29 aprile 2021

Note su note: Tod und Verklärung, Don Juan, Sechs Lieder, Op. 68

Robin Ticciati si rivelò al mondo come straussiano di talento in un Rosenkavalier che diresse a Glyndebourne qualche anno fa, appena trentenne. Nel frattempo è cresciuto e quell’inclinazione che allora si intravedeva espressa solo in parte sta giungendo, passo dopo passo, a piena maturazione. 


Il pot-pourri sinfonico-liederistico monografico registrato per Outhere music nel 2019 è la quinta incisione del direttore sul podio della “sua” Deutsche Symphonie-Orchester di Berlino, formazione che per caratteristiche timbrico-espressive pare adattarsi alla perfezione all’intenzione di proporre uno Strauss meno pomposo e vellutato di quanto voglia certa tradizione mitteleuropea, ma inquieto e tagliente, in cui la trasparenza della concertazione e la razionalità dell’analisi sono vivificate da un incedere rapsodico in continuo fermento. Ne emergono delle letture a tinte sgargianti, in cui Ticciati esalta il virtuosismo e la frammentarietà della scrittura caratterizzando ogni tema, ogni cellula melodica o ritmica di una tensione diversa, con l’abilità di ricondurre tanta vulcanica inventiva a una sintesi coerente. Se si parla di opere abusate dalla sala di registrazione come Don Juan o Tod und Verklärung, non è affatto banale aggiungere la propria voce a una discografia affollatissima realizzando un prodotto originale. Ebbene, questo lo è senz’altro. Meno frequentati sono invece i Sechs Lieder, affidati alla voce di Louise Adler, lirico leggero dalla musicalità sopraffina e dalla voce flessibile e luminosa, ancorché meno doviziosa di colori di quanto richiederebbe il genere.


27 aprile 2021

Argerich e Ntokou: Beethoven Symphony No. 6 & Piano Sonata No. 17

Le trascrizioni per pianoforte dei grandi lavori sinfonici hanno spesso il merito di svelarne, già all’ascolto più superficiale, la complessità d’inventiva e l’organizzazione, poiché la privazione delle alchimie timbriche e della ripartizione tra le diverse voci orchestrali rende immediatamente intelligibile il processo di costruzione e lo sviluppo delle cellule tematiche. L’effetto è pressappoco quello di una radiografia in cui ogni elemento organico viene ridotto a diverse gradazioni di grigio.




Certo quando queste versioni in sedicesimo nacquero avevano il ben più umile proposito di diffondere le composizioni per orchestra nelle realtà più piccole piuttosto che arricchire l’esegesi delle stesse. Eppure, benché oggi tradiscano un certo anacronismo, le trascrizioni si rivelano molto più interessanti di quanto si possa immaginare, e non solo per il loro valore di testimonianza storica.

È un “effetto sorpresa” che suscita anche la Pastorale di Beethoven da poco uscita per Warner Classics, che, trasposta sulle quattro mani della versione di Selmar Bagge, certamente perde qualcosa del suo clima bucolico, ma svela tutta la sapienza del compositore tedesco nell’elaborazione del materiale. Una riduzione-calco che non ha la pretesa di mettere in vetrina il virtuosismo pianistico degli interpreti, ma di stampare una copia carbone il più fedele possibile all’originale.

Sarebbe tuttavia ingeneroso lasciar passare l’idea che il lavoro di cui si dà conto, ennesimo ottimo prodotto dell’anno beethoveniano appena concluso, sia una sorta di esercizio d’accademia o compromesso al ribasso. Innanzitutto per le ragioni sopra esposte, che si possono per brevità ricondurre alla possibilità di osservare un caposaldo del repertorio da un’ottica inedita e per certi versi illuminante. In seconda battuta perché due delle quattro mani in azione sono quelle di Martha Argerich, che oltre ad essere il solito prodigio di “meccanica pianistica” in termini di tocco, colore e tecnica, sa trattare il discorso musicale con la grazia e la liberà di pennellata della grande interprete, plasmando la frase con un’espressività romantica che non contrasta affatto con l’accuratezza dell’analisi, anzi, la enfatizza,.

Al suo fianco la giovane pianista greca Theodosia Ntokou parla il medesimo linguaggio ma soprattutto condivide con Argerich una visione comune dell’opera, il che assicura omogeneità e compattezza all’esecuzione.

È Ntokou a farsi carico anche della Sonata per pianoforte in re minore n. 17, nota come "La Tempesta", che chiude il disco. Scelta peculiare ma sensata se la si inquadra nell’ottica in cui nascono molti dei prodotti discografici odierni per debuttanti o artisti in rampa di lancio: fornire un ritratto il più dettagliato possibile delle qualità e della visione di un interprete, in questo caso spese su diverse declinazioni del medesimo autore.

Ntokou ne dà una lettura molto irruente e decisa, sia nel carattere che nel suono. Non c’è forse quella fantasia sapiente che si apprezza nella nella Pastorale a quattro mani, né la stessa morbidezza, ma un approccio energico e secco, giocato più sui contrasti dinamici e la chiarezza di scansione che sulle sfumature.