12 gennaio 2014

Un Ballo in Maschera inaugura la stagione del Verdi di Trieste

Recensione – Spetta a Un Ballo in Maschera, capolavoro verdiano tra i più celebri, inaugurare la stagione 2014 di opera e balletto del teatro Verdi di Trieste. Opera del “Verdi di mezzo” già decisamente proiettata verso quella che sarà l’evoluzione definitiva del linguaggio musicale del compositore, Un Ballo in Maschera è un lavoro di avvincente complessità che, quasi parallelamente alla vicenda privata del musicista, prende in analisi i rapporti pubblici e privati dell’uomo di successo in un’età matura, ne esplora le dinamiche e i risvolti giungendo a vertici di profondità e ambiguità che hanno pochi confronti nel repertorio operistico italiano.



L’allestimento, con le scene di Pierluigi Samaritani e la regia di Massimo Gasparon è quanto di più tradizionale si possa immaginare, sia nell’impostazione drammaturgica che ricalca passo passo i dettami del libretto, sia nella delineazione dei caratteri e della recitazione. Le belle scenografie (non molto valorizzate dal disegno luci di Andrea Borelli) hanno l’allure malinconica dei tempi andati e di quel teatro d’opera che faceva di uno sfarzoso decorativismo il proprio fulcro, lasciando al lavoro di regia su singoli e masse un ruolo di complemento quasi marginale. Lo spettacolo insomma ricorda da vicino i grandi classici del teatro lirico d’antan,  i vecchi  “Balli” di Schenk, Moshinsky o Schlesinger, con la sostanziale differenza dei mezzi piuttosto che del gusto. Similmente i costumi, sfarzosi e oggettivamente molto belli, trovavano la loro unica ragione d’essere in questa logica estetica che sottomette alla gradevolezza formale ogni ragione teatrale. È una concezione del teatro che ha evidentemente dei pregi, su tutti l’appagamento dell’occhio, ma che pure a qualcosa deve rinunciare, spesso l’approfondimento delle dinamiche psicologiche e drammatiche dei personaggi.

Allo stesso modo, sul solco della tradizione più rassicurante, gli artisti impegnati in scena non si lanciavano alla ricerca di chissà quali orizzonti inesplorati ma riproponevano il Ballo in Maschera che si è sempre visto e ascoltato, ognuno secondo le proprie possibilità.

Gianluca Terranova, nei panni di Riccardo, forniva una prova complessivamente positiva. Il tenore ha voce di bel timbro, buon volume e padroneggia con discreta sicurezza tutta l’estensione che la parte richiede. Il Riccardo di Terranova è convenzionale nell’interpretazione, tipicamente mediterranea per estroversione e calore, più epidermica che tormentata. C’è qualche imperfezione nella musicalità ma la prestazione complessivamente convince.
Alterna la prova del soprano Rachele Stanisci che, pur non avendo voce baciata dalla natura, riusciva a venire a capo dell’insidiosa parte di Amelia. Dopo un inizio problematico la cantate ha offerto un buon secondo atto mentre nel terzo si è sentito qualche segno di affaticamento. A dispetto di alcune tensioni in acuto e di qualche problema nella gestione dei fiati, la prova del soprano piaceva per temperamento e personalità.
Aris Argiris, chiamato a sostituire David Cecconi, era un Renato poco incline alle sottigliezze ma con tanta voce. Il baritono esibiva uno strumento vocale di bel timbro, qualche durezza in acuto (soprattutto nell’insidiosa aria del terzo atto) ma buona presenza scenica e gusto sobrio. Non irreprensibile l’Oscar di Sandra Pastrana, vivace e brillante ma musicalmente non precisissima. L’Ulrica di Mariana Pentcheva vantava voce ampia e sonora, acuti e gusto perfettibili.
Molto buone tutte le parti minori: Dario Giorgelè (Silvano), Gianpiero Ruggeri (Samuel), Giacomo Selicato (Tom), Dax Velenich (Un giudice) e Roberto Miani (Servo di Amelia).

Sul podio di un’orchestra in splendida forma (al pari del coro), Gianluigi Gelmetti dirigeva con buon gusto e sano pragmatismo sostenendo al meglio il palcoscenico con volumi sorvegliati e passo svelto. Va ravvisata una certa cautela che ha sottratto qualcosa in fatto di mordente e forza teatrale alla pur buona direzione del maestro.

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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1 gennaio 2014

Concerto di Capodanno 2014 al Teatro La Fenice

A un decennio dalla riapertura del Teatro La Fenice, possiamo ormai ritenere una tradizione consolidata il concerto con cui Venezia saluta il nuovo anno. Ad accogliere il 2014, Diego Matheuz, direttore principale dell’orchestra, saliva sul podio del “suo” teatro con un programma accattivante che mescolava vette della produzione musicale a brani celebri presso il grande pubblico. In fondo non ci sono molti dubbi sul fatto che il concertone di capodanno sia diventato – ma forse lo è sempre stato – un evento più mondano che culturale, una celebrazione un po’ ruffiana e un po’ popolare di un’identità nazionale che probabilmente neppure esiste ma che è tanto bello rispolverare di tanto in tanto.



La musica però c’era e in buona parte dei casi si trattava di musica di eccellente qualità. Apriva il concerto la Sinfonia n.7 in la maggiore, op. 92 di Beethoven; diciamo subito che la prova del direttore, alle prese con questo pilastro del repertorio, convinceva a metà. Matheuz sapeva trarre dall’orchestra suono di grande bellezza e morbidezza, ineccepibile pulizia e precisione. Lasciavano invece diverse perplessità la trascuratezza del fraseggio, certi squilibri tra le sezioni (archi troppo invadenti) soprattutto nel primo movimento, l’eccessiva compattezza dei forti a scapito della trasparenza. Piaceva l’allegretto, benché un po’ troppo solfeggiato, per cura del colore e delicatezza. Dopo un presto ordinario ma corretto, il quarto movimento dava perfettamente conto delle abilità di Matheuz, capace di alternare lampi di genio (certi guizzi dinamici con gli archi o certe sottolineature), a passaggi di buona routine, formalmente lucida e coerente ma pur sempre routine. Una settima in fin dei conti corretta ma indifferente, troppo rigida e spenta.

La seconda parte di concerto comprendeva la consueta rassegna di arie d’opera e brani orchestrali, ormai celebre presso il grande pubblico grazie alla tradizionale diretta televisiva di Raiuno. Protagonisti, accanto al maestro venezuelano e alle compagini del teatro, il soprano Carmen Giannattasio e il tenore Lawrence Brownlee. Bella voce di lirico pieno lei, capace di affrontare brani del grande repertorio con discreta sicurezza, non molta fantasia e solida professionalità, piccina invece quella di lui, notoriamente avvezzo ad un repertorio leggero, ma al servizio di ottima musicalità e tecnica. La Giannattasio pareva trovarsi meglio in territorio pucciniano, nelle passioni accese del Vissi d’arte, piuttosto che tra le linee melodiche del Bellini di Casta Diva (poco aiutata da un Matheuz troppo trattenuto). Brownlee compilava un’ottima Furtiva lagrima, fraseggiata con cura e ben cantata, mentre naufragava nella Mattinata di Leoncavallo, in debito di volume rispetto all’orchestra.

Ancora alterno Matheuz, capace di un allegro vivace dall’overture del Guglielmo Tell di Rossini brillantissimo e coinvolgente come di un emozionante Va pensiero (con una maiuscola prestazione del coro) ma anche troppo ingessato e rigido nell’accompagnamento al canto. Chiudeva il concerto il tradizionale brindisi dal primo atto di Traviata, tra l’entusiasmo del pubblico in sala e battimani ritmati in odore di Vienna.