27 gennaio 2020

Nella mente di Barbablù

L'idea di Fabio Ceresa è intrigante: Judit è la resa dei conti di Barbablù; banalizzando il concetto al massimo, è una sorta di estremo confessore. Per questo arriva alla fine di tutte a regolare le faccende aperte, una dopo l'altra, nella notte nera ed eterna. Esegesi che veste a mo' di guanto al simbolismo sgusciante in cui Béla Balázs immerge Perrault.
Ma regge alla prova del palco? In linea di massima sì. Che Ceresa sappia lavorare su e con i cantanti è palese, perché la sua è una regia fine e ricercata, che scava e lima il piccolo gesto. D’altronde non è cosa ostica quando si ha a che fare con due animali da palcoscenico come Ausrine Stundyte e Gidon Saks, artista a tutto tondo lei, cui scappa qualche nota ma mai il senso di ciò che fa, gran carisma e voce di cuoio lui.
Le porte che Judit apre sono dunque i cassetti della memoria del marito, sono viaggi dolorosi nella mente di lui, che rivede e rivive fasi sepolte del suo passato. Quelle che vorrebbe dimenticare, quelle da portarsi, quelle che l’hanno formato e così via.



Quel che invece regge meno sono le scene di Massimo Checchetto, che non sono né brutte né belle, ma lasciano l'impressione di un "vorrei ma non posso". Se si punta sull'eccesso, sulla dovizia, sullo sfarzo iper-kitsch, bisogna che i mezzi lo consentano, altrimenti si rimane in un quel limbo di chi, siccome non può essere principe, ci si veste a Carnevale. Not the same.

Niente da eccepire invece per quanto attiene all'esecuzione musicale. Diego Matheuz, che torna in quella che fu la "sua" Fenice a distanza di qualche anno, tiene insieme i pezzi e la racconta decisamente bene, senza grandi finezze ma con una bella tensione narrativa e varietà dinamica. L'orchestra non è in modalità suono-baciato-dal-dio-Chung ma è nitida, ben equilibrata e non sbava praticamente mai.

A preludiare all’unicum operistico di Béla Bartók c’è A Hand of Bridge, l’opera più corta del mondo. Già in scena Saks e Stundyte, commovente nel suo momento solistico, accanto a un buon Christopher Lemmings e a una Manuela Custer meno convincente del solito.

21 gennaio 2020

Beethoven 2020

Che in Germania ci siano alcune delle orchestre più prestigiose al mondo non è un caso, né lo sarà in futuro. La tradizione va coltivata e tramandata, bisogna che ci siano dei figli pronti a farsi carico di quanto i padri hanno ereditato dai nonni e, siatene certi, ci sono. Alcuni di loro siedono ai leggii della Bundesjugendorchester, una formazione giovanile – lo dicono i documenti di identità, non l'udito – composta dalla meglio gioventù tedesca, quella che di qui a qualche anno costituirà i rincalzi delle varie Filarmonica di Berlino, Staatskapelle di Dresda, BRSO e via dicendo.

Un'istituzione che porta sulle spalle una simile eredità non poteva che aprire il 2020 omaggiando Beethoven, nell'anno del duecentocinquantesimo anniversario dalla nascita. Il progetto Beethoven 2020, che arriva eccezionalmente in doppia data al Giovanni da Udine – dove si è replicato lunedì 20 per le scuole: i giovani per i giovani – coniuga una delle sinfonie più celebri in assoluto, la Quinta, all'Ouverture del Fidelio, inframezzate da due brani contemporanei o quasi, ispirati allo stesso Ludwig. Il primo, Tenebrae di Klaus Huber, è diretta emanazione di quegli anni Sessanta in cui nasce, portandone il carattere avanguardista, non completamente svincolato dalla lezione dei grandi compositori precedenti. È un lavoro molto pensato, di quelli che in certe aree culturali avrebbero potuto bollare di formalismo. Il secondo lavoro, Rush per grande orchestra e live electronics, è una nuova commissione a firma di Sergej Maingardt. Seppur frammentario nella scrittura, colpisce soprattutto per la sua natura crossover tra il sinfonismo più tradizionale e la musica elettronica, giovandosi di un ventaglio di effettistica digitale che adultera e deforma la natura stessa dei suoni, oltre all’adozione di strumenti generalmente alieni al repertorio orchestrale, come fisarmonica e chitarra elettrica.

Come accade spesso, l'accoppiata giovane orchestra/vecchio maestro funziona a meraviglia, quasi le due componenti riuscissero a infondersi reciprocamente le virtù mancanti, l'esperienza da un lato, il furore della giovinezza dall'altro. Lothar Zagrosek è quel che si definirebbe, con accezione tutt'altro che negativa, un Kapellmeister. Solido, esperto, enciclopedico, affidabile. Laddove all'affidabilità si attribuiscono pregi e il solo limite di non discostarsi dall’alveo del già sentito. Zagrosek non fa dunque un Beethoven rivelatore, ma piacevolissimo e ben lavorato, insomma conosce i ferri del mestiere. Concerta con puntiglio, nel duplice Beethoven schiva i rischi di secchezza e pesantezza, pur trovandosi di fronte un’orchestra molto “tedesca” nel suono, bello corpulento da “panzer”. Ne cava un’ottima varietà dinamica, amalgama equilibrato che si mangia giusto le frequenze di mezzo nei momenti più infuocati, ed è ancor più virtuoso nel tenere insieme i pezzi nel territorio contemporaneo, che ha organico ben più nutrito e scrittura tecnicamente assai complessa. Qualche sbavatura di rodaggio scappa via solo nel Fidelio.

Successo caloroso.

18 gennaio 2020

Lucrezia Borgia al Verdi di Trieste

La vittoria è doppia. Non capita spesso al Verdi di Trieste di vedere uno spettacolo con una regia degna di tal nome e tutto sommato non capita così di frequente nemmeno per Donizetti in senso lato, almeno per il Donizetti serio. Si è detto e ripetuto mille volte: la struttura a numeri chiusi del belcanto è da grattacapi per qualsiasi regista che voglia emancipare il proprio mestiere da quello di spartitraffico e dare vita a quel meraviglioso teatro di burattini, non raramente di legno, che è l’opera italiana. Ambo, quindi. Perché la Lucrezia Borgia nata sotto la buona stella del Donizetti Festival dalla giovane ma tutt'altro che ingenua mano di Andrea Bernard è uno spettacolo vero. Anche se nel tragitto che separa Lombardia e Venezia-Giulia ha cambiato pelle, passando dall'edizione critica "da festival" alla più rassicurante (e forse, detto sommessamente, più piacevole) versione tradizionale.

Lucrezia Borgia al Teatro Verdi di Trieste


Rimane fortunatamente Carmela Remigio, che è una signora protagonista e che in questo allestimento, nato con e per lei, ci sta benissimo. Ha le note, il temperamento, l'ambiguità, la personalità necessari a reggere un personaggio così complesso e sfuggente, ne ha la sensibilità, insomma è il genere di artista che in questo belcantismo imbevuto di romanticismo ci sguazza.

E soprattutto ha il dinamismo per portare sulle spalle uno spettacolo in cui appunto di regia ce n'è parecchia. Attenzione, regia, lo ripeto a beneficio di chi ancora non l'abbia capito, che non è sinonimo di scenografia, né di coreografia (capita di sentire anche questo, ahinoi). Regia dunque, a tratti un po' sopra le righe, a tratti splatter e iperviolenta – forse un po' troppo, ma non perché la violenza nella Borgia non ci stia, tutt'altro, ma perché per far passare un concetto non è necessario sottolinearlo tre volte – ma forte, coerente e ben condotta. Recitano i solisti, recitano le comparse, recita persino il coro. Cosa abbia spinto qualche loggionista a muggire non è ben chiaro, o forse lo è fin troppo: questa Borgia è una produzione da 2020 e non da 1920. È teatro, in sostanza. Finalmente!



Benissimo anche il Gennaro di Stefan Pop, che ha voce, tecnica, stile, e in fin dei conti anche una discreta disinvoltura nella recitazione. Elenco puntato che può essere trasportato pari pari all'Alfonso di Dongho Kim, bel timbro bass-baritonale bronzeo e ottima caratterizzazione.
Brava-brava anche Cecilia Molinari che fa un Maffio pugnace e lambiccato, un po' donnaiolo e un po' gay, che alla disinvoltura in scena accoppia una linea di canto limpida e, pur con un volume non debordante, molto elegante.

Convince il Rustighello di Andrea Schifaudo. I comprimari sono tanti e tutti all’altezza. Mi piace segnalare Giovanni Palumbo, perché fa di Astolfo quello che mi aspetterei sempre da una parte minore: un personaggio. Ecco, io i comprimari li vorrei sempre tutti così.

Regge le fila onestamente ma senza troppa fantasia Roberto Gianola, che tiene il palco al meglio e concerta discretamente ma racconta poco, un po' perché di guizzi musicali non se ne ascoltano, un po' per la piattezza del ventaglio dinamico. In buona forma il coro preparato da Francesca Tosi, mentre l'orchestra di casa ha visto serate migliori.

Teatro non pienissimo ma più caloroso del solito, soprattutto durante la recita.

2 gennaio 2020

Don Giovanni chiude il Diciannove al Verdi di Padova

Di Donn’Anne cui non dispiace troppo essere “sforzate” da Don Giovanni ormai ne abbiamo viste a bizzeffe, d’altronde l’inafferrabile ambiguità su cui regge quest’opera si presta a soluzioni d’ogni sorta, anzi, le incoraggia. Il problema di tali deragliamenti è condurli con coerenza, o almeno attenuando le contraddizioni il più possibile, cosa che Paolo Giani Cei, almeno nel caso specifico, riesce a fare. Anche perché la sua Anna, Ekaterina Bakanova, è un’artista vera. Dopo essere passata per le mani di Giovanni, il suo Ottavio uomo-beta-che-più-beta-non-si-può le suscita quasi disgusto. Lui ci prova a rassicurarla, a farsi amare, “hai sposo e padre in me” le dice, lei lo guarda con la commiserazione di chi pensa “ma cosa sta blaterando questo cretino?”. Poi, quando capisce che Giovanni fa così con tutte e lei è solo una delle tante, parte la vendetta: decide di "denunciare" le sue malefatte pubblicamente, appellandosi al senso della giustizia del futuro (chissà...) sposo, con una sceneggiata cui può credere solo un tonto simile.

Foto di Giuliano Ghiraldini

Per il resto di interessante nello spettacolo in scena al Teatro Verdi di Padova non c’è molto. Scene a tendaggio di gusto e ispirazione tradizionalissima, coro e mimi dalle movenze felpate che oliano e punteggiano l’azione, o almeno ci provano, e il sesso, sesso vuoto e coattivo, piazzato a trazione del tutto. Così il finale primo ruota attorno a un lettone sotto le cui coperte Giovanni fa di Zerlina quel che si suole fare sotto le coperte, mentre la mensa del secondo atto è apparecchiata a donne distese su un tavolone e pronte a essere delibate ad una ad una, non fosse che tra loro c’è anche Elvira, che un po’ rimbrotta e un po’ gradisce.

Purtroppo non arrivano grandi idee dalla buca, dove Jordi Bernàcer tira dritto senza curarsi troppo della dinamica e dello sviluppo musicale, ma si limita a dosare equilibri interni e tenere il palco, che pur di tanto in tanto gli sfugge di mano. Il problema è che Mozart, a eseguirlo soltanto senza metterci del proprio, lo si seda. Ci si chiede poi il perché di certe scelte metronomiche, soprattutto nella seconda aria di Elvira, staccata con un tempo forsennato che la priva d'ogni patetismo, fino a renderla un frigido esercizio di virtuosismo vocale. Per il resto l’Orchestra di Padova e del Veneto si comporta decisamente bene, compatta e pulita, senza sbavature né inciampi.

Andrei Bondarenko è un protagonista ancora in cerca del suo personaggio. Benché la voce sia duttile e di bel colore, tendenzialmente chiaro rispetto alla corda e all’estensione, al basso-baritono manca ancora una padronanza più rifinita della parte, sia nella caratterizzazione scenica, sia nel dominio della parola.

Il Leporello di Mirco Palazzi ha dalla sua soprattutto l’eleganza della linea e l’uniformità della voce, che sale e scende senza colpo ferire, ma manca, nel contesto specifico, di una cifra più definita e personale, ma forse è proprio il regista che non sa bene cosa farsene di questo personaggio borderline, difficilmente inquadrabile nella seriosità generale del disegno.

Si è già fatto cenno di Ekaterina Bakanova, che è attrice e cantante al pari livello. Si mangia il palco, è musicalmente irreprensibile e soprattutto non spreca una parola né una nota. Chiaramente, come tutte le Anne di ascendenza più lirica che drammatica, l’aria del secondo atto riesce ben più travolgente della prima.

Anastasia Bartoli sorprende per l’ottima qualità del canto, per la rotondità dello strumento e il legato. La parte va ancora un po’ maturata in termini di personalità e confidenza, soprattutto nelle sfumature e nei piccoli dettagli, ma le premesse sono ottime.

Andrei Danilov è un Ottavio di bel timbro e ottimo controllo del fiato, che però deve sistemare un po’ l’intonazione e soprattutto evitare certe cafonate come l’acuto finale posto a chiusura de “Il mio tesoro intanto”. Michela Antenucci è una Zerlina il giusto ambigua e naive, ma anche con ottime carte da giocare sul versante vocale.

Positiva la prova di Daniel Giulianini, Masetto solido e ben calato nella parte. Al solito affidabilissimo Abramo Rosalen, che ha molta voce da offrire alla parte del Commendatore. All’altezza della situazione anche il Coro Lirico Veneto, ben preparato da Matteo Valbusa.

Buon successo per tutta la compagnia a fine spettacolo.