuova conoscenza per il pubblico friulano, ma nel Concerto in re maggiore op. 77 per violino e orchestra di Johannes Brahms probabilmente è riuscita a ridefinire in positivo il ricordo che se ne aveva. Russa, classe ‘85, la Baeva è quella che si potrebbe definire una violinista “classica”, nel senso più nobile del termine. Ha un suono di bellezza canoviana, da gola sopranile, linea e intonazione apollinee, possesso assoluto di arco e tastiera e un’espressività un po’ buone maniere ma incantevole. Non è solista da graffi o arditezze, ma di dolcezza e ideale perfezione, che avvince con la purezza e l’eleganza del canto piuttosto che cercando di sorprendere a tutti i costi.



Anche Robert Trevino è un nome noto agli udinesi, questa volta però si presenta con un’orchestra tutta sua, la Malmö Symphony Orchestra, di cui dallo scorso anno è direttore principale. Dare conto di queste realtà baltiche è sempre a rischio retorica, però accidenti, sono orchestre meravigliose. E lo sono non certo per grazia divina, ma perché ci si investe e si lavora per portarle a livelli di eccellenza e dare loro un’identità. E molto spesso, come nel caso specifico, hanno anche un gran direttore che ne guida la crescita.

Robert Trevino, a dispetto dei suoi trentacinque anni, ha tutto ciò che si può chiedere a un maestro. Totale controllo dell’orchestra e della musica, fantasia – è sufficiente vedere come lavora certi temi in ripresa del violino nel concerto di Brahms – e un’energia esuberante. Ma Trevino non è solo carica dopaminica e urgenza. Sa cosa sono i colori e ha un’idea ad ampio respiro dello sviluppo musicale, basti ascoltare come monta il climax dinamico nell’Allegretto della Sinfonia n. 7 di Beethoven, o banalmente, l’impronta teatralissima che dà all’incipit. Dopo il La maggiore seccato dai timpani, gli oboi disegnano un tema che viene improvvisamente ammazzato da un colpo sul Mi maggiore, come una brusca calata di sipario. Il tema passa ai clarinetti mentre gli oboi vanno altrove, dunque tocca a un nuovo La maggiore ribaltare la scena: la tinta muta ancora, entrano flauti e corni, poi ecco un Re, come un colpo di scure che resetta tutto. E così via. Trevino “racconta” questi scarti timbrici e armonici esasperandone la differenza coloristica, quasi la musica procedesse per balzi di inquadratura da un’immagine all’altra a ritmi da videoclip, o mimasse un’infilata di diapositive. Impressionante.

Come stacca e porta in fondo il Quarto movimento poi è cosa da gran virtuoso. Non basta metterci un tempo bello svelto per dare tensione a un’esecuzione, bisogna saper articolare le linee, magari infondendoci un bel passo danzante, e il tutto va tenuto ritmicamente insieme e sostenuto, altrimenti la bolla si sgonfia. Trevino ne è capace e lo fa, accumulando elettricità in un crescendo parossistico che fa esplodere il pubblico.

Postilla per i curiosi. Pare che direttore e orchestra abbiano in programma la registrazione dell’integrale delle sinfonie di Beethoven, i cui lavori sono iniziati lo scorso autunno, per l’etichetta finlandese Ondine Records. Da mettere nella lista dei desideri.

6 febbraio 2020

Le due facce del Novecento russo

La storia dell'URSS è costellata di artisti epurati o costretti a scendere a patti con una realtà oppressiva. Qualcuno è riuscito a diventare un gigante convivendo col regime e schivandone le purghe, altri, molti altri, sono stati silenziati nei modi più atroci, altri ancora sono dovuti fuggire. Tra costoro c'era anche il nonno del violoncellista Steven Isserlis, Julius, che dalla Russia se ne partì come ambasciatore culturale nel 1922 per non farvi più ritorno. Tuttavia ci fu anche chi scelse la strada più sicura, forse per convenienza, forse per autentica fede. Dmitrij Kabalevskij era un compositore del regime. Prudentemente ancorato a un linguaggio noto e frusto, il giusto patriottico – il giusto secondo i criteri del partito, beninteso – comodo, sia politicamente che artisticamente. Non osò percorsi divergenti da quello che era il cosiddetto "realismo socialista", una sorta di allineamento alla tradizione russa più rassicurante e inquadrabile, produsse diverse opere celebrative, dalla Terza sinfonia in memoria di Lenin (1933) a una serie di canzoni patriottiche, ed ebbe una catterdra al Conservatorio di Mosca. Insomma era un uomo dell’establishment, si direbbe oggi. A ben guardare ebbe anch’egli qualche screzio col grande inquisitore della cultura Andrej Ždanov, il quale nel triennio postbellico inasprì il clima censorio (si parla del periodo 1946-48, detto l’età di Ždanov o Ždanovscina), ma le conoscenze ai piani alti gli salvarono vita e reputazione.

Non si vuole liquidare Kabalevskij come fosse uno sprovveduto, perché non lo era affatto. Fu un solido artigiano dell'arte, che oltre ad una serie di lavori apprezzabili si cimentò anche in territori extra-musicali e produsse diversi programmi educativi per l’infanzia.



Sergej Prokof’ev invece stava sull'altra sponda del fiume, quella dei compositori sulla cui testa pendeva la lama del formalismo, una generica etichetta in cui si racchiudeva tutto ciò che spiaceva alla propaganda di partito, dall’individualismo al pessimismo, dal modernismo al rifiuto dell’eredità classica e popolare dell’arte. Il destino beffardo gli riservò la morte il 5 marzo del 1953, lo stesso giorno in cui si spegneva Stalin, così che il mondo quasi non se ne accorse.

Venendo al concerto di cui si riferisce, c'è un terzo nome in gioco. Leos Janáček apparteneva alla generazione precedente, quella di Strauss e Puccini, e per sua fortuna non dovette mai conoscere l'epoca in cui la sua Repubblica Ceca fu assoggettata all’influenza sovietica. Si spense nel ‘28 a Ostrava, cittadina della Moravia-Slesia la cui orchestra oggi porta il suo nome: Janáček Philharmonic Ostrava. Si parte proprio dal lui, con il Preludio alla sua opera estrema e postuma “Da una casa di morti” (Z mrtvého domu).

Come si accennava, anche Steven Isserlis ha origini russe, pur essendo britannico di nascita e formazione. Impostosi per virtuosismo e per il colore caratteristico del suo suono, è uno dei violoncellisti più celebri degli ultimi decenni, nonché interprete riconosciuto di quella che è forse l'opera più eseguita di Kabalevskij, il Concerto per violoncello e orchestra n.2 op. 77, e se ne comprendono le ragioni. Isserlis manovra il violoncello da ventriloquo, gli fa dire quel che vuole, lo fa parlare, piangere, belare, balza dal sussurro al grido, dal canto al graffio. Il suono è a tratti quasi acido, scorbutico, su una base vagamente nasale. Non è un violoncello dalla grande cavata il suo, non ha un timbro voluttuoso, ma esprime: è uno strumento che veicola un pensiero, anche in un concerto, quello di Kabalevskij, che di argomenti non ne ha poi troppi.

Le redini del concerto sono in mano a Dimitrij Jurowskij, il più giovane esponente di quella Jurowskij-family che, discendendo tramite l'intermedio Michail dal compositore Vladimir Mikhailovich Jurowskij, ha prodotto uno dei direttori più interessanti in circolazione, Vladimir (come il nonno), e appunto Dimitrij, suo fratello minore. Il quale Dimitrij sa come si dirige un'orchestra. Se in Kabalevskij sostanzialmente si preoccupa di accompagnare senza sopraffare il solista, che non produce mai un suono “grande”, in Prokof’ev dice la sua. Non è una Quinta che punge, ma tutta smussata e morbida, sostanzialmente lirica. Nessun isterismo, niente nevrosi, ma una lettura improntata a un’ironica leggerezza, in cui fluidità e cura del suono inteso come prodotto di una fine concertazione sono la cifra costitutiva. Sin dall’Andante iniziale Jurowskij non aggredisce ma blandisce e così procede, senza scudisciate né colpi di machete, ma addolcendo e lasciando che sia la musica a “parlare”, senza sottintesi.

Il gioco gli riesce senza rischi di monocromia o monotonia perché la Janáček Philharmonic è una signora orchestra, equilibrata, di bella pasta ben bilanciata tra corposità e trasparenza, precisissima per intonazione e struttura.

Pubblico sparuto (tutti a casa a guardare Sanremo?) ma festoso.

27 gennaio 2020

Nella mente di Barbablù

L'idea di Fabio Ceresa è intrigante: Judit è la resa dei conti di Barbablù; banalizzando il concetto al massimo, è una sorta di estremo confessore. Per questo arriva alla fine di tutte a regolare le faccende aperte, una dopo l'altra, nella notte nera ed eterna. Esegesi che veste a mo' di guanto al simbolismo sgusciante in cui Béla Balázs immerge Perrault.
Ma regge alla prova del palco? In linea di massima sì. Che Ceresa sappia lavorare su e con i cantanti è palese, perché la sua è una regia fine e ricercata, che scava e lima il piccolo gesto. D’altronde non è cosa ostica quando si ha a che fare con due animali da palcoscenico come Ausrine Stundyte e Gidon Saks, artista a tutto tondo lei, cui scappa qualche nota ma mai il senso di ciò che fa, gran carisma e voce di cuoio lui.
Le porte che Judit apre sono dunque i cassetti della memoria del marito, sono viaggi dolorosi nella mente di lui, che rivede e rivive fasi sepolte del suo passato. Quelle che vorrebbe dimenticare, quelle da portarsi, quelle che l’hanno formato e così via.



Quel che invece regge meno sono le scene di Massimo Checchetto, che non sono né brutte né belle, ma lasciano l'impressione di un "vorrei ma non posso". Se si punta sull'eccesso, sulla dovizia, sullo sfarzo iper-kitsch, bisogna che i mezzi lo consentano, altrimenti si rimane in un quel limbo di chi, siccome non può essere principe, ci si veste a Carnevale. Not the same.

Niente da eccepire invece per quanto attiene all'esecuzione musicale. Diego Matheuz, che torna in quella che fu la "sua" Fenice a distanza di qualche anno, tiene insieme i pezzi e la racconta decisamente bene, senza grandi finezze ma con una bella tensione narrativa e varietà dinamica. L'orchestra non è in modalità suono-baciato-dal-dio-Chung ma è nitida, ben equilibrata e non sbava praticamente mai.

A preludiare all’unicum operistico di Béla Bartók c’è A Hand of Bridge, l’opera più corta del mondo. Già in scena Saks e Stundyte, commovente nel suo momento solistico, accanto a un buon Christopher Lemmings e a una Manuela Custer meno convincente del solito.

21 gennaio 2020

Beethoven 2020

Che in Germania ci siano alcune delle orchestre più prestigiose al mondo non è un caso, né lo sarà in futuro. La tradizione va coltivata e tramandata, bisogna che ci siano dei figli pronti a farsi carico di quanto i padri hanno ereditato dai nonni e, siatene certi, ci sono. Alcuni di loro siedono ai leggii della Bundesjugendorchester, una formazione giovanile – lo dicono i documenti di identità, non l'udito – composta dalla meglio gioventù tedesca, quella che di qui a qualche anno costituirà i rincalzi delle varie Filarmonica di Berlino, Staatskapelle di Dresda, BRSO e via dicendo.

Un'istituzione che porta sulle spalle una simile eredità non poteva che aprire il 2020 omaggiando Beethoven, nell'anno del duecentocinquantesimo anniversario dalla nascita. Il progetto Beethoven 2020, che arriva eccezionalmente in doppia data al Giovanni da Udine – dove si è replicato lunedì 20 per le scuole: i giovani per i giovani – coniuga una delle sinfonie più celebri in assoluto, la Quinta, all'Ouverture del Fidelio, inframezzate da due brani contemporanei o quasi, ispirati allo stesso Ludwig. Il primo, Tenebrae di Klaus Huber, è diretta emanazione di quegli anni Sessanta in cui nasce, portandone il carattere avanguardista, non completamente svincolato dalla lezione dei grandi compositori precedenti. È un lavoro molto pensato, di quelli che in certe aree culturali avrebbero potuto bollare di formalismo. Il secondo lavoro, Rush per grande orchestra e live electronics, è una nuova commissione a firma di Sergej Maingardt. Seppur frammentario nella scrittura, colpisce soprattutto per la sua natura crossover tra il sinfonismo più tradizionale e la musica elettronica, giovandosi di un ventaglio di effettistica digitale che adultera e deforma la natura stessa dei suoni, oltre all’adozione di strumenti generalmente alieni al repertorio orchestrale, come fisarmonica e chitarra elettrica.

Come accade spesso, l'accoppiata giovane orchestra/vecchio maestro funziona a meraviglia, quasi le due componenti riuscissero a infondersi reciprocamente le virtù mancanti, l'esperienza da un lato, il furore della giovinezza dall'altro. Lothar Zagrosek è quel che si definirebbe, con accezione tutt'altro che negativa, un Kapellmeister. Solido, esperto, enciclopedico, affidabile. Laddove all'affidabilità si attribuiscono pregi e il solo limite di non discostarsi dall’alveo del già sentito. Zagrosek non fa dunque un Beethoven rivelatore, ma piacevolissimo e ben lavorato, insomma conosce i ferri del mestiere. Concerta con puntiglio, nel duplice Beethoven schiva i rischi di secchezza e pesantezza, pur trovandosi di fronte un’orchestra molto “tedesca” nel suono, bello corpulento da “panzer”. Ne cava un’ottima varietà dinamica, amalgama equilibrato che si mangia giusto le frequenze di mezzo nei momenti più infuocati, ed è ancor più virtuoso nel tenere insieme i pezzi nel territorio contemporaneo, che ha organico ben più nutrito e scrittura tecnicamente assai complessa. Qualche sbavatura di rodaggio scappa via solo nel Fidelio.

Successo caloroso.

18 gennaio 2020

Lucrezia Borgia al Verdi di Trieste

La vittoria è doppia. Non capita spesso al Verdi di Trieste di vedere uno spettacolo con una regia degna di tal nome e tutto sommato non capita così di frequente nemmeno per Donizetti in senso lato, almeno per il Donizetti serio. Si è detto e ripetuto mille volte: la struttura a numeri chiusi del belcanto è da grattacapi per qualsiasi regista che voglia emancipare il proprio mestiere da quello di spartitraffico e dare vita a quel meraviglioso teatro di burattini, non raramente di legno, che è l’opera italiana. Ambo, quindi. Perché la Lucrezia Borgia nata sotto la buona stella del Donizetti Festival dalla giovane ma tutt'altro che ingenua mano di Andrea Bernard è uno spettacolo vero. Anche se nel tragitto che separa Lombardia e Venezia-Giulia ha cambiato pelle, passando dall'edizione critica "da festival" alla più rassicurante (e forse, detto sommessamente, più piacevole) versione tradizionale.

Lucrezia Borgia al Teatro Verdi di Trieste


Rimane fortunatamente Carmela Remigio, che è una signora protagonista e che in questo allestimento, nato con e per lei, ci sta benissimo. Ha le note, il temperamento, l'ambiguità, la personalità necessari a reggere un personaggio così complesso e sfuggente, ne ha la sensibilità, insomma è il genere di artista che in questo belcantismo imbevuto di romanticismo ci sguazza.

E soprattutto ha il dinamismo per portare sulle spalle uno spettacolo in cui appunto di regia ce n'è parecchia. Attenzione, regia, lo ripeto a beneficio di chi ancora non l'abbia capito, che non è sinonimo di scenografia, né di coreografia (capita di sentire anche questo, ahinoi). Regia dunque, a tratti un po' sopra le righe, a tratti splatter e iperviolenta – forse un po' troppo, ma non perché la violenza nella Borgia non ci stia, tutt'altro, ma perché per far passare un concetto non è necessario sottolinearlo tre volte – ma forte, coerente e ben condotta. Recitano i solisti, recitano le comparse, recita persino il coro. Cosa abbia spinto qualche loggionista a muggire non è ben chiaro, o forse lo è fin troppo: questa Borgia è una produzione da 2020 e non da 1920. È teatro, in sostanza. Finalmente!



Benissimo anche il Gennaro di Stefan Pop, che ha voce, tecnica, stile, e in fin dei conti anche una discreta disinvoltura nella recitazione. Elenco puntato che può essere trasportato pari pari all'Alfonso di Dongho Kim, bel timbro bass-baritonale bronzeo e ottima caratterizzazione.
Brava-brava anche Cecilia Molinari che fa un Maffio pugnace e lambiccato, un po' donnaiolo e un po' gay, che alla disinvoltura in scena accoppia una linea di canto limpida e, pur con un volume non debordante, molto elegante.

Convince il Rustighello di Andrea Schifaudo. I comprimari sono tanti e tutti all’altezza. Mi piace segnalare Giovanni Palumbo, perché fa di Astolfo quello che mi aspetterei sempre da una parte minore: un personaggio. Ecco, io i comprimari li vorrei sempre tutti così.

Regge le fila onestamente ma senza troppa fantasia Roberto Gianola, che tiene il palco al meglio e concerta discretamente ma racconta poco, un po' perché di guizzi musicali non se ne ascoltano, un po' per la piattezza del ventaglio dinamico. In buona forma il coro preparato da Francesca Tosi, mentre l'orchestra di casa ha visto serate migliori.

Teatro non pienissimo ma più caloroso del solito, soprattutto durante la recita.

2 gennaio 2020

Don Giovanni chiude il Diciannove al Verdi di Padova

Di Donn’Anne cui non dispiace troppo essere “sforzate” da Don Giovanni ormai ne abbiamo viste a bizzeffe, d’altronde l’inafferrabile ambiguità su cui regge quest’opera si presta a soluzioni d’ogni sorta, anzi, le incoraggia. Il problema di tali deragliamenti è condurli con coerenza, o almeno attenuando le contraddizioni il più possibile, cosa che Paolo Giani Cei, almeno nel caso specifico, riesce a fare. Anche perché la sua Anna, Ekaterina Bakanova, è un’artista vera. Dopo essere passata per le mani di Giovanni, il suo Ottavio uomo-beta-che-più-beta-non-si-può le suscita quasi disgusto. Lui ci prova a rassicurarla, a farsi amare, “hai sposo e padre in me” le dice, lei lo guarda con la commiserazione di chi pensa “ma cosa sta blaterando questo cretino?”. Poi, quando capisce che Giovanni fa così con tutte e lei è solo una delle tante, parte la vendetta: decide di "denunciare" le sue malefatte pubblicamente, appellandosi al senso della giustizia del futuro (chissà...) sposo, con una sceneggiata cui può credere solo un tonto simile.

Foto di Giuliano Ghiraldini

Per il resto di interessante nello spettacolo in scena al Teatro Verdi di Padova non c’è molto. Scene a tendaggio di gusto e ispirazione tradizionalissima, coro e mimi dalle movenze felpate che oliano e punteggiano l’azione, o almeno ci provano, e il sesso, sesso vuoto e coattivo, piazzato a trazione del tutto. Così il finale primo ruota attorno a un lettone sotto le cui coperte Giovanni fa di Zerlina quel che si suole fare sotto le coperte, mentre la mensa del secondo atto è apparecchiata a donne distese su un tavolone e pronte a essere delibate ad una ad una, non fosse che tra loro c’è anche Elvira, che un po’ rimbrotta e un po’ gradisce.

Purtroppo non arrivano grandi idee dalla buca, dove Jordi Bernàcer tira dritto senza curarsi troppo della dinamica e dello sviluppo musicale, ma si limita a dosare equilibri interni e tenere il palco, che pur di tanto in tanto gli sfugge di mano. Il problema è che Mozart, a eseguirlo soltanto senza metterci del proprio, lo si seda. Ci si chiede poi il perché di certe scelte metronomiche, soprattutto nella seconda aria di Elvira, staccata con un tempo forsennato che la priva d'ogni patetismo, fino a renderla un frigido esercizio di virtuosismo vocale. Per il resto l’Orchestra di Padova e del Veneto si comporta decisamente bene, compatta e pulita, senza sbavature né inciampi.

Andrei Bondarenko è un protagonista ancora in cerca del suo personaggio. Benché la voce sia duttile e di bel colore, tendenzialmente chiaro rispetto alla corda e all’estensione, al basso-baritono manca ancora una padronanza più rifinita della parte, sia nella caratterizzazione scenica, sia nel dominio della parola.

Il Leporello di Mirco Palazzi ha dalla sua soprattutto l’eleganza della linea e l’uniformità della voce, che sale e scende senza colpo ferire, ma manca, nel contesto specifico, di una cifra più definita e personale, ma forse è proprio il regista che non sa bene cosa farsene di questo personaggio borderline, difficilmente inquadrabile nella seriosità generale del disegno.

Si è già fatto cenno di Ekaterina Bakanova, che è attrice e cantante al pari livello. Si mangia il palco, è musicalmente irreprensibile e soprattutto non spreca una parola né una nota. Chiaramente, come tutte le Anne di ascendenza più lirica che drammatica, l’aria del secondo atto riesce ben più travolgente della prima.

Anastasia Bartoli sorprende per l’ottima qualità del canto, per la rotondità dello strumento e il legato. La parte va ancora un po’ maturata in termini di personalità e confidenza, soprattutto nelle sfumature e nei piccoli dettagli, ma le premesse sono ottime.

Andrei Danilov è un Ottavio di bel timbro e ottimo controllo del fiato, che però deve sistemare un po’ l’intonazione e soprattutto evitare certe cafonate come l’acuto finale posto a chiusura de “Il mio tesoro intanto”. Michela Antenucci è una Zerlina il giusto ambigua e naive, ma anche con ottime carte da giocare sul versante vocale.

Positiva la prova di Daniel Giulianini, Masetto solido e ben calato nella parte. Al solito affidabilissimo Abramo Rosalen, che ha molta voce da offrire alla parte del Commendatore. All’altezza della situazione anche il Coro Lirico Veneto, ben preparato da Matteo Valbusa.

Buon successo per tutta la compagnia a fine spettacolo.