23 dicembre 2015

L'Elisir d'Amore al Verdi di Trieste

C'è più di un'idea vincente nell'Elisir d'Amore in scena al Teatro Verdi di Trieste, spettacolo fresco e colorato pensato dal regista Fabio Sparvoli. La posposizione della vicenda al secondo dopoguerra ha dei vantaggi: spazza via un po' di polvere dalla partitura donizettiana senza turbare eccessivamente il pubblico più rigido su posizioni tradizionaliste e consente di guardare da una prospettiva inedita taluni temi dell'opera che in altri contesti passano in secondo piano. Emerge con forza ad esempio il divario socioculturale tra la sorridente ingenuità del paese e un Dulcamara cittadino avvezzo a strumenti e malizie che “i villani e le villanelle” nemmeno immaginano. Piace altrettanto il Belcore carabiniere da commedia italiana anni '50. L'ambientazione ha insomma il merito di rendere efficace ed immediata la definizione dei caratteri, almeno per la sensibilità del pubblico contemporaneo.

Foto Fabio Parenzan
Per il resto siamo dalle parti della tradizione più innocua e rassicurante, una tradizione tuttavia vivacizzata da un'apprezzabile cura per la recitazione dei solisti e soprattutto del coro. Rimane un'unica perplessità: davvero non si capisce perché la dicitura di “melodramma giocoso” giustifichi ancora, anche in allestimenti curati e piacevoli come questo, la concessione a certe forzature comiche che facilmente scadono nel cattivo gusto.

Le semplicissime ma piacevoli scene che accolgono la vicenda sono firmate da Saverio Santoliquido. Scolastico il disegno luci di Jacopo Pantani, belli i costumi di Alessandra Tortorella.

Il direttore d'orchestra Ryuichiro Sonoda dà l'impressione di essere estraneo, per sensibilità e cultura, alla tradizione esecutiva del melodramma italiano buffo, il che non è necessariamente un male. Non ci sono, ad esempio, i tagli che sovente mutilano il capolavoro donizettiano così come assai originali e inedite paiono alcune scelte musicali, soprattutto per quanto riguarda l'articolazione. Manca purtroppo il teatro, soprattutto nel primo atto: la concertazione di Sonoda, per quanto sorvegliata, risulta fin troppo inamidata, riuscendo a tratti inerte sul piano della narrazione. Tale limite pare riconducibile piuttosto che ai tempi, generalmente spediti (almeno dall'ingresso di Dulcamara in poi), ad un'eccessiva timidezza nelle dinamiche. Il dialogo col palcoscenico non è sempre ottimale e gli scollamenti tra orchestra – al solito estremamente affidabile - e cantanti non sono infrequenti.

Roberta Canzian, Adina, si disimpegna con correttezza nel primo atto ma arriva all'aria Prendi, per me sei libero decisamente affaticata. Il soprano ha discreta fluidità e buona musicalità ma risolve non sempre agevolmente le agilità ed il registro acuto.

Leonardo Ferrando è un Nemorino vocalmente garbato e ben calato nella parte. La voce è leggera e di timbro non indimenticabile ma viene modulata con sicurezza e gusto in un canto elegante e morbido. La “Furtiva lagrima”, nonostante le dinamiche fossero tendenzialmente appiattite sul mezzoforte ed il fraseggio abbastanza rigido, si è guadagnata un'ovazione a scena aperta, reazione quasi sorprendente per chi conosce l'austerità del pubblico triestino.

È un peccato che, come spesso avviene, la regia si accanisca contro Belcore perché Filippo Polinelli ha mezzi ragguardevoli e, a suo modo, centra il personaggio. Fatta la tara degli eccessi caricaturali cui è costretto, il carabiniere spaccone e simpaticamente buzzurro disegnato da Polinelli avrebbe diverse ragioni dalla sua, non ultima una vocalità ampia e salda in ogni registro.

Il Dulcamara di Domenico Balzani ha voce importante e calca il palcoscenico con disinvoltura ma tende spesso, soprattutto nei recitativi e nel sillabato stretto, a scivolare nel parlato. Mario Brancaccio è il suo inarrestabile servitore.

Convince la Giannetta elettrica e stralunata di Vittoria Lai, soprano dalla vocalità leggera ma tutt'altro che inconsistente.

Molto positiva la prova del coro preparato da Fulvio Fogliazza.

A fine spettacolo accoglienza calorosa per tutta la compagnia.


10 dicembre 2015

Doppiamente Werther

Capita talvolta - per fortuna non di frequente - di dover recensire due volte lo stessa serata. Così è successo per il Werther andato in scena al Verdi di Trieste, di cui ho scritto sia qui, sia su OperaClick.


Difficile fare un Werther senza Werther. Il nuovo allestimento del Verdi di Trieste avrebbe più di un motivo d’interesse, non fosse che il protagonista Mickael Spadaccini annaspa al di sotto del livello di galleggiamento. Emissione forzata che si traduce in un canto impreciso nell’intonazione e sconnesso nella linea, piattezza espressiva e musicale. Terzo e quarto atto vanno leggermente meglio dei primi due ma nella sostanza l’esito non cambia. E un po’ ci si immalinconisce scorrendo la cronologia del programma di sala che ricorda i tempi in cui, allo stesso Verdi, l’opera di Jules Massenet veniva affidata a grandissimi artisti.
È un peccato perché il resto funziona egregiamente. Su tutti svetta Olesya Petrova la quale è una Charlotte notevolissima: voce di bel colore, omogenea ed ampia, fraseggio e musicalità di tutto rispetto. La Petrova è inoltre attrice assai consapevole e misurata.

Non meno interessante la prova di Christopher Franklin, direttore capace di disegnare una narrazione vivida e tesa senza sacrificare la qualità del suono, anzi, scovando dettagli ed impasti che spesso rimangono nell’ombra o peggio impantanati nella melassa in cui certa tradizione deteriore affoga Massenet, magari pensando di valorizzarlo. Ancora una volta l’orchestra del Verdi suona egregiamente, sia per compattezza e bellezza delle sonorità, sia negli interventi dei singoli.

Non delude nemmeno la bravissima Elena Galitskaya che canta ed interpreta Sophie con freschezza, forte di una vocalità perfettamente sostenuta e proiettata. Nella correttezza Ilya Silchukov, Albert non indimenticabile ma nemmeno censurabile. All’altezza Ugo Rabec (Le Bailli) mentre Alessandro D’Acrissa e Dario Giorgelè sono rispettivamente uno Schmidt e un Johann di alto profilo. Giuliano Pelizon e Silvia Verzier svolgono con diligenza il loro compito. Bene si comportano i “Piccoli Cantori della Città di Trieste” preparati da Cristina Semeraro.

Lo spettacolo firmato da Giulio Ciabatti (regia) e Aurelio Barbato (scene) si inserisce nel solco di una rassicurante tradizione: nessuno stravolgimento drammaturgico e una recitazione convenzionale ma, ad eccezione del rigido protagonista, abbastanza curata. L’impianto generale ha una sua eleganza ed è ben realizzato, soffre qua e là di una certa staticità ma nel complesso convince. Il quarto atto è senza dubbio il momento più indovinato e coinvolgente. Belli e funzionali al contesto i costumi di Lorena Marin, non lascia il segno il disegno luci di Claudio Schmid.
Applausi per tutti che si scaldano all’uscita della Petrova e di Franklin. Qualche fischio dal loggione per Spadaccini.


Di seguito riporto invece la recensione scritta per OperaClick:

È banale a dirsi ma il Werther di Massenet non è il Werther di Goethe, il che non è né un bene né un male ma un semplice dato di fatto. In fondo il compositore francese, formidabile uomo di teatro, e con lui i librettisti Edouard Blau, Paul Miller e Georges Hartmann, liberando il personaggio da molte delle implicazioni filosofiche, ne hanno generato una semplificazione che sul piano intellettuale vola assai più basso del romanzo ma che per spontaneità e genuinità parla una lingua comprensibile ai più. Non di meno hanno catalizzato l'attenzione sul tormento psicologico del poeta, banalizzandone probabilmente i tratti ma rendendolo così più “normale”. Non è un caso che, mentre Goethe metteva nero su bianco i Dolori del giovane Werther negli anni '70 del XVIII secolo, l'opera di Massenet nasca in un clima culturale dominato dallo Spleen di Baudelaire da un lato e dalle prime esperienze psicanalitiche dall'altro.

Al di là di qualche dato di contesto fortemente definito il protagonista dell'opera è dunque una figura dall'inquietudine moderna. Il disagio esistenziale del poeta è innanzitutto una questione di alienazione ed incomunicabilità, per questo Werther, il Werther di Massenet, è un personaggio di oggi, nonostante il linguaggio tardo romantico possa farlo sembrare distante nel tempo per carattere e contenuti.

Il nuovo allestimento dell'opera francese che il Teatro Verdi di Trieste mette in cartellone è, sotto questi aspetti, discretamente centrato.
Il regista Giulio Ciabatti rende bene la dimensione privata del dramma, spogliando il protagonista di ogni posa intellettualoide e avvicinandolo piuttosto a una sensibilità borghese. Ne esce un uomo la cui caratteristica determinante è una fragilità sproporzionata che lo porta a distaccarsi progressivamente dal mondo in cui vive. Il legame con Charlotte non pare avere i tratti del folle innamoramento ma nasce dall'intima consapevolezza che lei è la sola in grado di intuirne la sofferenza e, forse, darle sollievo. L'azione disegnata da Ciabatti scorre abbastanza fluida, inciampa in qualche momento di stanca ma altresì decolla in un quarto atto toccante e ben calibrato. La recitazione funziona con esiti alterni a seconda degli interpreti.

Le belle scene di Aurelio Barbato rendono con efficacia, soprattutto nel terzo e quarto atto, il senso di claustrofobico isolamento di Werther e il suo inarrestabile allontanamento dalla società.

Molto belli i costumi di Lorena Marin, ordinario il disegno luci ideato da Claudio Schmid.

Purtroppo il tenore Mickael Spadaccini non convince nei panni del protagonista. L'emissione è sempre forzata e, soprattutto nel registro centrale, scarsamente sostenuta dal fiato con conseguenti slittamenti d'intonazione. Il registro acuto è più solido e brillante ma, il più delle volte, inficiato dalla tendenza a spingere. In linea di principio potrebbe persuadere la caratterizzazione che Spadaccini dà di Werther e la varietà di dinamiche con cui ne rende i patemi, non fosse che, sul piano vocale, le idee trovano a fatica la via della corretta realizzazione.

Viceversa Olesya Petrova, Charlotte, canta davvero molto bene: la voce è di per sé ricca e di bel timbro, il volume ampio in ogni registro, tecnica e musicalità sono all'altezza di tale strumento. Va aggiunto che di rado si ascoltano pianissimi tanto timbrati e intrinsecamente espressivi.

Bravissima anche Elena Galitskaya, Sophie dalla voce leggera ma svettante che, oltre che per la piacevolezza del canto, conquista per la spontaneità e la freschezza dell'interpretazione.
Ilya Silchukov canta la parte di Albert senza molte sottigliezze ma con efficacia e solido mestiere.

Ugo Rabec, Le Bailli, si disimpegna con correttezza. Dario Giorgelè e Alessandro D’Acrissa danno lustro e brillantezza a Johann e Schmidt. Giuliano Pelizon e Silvia Verzier sono i corifei.

Christopher Franklin dirige l'ottima orchestra del Verdi di Trieste, davvero in splendida forma, con grande senso del teatro, unendo alla scorrevolezza della narrazione una pregevole varietà di colori ed evitando ogni svenevolezza o ammiccamento. Il suono orchestrale, benché tendenzialmente scuro, non scade mai in eccessi di pesantezza, anzi lascia a molti incisi strumentali la possibilità di emergere da un tessuto orchestrale di apprezzabile trasparenza.

Convincono anche i “Piccoli Cantori della Città di Trieste” preparati da Cristina Semeraro.

A fine recita applausi convinti per tutti con punte di entusiasmo per Petrova e per il direttore. Qualche contestazione per Spadaccini.


Teatro La Fenice: Jeffrey Tate apre la stagione sinfonica

Dopo il recentissimo Idomeneo Jeffrey Tate torna sul podio dell'Orchestra del Teatro La Fenice per un'altra inaugurazione, quella della stagione sinfonica che vedrà assoluto protagonista Anton Bruckner. Si parte dalla sua Seconda sinfonia affidata appunto – accanto alla Piccola di Schubert – al Maestro inglese il quale appare tuttavia, rispetto all'esaltante prova mozartiana e al Mahler di alcuni mesi fa, assai meno ispirato.

Interlocutoria e sbrigativa la Sinfonia n.6 in Do Maggiore di Franz Schubert che dà, sin dall'inizio, l'impressione di riuscire disomogenea e poco centrata. Sorprende che un musicista sensibile ed esperto come Tate non riesca a trovare un giusto equilibrio tra le sezioni: in particolare si ha la sensazione che, nonostante il tappeto degli archi sia piuttosto delicato, i legni siano portati a forzare oltre il necessario, perdendo così di morbidezza e fluidità. Non di meno disturba una certa pesantezza, più negli accenti che nelle sonorità, che pervade l'intera sinfonia. Al di là delle riserve non si può dire che l'orchestra suoni male, tutt'altro, malgrado gli eccessi di corposità che a tratti conferiscono meccanicità all'opera. Sullo sfondo si intravede, e talora emerge con forza, la zampata del grande artista: il primo movimento è illuminato da una serenità quasi sorridente, lo Scherzo seduce per la caratterizzazione, più dinamica che timbrica, di ogni inciso e l'abilità nel renderlo parte di un discorso musicale fluido. L'Allegro moderato è staccato con un tempo rapidissimo che, se da un lato gli conferisce un'urgenza ed un'irrequietezza brulicante, dall'altro lo rende eccessivamente confuso e, complice qualche strattone troppo marcato, lo impoverisce.

Va meglio con il Bruckner della Seconda Sinfonia in Do Minore la cui virtù più evidente è una luminosa chiarezza espositiva: Tate “spiega” alla perfezione la struttura del lavoro inquadrando ogni dettaglio in un disegno ampio, con le singole voci capaci di emergere con mirabile equilibrio nonostante la densità del suono. Un'esaltazione dell'architettura non priva di fascino dunque ma, inevitabilmente, a rischio di staticità. L'impostazione più “pensata” che istintiva comporta, alla lunga, qualche calo di tensione, complici una monocromaticità di fondo che omogenizza l'intero sviluppo ed una scansione dei tempi abbastanza rigida. Il tutto pare molto, forse troppo, monumentale e serioso ma, non di meno, è assai ben eseguito. 

Il suono è ammaliante e caldo sin dall'ingresso del tema dei violoncelli ma tende a mantenersi uniforme con minime variazioni sul tema. In sostanza il disegno di Tate prevede un'orchestra lussureggiante e levigata che sappia prestarsi ad un'infinità di sfumature dinamiche mentre per quanto riguarda la varietà di colori e inflessioni ritmiche il quadro risulta più piatto e ingessato. Alcuni momenti catturano per magia e bellezza (l'attacco dell'Andante su tutti), altri meno: il carattere popolare dello Scherzo, ad esempio, risulta marcato in modo quasi stucchevole. Resta tuttavia, sullo sfondo, l'impressione che il procedimento contemplativo tenda a sgonfiare la narrazione anche in ragione del fatto che gli spunti e i guizzi di fantasia capaci di vivacizzarla sono davvero minimi.

Merita un elogio la prova dell'Orchestra del Teatro La Fenice, assolutamente all'altezza dell'impegno sinfonico sia per precisione sia per qualità del suono.

Un appunto infine: si comprendono a fatica le ragioni di alcune scelte testuali operate dal maestro come la riapertura dei tagli in Bruckner e, soprattutto, l'amputazione (compensatoria?) dei ritornelli nella Sesta di Schubert.

Applausi di cortesia, piuttosto sbrigativi, dopo Schubert che diventano ovazioni a fine concerto.

26 novembre 2015

Idomeneo apre la stagione del Teatro La Fenice di Venezia

Fossi un regista avrei i sudori freddi all’idea di affrontare un’opera settecentesca, soprattutto un capolavoro serio e di grande respiro come l’Idomeneo di Mozart. Non perché si tratti di una creazione di scarsa attrattiva o dalla drammaturgia inconsistente, tutt’altro. Piuttosto per la difficoltà tecnica che la costruzione a numeri chiusi necessariamente procura e per la struttura formale della musica, assai più rigida e vincolante di quanto non sarà in seguito, il tutto costretto nei vincoli e negli stereotipi dell’opera seria. Difficile insomma creare un’azione fluida e dinamica su questa continua alternanza di recitativi, arie e cori, difficile definire dei caratteri e dar loro plasticità, difficilissimo disegnare la recitazione sulla musica.



Per l’inaugurazione della stagione 2015-16 il Teatro la Fenice di Venezia ha puntato su Alessandro Talevi il quale, spiace ravvisarlo, manca clamorosamente il bersaglio, inciampando appunto in quell’insidiosa staticità che in questo repertorio è tranello micidiale.
Il regista, tentando di veicolare un messaggio universale, privo di riferimenti specifici e immediatamente definibili, finisce per non dire nulla. Ogni spunto è appena accennato, le idee si rincorrono senza continuità e sviluppo diventando in un attimo velleità stagnanti. Anche laddove sia chiaro un disegno preciso tutto pare stucchevole e saputo: l’evoluzione dei personaggi ad esempio è assolutamente convenzionale, a tratti banale, sia nei singoli, la cui recitazione ricalca tutti gli stereotipi del teatro più polveroso, sia nelle masse. Lo scontro di civiltà è trattato con ingenuità disarmante, inscatolato in un manicheismo che si risolve in buonismo: da un lato i Cretesi, cattivi, oppressori (e vagamente ariani), dall’altro i Troiani, alfieri di un innocenza incontaminata, che vengono dapprima brutalizzati e infine felicemente integrati tra balli e abbracci.
Non mancano nemmeno momenti di involontaria comicità: di fronte alla pastasciuttata del finale primo e all’ineffabile siparietto che accompagna la marcia del secondo atto (No.14) si fatica a rimanere seri.
Le scene di Justin Arienti non dispiacciono ma, nella loro impostazione tradizionale, poco giovano alla dinamicità del tutto. Manuel Pedretti firma i brutti costumi.

La povertà dell’allestimento lascia l’amaro in bocca considerando che l’esecuzione musicale si attesta su ben più confortanti livelli. Il merito va principalmente a Jeffrey Tate il quale firma una direzione di straordinaria bellezza che coniuga al massimo livello le ragioni della musica con quelle del teatro. Esecuzione vibrante e dettagliatissima ma soprattutto coerente che mai, nonostante la durata dell’opera e la riapertura di tutti i tagli, si concede cali di tensione o cedimenti. L’orchestra, in splendida forma, suona con ammirevole ricchezza di colori e trasparenza, rendendo piena giustizia a Mozart e al palcoscenico.

Straordinario il coro del teatro preparato da Claudio Marino Moretti (e meravigliosamente sostenuto da Tate) che raggiunge vertici di assoluta poesia.



Brenden Gunnell, Idomeneo, ha vocalità e tecnica più versate ad altro repertorio, lo si percepisce chiaramente nella coloratura pasticciata e nella linea non immacolata. Tuttavia la particolare emissione, che privilegia sonorità chiare e scoperte, dona grande espressività al canto, massimamente nei recitativi. Le arie hanno forse un piglio eccessivamente muscolare, scelta che comunque non stride con la caratterizzazione del personaggio.

Monica Bacelli canta con classe la parte di Idamante: fraseggio, musicalità, varietà di colori ed accenti, tutto contribuisce a delineare una figura coerente e palpitante.
È invece impari alla scrittura mozartiana l’organizzazione vocale di Michaela Kaune, Elettra a cui difettano acuti, agilità e stile. La bella presenza e una notevole personalità compensano in parte un canto non all’altezza della situazione.
Ekaterina Sadovnikova, Ilia, mostra qua e là qualche segno di fatica ma nel complesso la sua prova convince, soprattutto per la sobrietà del fraseggio ed il gusto. Il timbro è poi molto bello e adatto alla parte. Eccellente l’ Arbace di Anicio Zorzi Giustiniani: voce di bel colore, emissione morbida, agilità dipanate con facilità quasi irridente. Una prova davvero maiuscola.
Buono il Gran Sacerdote di Nettuno di Krystian Adam; corretti tutti gli altri ad eccezione della Voce (malferma) dell’oracolo di Michael Leibundgut.

15 novembre 2015

Don Giovanni apre la stagione del Verdi di Trieste

Ha senso al giorno d'oggi allestire un Don Giovanni che rinunci, più o meno consapevolmente, ad ogni conquista recente di approfondimento drammaturgico? Evidentemente la risposta è sì, considerata l'accoglienza trionfale che si è guadagnata la nuova produzione del capolavoro mozartiano in scena al Teatro Verdi di Trieste, titolo inaugurale della stagione 2015-16.


Ciò detto, va tristemente ravvisato che lo spettacolo, pensato da Allex Aguilera, di pensato pare avere ben poco. Non dispiacciono le scene tradizionali firmate da Philippine Ordinaire, un impianto fisso che riproduce il cortile interno di un palazzo e che accoglie praticamente l'intera vicenda, così come belli sono i costumi di William Orlandi. Manca purtroppo tutto il resto, a partire dal lavoro sulla recitazione di solisti e coro come pare evidente l'assenza di un disegno esegetico chiaro. I caratteri sono appena abbozzati e comunque assai convenzionali, molto è lasciato all'iniziativa dei singoli; le arie vengono risolte con il cantante fermo in proscenio, i duetti con le solite mossette che sarebbero parse polverose già negli anni Settanta, il dialogo tra palcoscenico e musica è, sul piano attoriale, praticamente nullo. Il risultato è uno spettacolo estremamente statico ed innocuo in cui il libretto è svolto in modo quasi pedissequo ma che poco racconta del lavoro mozartiano, fermandosi al livello di lettura più semplice e superficiale.

Fortunatamente l'esecuzione musicale si attesta su ben altri livelli. Il Mozart del Maestro Gianluigi Gelmetti ha poco a che fare con quello che, in gran parte del mondo, è moneta corrente e si riallaccia ad una tradizione ormai minoritaria, caratterizzata dall'utilizzo di un'ampia orchestra che esprime sonorità imponenti e felpate. Insomma un Don Giovanni inteso come prologo dell'estetica romantica piuttosto che come pura espressione del classicismo. Non è il Mozart contemporaneo ma è assai ben suonato e, in fin dei conti, non privo di fascino anche perché, accettati i presupposti di partenza, Gelmetti dimostra una volta di più di conoscere il mestiere: il palco è sostenuto alla perfezione, le dinamiche sono varie e meditate come ricca è la tavolozza timbrica. I tempi rapidi poi aiutano alla scorrevolezza della narrazione. Lo asseconda alla perfezione l'orchestra del Teatro Verdi di Trieste che si dimostra ancora una volta compagine di grande affidabilità e qualità.

Nicola Ulivieri veste i panni del protagonista con gran disinvoltura: l'ottima tecnica ed il bel timbro vocale sono al servizio di un eccellente artista che sa fraseggiare, accentare e che domina la scena aggiungendo molto di proprio allo spettacolo.
Non meno convincente l'istrionico Leporello di Carlo Lepore che, pur costretto dalla regia a calcare la mano sul grottesco, si conferma basso dalla solida vocalità e dalle eccellenti risorse comunicative. Non di meno il canto è impeccabile.
Raquel Lojendio, Donna Anna, è cantante dai mezzi importanti: la voce suona omogenea e di buon volume, il temperamento è notevole come notevole è la musicalità; alcuni acuti forzati e le agilità non impeccabili della seconda aria sono peccati veniali nel contesto di una prova convincente.
Molto brava Raffaella Lupinacci che porta sulla scena una Donna Elvira cui non mancano né il carisma né le qualità vocali. La voce è di timbro affascinante, omogenea e timbrata nel registro medio e acuto mentre qualche opacità inficia i gravi.
Luis Gomes canta assai bene la parte di Don Ottavio, nonostante il timbro non sia di quelli indimenticabili. Se molto buona è stata l'esecuzione dell'aria del primo atto (Dalla sua pace), eccellente ci è parsa la resa de Il mio tesoro intanto.
Diletta Rizzo Marin disegna una Zerlina dalla voce corposa e di carattere nonostante l'intonazione non sia sempre impeccabile. Positiva la prova di Gianpiero Ruggeri, Masetto. Solido e ieratico il Commendatore di Andrea Comelli.

Bene si comporta il coro preparato da Alberto Macrì.

A fine recita il pubblico ha salutato con entusiasmo l'intera compagnia, qualche isolata e timida contestazione per il regista.



Cast alternativo:

Il Don Giovanni che ha aperto la stagione del Verdi di Trieste è stato accolto con un entusiasmo quasi sorprendente per un teatro che pareva ormai avviato verso una progressiva ed inesorabile disaffezione da parte del pubblico. Il cambio di sovrintendenza sembra aver portato un clima nuovo, già avvertibile sin dal battage pubblicitario che ha preceduto l'esordio dello spettacolo e culminato in un vero e proprio assalto al botteghino da parte del pubblico. Dalla prima, recensita su queste pagine, fino all'ultima replica cui si fa riferimento in questo articolo, il capolavoro di Mozart ha registrato un'affluenza altissima, con più di un “tutto esaurito”. Lo spettacolo è piaciuto insomma ma soprattutto ha fatto molto parlare e discutere, massima ambizione per una produzione teatrale.

Il merito del successo va innanzitutto ad una compagnia di canto affidabile ed omogenea, ben coordinata dal Maestro Gianluigi Gelmetti sulla cui direzione valgono le considerazioni fatte in occasione della prima: un Mozart inattuale ma assai ben suonato e indubbiamente pensato. Si avverte chiaramente un disegno musicale preciso nella calibratura dei colori, dei tempi adottati e nelle dinamiche come è evidente una cura certosina per la qualità del suono. Certo non è una direzione di grande slancio o fantasia e qualche contrasto maggiormente marcato o guizzo d'imprevedibilità in più non sarebbe dispiaciuto. L'orchestra del Verdi suona ancora una volta senza sbavature e con notevolissima precisione.

Il cast alternativo è dominato dalla personalità di Mattia Olivieri che tratteggia un protagonista molto convincente per adesione al personaggio, spontaneità e presenza scenica. Il giovane bass-baritone ha poi un grande talento: sa costruire la recitazione sulla musica, di cui sfrutta accenti e suggestioni creando una figura che, pur convenzionale nella caratterizzazione, domina il palco catalizzando l'attenzione su di sé. Il canto è ben risolto grazie alla solida tecnica ed all'ampiezza della vocalità; con l'esperienza e la maturazione dello strumento arriveranno un più ferrato controllo dell'intonazione, non sempre impeccabile, e una maggiore attenzione per i colori e l'accentazione nei recitativi.

Molto buona anche la prova di Fabrizio Beggi, Leporello dalla voce di bel timbro e dal volume imponente che fraseggia con gusto e calca il palcoscenico con disinvoltura.
Brava la Donna Anna di Marie Fajtová; il soprano, a dispetto di qualche pasticcio di dizione e di una voce intrinsecamente poco attraente, dimostra di avere un controllo dell'emissione ed una fluidità nelle agilità fuori dal comune.
Il Don Ottavio di Marco Ciaponi è risolto con correttezza: la voce è di bel timbro, il canto morbido ed omogeneo.
Non convince Anush Hovhannisyan, Donna Elvira che avrebbe la personalità richiesta dalla parte ma che palesa più di un impaccio nel sostegno del fiato e nel registro acuto.
Positive le prove di Enrico Marrucci (Masetto) e di Ilaria Zanetti (Zerlina): entrambi non hanno voci di particolare attrattiva ma si sforzano di dare senso a quanto vanno cantando grazie ad un apprezzabile lavoro sulla parola, sui colori e ad una recitazione vivace. Ancora una volta pienamente convincente Andrea Comelli nei panni del Commendatore.
Impeccabili gli interventi del coro preparato da Alberto Macrì.

Il rodaggio giova allo spettacolo firmato da Allex Aguilera che, rispetto alla serata inaugurale, risulta meno ingessato e statico. Rimane purtroppo la desolante povertà di idee della regia e la non entusiasmante realizzazione dei pochi spunti presenti. La scena del banchetto finale, anche ad una seconda visione, risulta di raggelante bruttezza.
Trionfo entusiastico per tutti con ovazioni da stadio per Olivieri, Beggi e Fajtová.

Charles Dutoit dirige i Wiener Symphoniker

Anche il pubblico del Teatrone, come gli udinesi chiamano affettuosamente il Giovanni da Udine, deve di tanto in tanto accontentarsi dell'ordinario, in luogo dello straordinario che da quelle parti è l'abitudine. Il concerto dei Wiener Symphoniker diretti da Charles Dutoit non è di quelli che lasciano il segno ma piuttosto un esercizio di buona routine, con qualche idea originale annacquata da una genericità di fondo.

L'impressione che rimane a fine serata è che ci sia un certo grado di incomunicabilità tra podio e orchestra, o meglio non si riesce e comprendere se siano i sinfonici inadatti a dare concretezza alle intenzioni del maestro o quest'ultimo incapace di sfruttare a pieno il potenziale dei musicisti. Probabilmente la verità sta nel mezzo. Si direbbe che Dutoit abbia un'idea ben precisa in merito all'interpretazione musicale: un approccio più analitico che istintivo, mirato ad un'analisi strutturale della partitura. Nel momento in cui si trova di fronte un'orchestra che non ha i mezzi per realizzare alla perfezione queste intenzioni, per limiti nella trasparenza delle sonorità e nell'esattezza ritmica dell'esecuzione, si finisce per avvertire un senso di incompiutezza del tutto. In sostanza la non eccezionale qualità timbrica espressa dai viennesi non viene riscattata da una lettura che vada oltre l'esposizione dell'architettura dei lavori in programma. Gli spunti a ben guardare non mancano e, a tratti, sono ben realizzati: il dosaggio delle dinamiche è ammirevole e regala qualche pianissimo suggestivo, certi dettagli di fraseggio o impasti lasciano intravedere la zampata del grande artista. Rimane tuttavia una povertà di colori di fondo che finisce per omogenizzare ogni brano in un unico linguaggio espressivo.

I pezzi da Romeo e Giulietta di Sergej Prokof’ev che aprono il concerto, assemblati pescando nella prima e nella seconda suite op. 64, sono il momento più debole della serata: alla mancanza di nerbo della direzione, tendenzialmente lenta e metronomica, si somma un suono orchestrale grigiastro e pesante che sovente costringe legni ed ottoni a forzare per emergere. Alcune imperfezioni negli attacchi e qualche sbavatura dell'intonazione, soprattutto tra i violini, non migliorano il quadro.

Decisamente meglio la seconda parte. Il Prélude à l'après-midi d'un faune di Debussy è ordinario nell'impostazione, poco elastico ma assai ben eseguito. Dutoit ottiene sonorità leggere e vaporose ma non inconsistenti, stacca un tempo lento che sa reggere con classe e lascia una notevole libertà di fraseggio ai solisti. L'equilibrio tra la trasparenza dell'ordito orchestrale e la rotondità dei suoni è sapientemente mantenuto, lo sviluppo del brano fluido e senza cedimenti.

Onesta routine anche per i Quadri di un'esposizione di Modest Musorgskij in cui si apprezzano la varietà di dinamiche è la bella compattezza di suono ma che soffrono la scarsa fantasia del podio nelle indicazioni agogiche e nella tavolozza timbrica; dalla straordinaria orchestrazione di Ravel si potrebbe cavare qualche colore di più. Pulita ma monocorde l'esecuzione dell'orchestra, non completamente immune da inesattezze nella scansione ritmica degli ottoni.

A dispetto di ogni riserva si dà conto della trionfale accoglienza del pubblico.

2 novembre 2015

...tra la Carne e il Cielo

Il quarantennale dalla scomparsa di Pier Paolo Pasolini qui nel pordenonese, terra che accolse parte dell'infanzia e della giovinezza dell'intellettuale e cui rimase legato fino alla fine, ha scatenato le fantasie più brillanti come le più perverse con esiti che spaziano, talvolta senza soluzione di continuità, dal sublime al grottesco. Si è visto e ascoltato un po' di tutto insomma, dagli ossequi veneranti fino alle elucubrazioni di chi riterrebbe auspicabile sfruttare il “brand Pasolini” per rilanciare il territorio, in un tripudio di eventi, incontri e celebrazioni che non di rado hanno assunto i tratti dell'auto-celebrazione.


Tanta retorica dunque, ma anche molte iniziative interessanti tra cui rientra senz'altro l'intuizione dei vertici del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone di commissionare una composizione originale al musicista Azio Corghi (presente in sala) ispirata ai lavori di Johann Sebastian Bach, padre della musica occidentale amatissimo da Pasolini.

Il risultato è “… tra la Carne e il Cielo”, opera per violoncello concertante, voce recitante maschile, soprano, pianoforte e orchestra, basata su testi dello stesso Pasolini organizzati secondo il disegno drammaturgico di Maddalena Mazzocut-Mis. Composizione affascinante in cui i versi affidati alla voce di Omero Antonutti si fondono agli echi bachiani calati nel linguaggio musicale contemporaneo. Assai brava la violoncellista Silvia Chiesa, capace di dare colore ed anima a questo lavoro mentre la Filarmonica di Torino diretta da Tito Ceccherini e il Fazioli di Maurizio Baglini le fanno da solida spalla. Al soprano Valentina Coladonato sono affidati gli ostici intermezzi cantati.

Corghi è il protagonista anche nella prima parte di concerto con le sue Filigrane Bachiane per pianoforte e corde percosse, rielaborazione del primo volume del clavicembalo ben temperato, affidate al sempre eccellente Maurizio Baglini ed agli archi dell'Orchestra Filarmonica di Torino.

Rimangono le due composizioni destinate alla sola orchestra diretta da Tito Ceccherini, Le Tombeau de Couperin di Maurice Ravel e Ricercare dall’Offerta Musicale di Bach - Webern, in cui tuttavia non si va oltre una pallida correttezza esecutiva.

Buona l'accoglienza del pubblico a fine concerto.

1 novembre 2015

Temirkanov al Giovanni da Udine

È un felicissimo ritorno quello di Yuri Temirkanov e della sua Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo al Teatro Nuovo Giovanni da Udine. Capita ormai sempre più raramente di ascoltare compagini che, al di là della perfezione tecnica, conservino un'identità timbrica immediatamente riconoscibile, un colore inconfondibile che le collochi nel solco di una tradizione. I Filarmonici di Temirkanov sono un'eccezione alla regola: il suono è antico, lussuoso, è quello che nell'immaginario collettivo si è soliti associare alle orchestre russe, cosa che non stupisce affatto considerando che l'attuale direttore principale ereditò il podio del grande Evgenij Mravinskij, di cui fu per altro allievo, nel 1988. Gli archi esprimono sonorità pastose e piene, legni ed ottoni hanno, rispetto al nitore ed alla brillantezza di altre scuole, un calore ed una sensualità ammalianti.

Non di meno colpisce l'affiatamento che lega podio e musicisti: il gesto di Temirkanov potrebbe sembrare a tratti oscuro, ambiguo, eppure l'orchestra è capace di seguirlo al millimetro, rispondendo ad ogni suggestione o improvvisa illuminazione del maestro. Si ha l'impressione che il direttore, piuttosto che concertare, suoni l'orchestra come fosse un unico stupefacente strumento: Temirkanov plasma il ritmo con tale libertà e inventiva che parrebbe quasi impossibile seguirne il passo, la sua musica è un prodigio di rubati, accelerazioni brucianti ed abbandoni, di fraseggi disegnati con un cenno delle dita o un'occhiata. E invece l'orchestra lo asseconda senza incertezze, anzi, unendo a questa sorprendente elasticità una qualità di esecuzione eccezionale (l'attacco degli archi nell'Andantino quasi allegretto della Sheherazade è, sul piano puramente estetico, tra i suoni più belli che abbia mai ascoltato).

Difficile dire se convinca maggiormente Shéhérazade, suite sinfonica, op 35 da le "Mille e una notte" di Nikolaj Rimskij-Korsakov o la Sinfonia n.2 in Mi minore di Sergej Rachmaninov. L'approccio alle opere è in fondo simile, caratterizzato da una grandissima cantabilità, da sonorità compatte ed avvolgenti, levigatissime anche nei forti più tonanti, e da una tensione narrativa senza cedimenti. È evidente il lavoro sulla qualità timbrica di ogni frase, per ogni sezione orchestrale; violini primi e secondi dialogano con voci diverse, persino il pizzicato dei contrabbassi riesce ad esprimere un timbro inedito e prezioso. La perfezione strumentale dei professori d'orchestra è poi al di sopra di ogni lode.

Tutto è animato dalla fantasia di Temirkanov che non smette mai di inventare, di aggiustare e rifinire. Il direttore cerca ed ottiene un'esecuzione estremamente espressiva e sentita che, pur sacrificando qualcosa in fatto di analiticità e trasparenza, si giova di una coerenza ed una fluidità straordinarie.

Eccellente il primo violino di Lev Klychkov in Rimskij-Korsakov.

A fine concerto accoglienza trionfale del pubblico udinese, salutato frettolosamente da un Temirkanov visibilmente provato e stanco.

27 ottobre 2015

Il Flauto Magico di Mozart trionfa al Teatro La Fenice

l Flauto Magico (Die Zauberflöte) in scena al Teatro La Fenice di Venezia rientra nell’eletta schiera degli spettacoli operistici in cui tutto funziona. Damiano Michieletto, stella luminosa in quel piccolo mondo antico che è il teatro musicale italiano, ritorna alla Fenice per firmare la regia di un allestimento che è un capolavoro, né più, né meno. 

Con l’impagabile contributo dell’ormai collaudato team Fantin-Teti-Carletti (scene, costumi e luci) Michieletto crea uno spettacolo coerente, coinvolgente e tecnicamente straordinario, sia nella concezione dell’impianto scenico, sia nella costruzione della recitazione sulla musica e sulla parola. Dei tanti temi portanti del capolavoro mozartiano il regista sceglie di svilupparne uno, accantonando o lasciando sullo sfondo tutto il resto. Die Zauberflöte diventa così una sorta di romanzo di formazione, il racconto del percorso che porta un giovane, Tamino, alla definizione della propria identità di “persona”. L’idea di ambientare la vicenda in un’aula scolastica appare quindi, se non inevitabile, quantomeno logica: qui avviene quel faticoso ma necessario processo che, tramite lo studio, il distacco dalla famiglia (un’Astrifiammante madre nevrotica), le prime esperienze amorose, definisce la crescita di un individuo e la sua collocazione nel mondo. 



Tutto è perfettamente studiato, sensato e splendidamente realizzato quindi lo spettacolo funziona, regge e convince. L’ingresso nel tempio del finale primo che diventa – nella fuga degli studenti tra i boschi, con un epilogo che può essere facilmente dedotto – una sorta di iniziazione alla vita adulta, è un momento di teatro potentissimo.

Non meno felice il versante musicale. Antonello Manacorda ripropone il Mozart cui ci ha abituati: tempi tendenzialmente spediti, grande tensione narrativa ed ottimo sostegno al palcoscenico, suono luminoso e terso che, pur sacrificando qualcosa in fatto di colori, suona tutt’altro che inconsistente. Lo aiuta un’orchestra in splendida forma.

Il cast è complessivamente notevolissimo a partire dell’eccellente Tanino di Antonio Poli, tenore che unisce alla freschezza di una voce in continua crescita, buon gusto musicale e una discreta presenza scenica. Alex Esposito, Papageno, è ancor prima che un gran cantante un artista di razza. Brava Ekaterina Sadovnikova, Pamina. Musicalmente non impeccabile ma magnetica sulla scena la Regina della notte di Olga Pudova. Qualche asperità di troppo non rovina la bella prova di Goran Jurić, Sarastro. Il Monostatos di Marcello Nardis è ben cantato e ancor meglio recitato. 
Tutti all’altezza, senza eccezione alcuna, gli altri. Ulisse Trabacchin prepara il sempre lodevole coro della Fenice.

Repliche fino al 31 ottobre. Imperdibile.



21 ottobre 2015

Falstaff al Giovanni da Udine

Falstaff è un'opera dagli equilibri fragilissimi tale è la quantità di implicazioni, sfumature, di idee e suggestioni che concorrono a definirne il carattere. Riuscire a restituirne l'umore evitando di sacrificare alla comicità le venature malinconiche riducendo il tutto in farsa o, d'altro canto, inciampando in un'eccessiva seriosità, è una sfida impervia per ogni singolo interprete dal regista, al direttore fino all'ultimo dei comprimari. L'allestimento portato al Teatro Nuovo Giovanni da Udine dai complessi del Verdi di Trieste ove andò in scena con cast non molto diverso nello scorso giugno, esemplifica una volta in più quanto, nel Falstaff, la quadratura del cerchio sia tutt'altro che banale.

Mariano Baudin, regista, si ferma ad un primo livello di lettura senza scavare in profondità tra le pagine del libretto. Il tono sorridente dell'opera è malinteso in favore di un umorismo schietto ed esteriore non sempre privo di cadute di gusto e il lavoro sui personaggi rispecchia tale principio. Tuttavia, una volta accettando il presupposto di partenza che necessariamente comporta la rinuncia ad una componente importante e caratterizzante dell'opera verdiana, va riconosciuta al regista l'abilità nell'organizzare una narrazione vivace e ben coordinata, magari non originalissima nelle intuizioni ma funzionale e di buon ritmo. Scene e costumi sono tradizionalissimi e richiamano un modo antico di fare teatro fatto di mezzi semplici, fondali dipinti e costumi d'epoca.

Se è compito arduo individuare la giusta misura nel tracciare una linea interpretativa convincente nell'allestire un Falstaff, non meno complesso risulta il lavoro di concertazione. La direzione di Francesco Quattrocchi è piena di buone idee: il suono morbido e vellutato, la scelta dei tempi, i fraseggi, tutto concorre a disegnare un'atmosfera crepuscolare ma serena non priva di ironia benché lontanissima dagli eccessi di comicità che lo spettacolo suggerirebbe; lo aiuta un'Orchestra del Verdi di Trieste in splendida forma, protagonista di una prova davvero impeccabile per nitore e precisione. Purtroppo, complice probabilmente l'esiguo numero di prove, il dialogo con il palcoscenico è problematico e, non di rado, orchestra e cantanti non trovano la giusta amalgama o peggio si avvertono scollamenti imbarazzanti tra buca e cantanti.

Il Sir John di Paolo Gavanelli, chiamato a sostituire l'indisposto Alberto Mastromarino, ha una sua coerenza. Senz'altro si tratta di un Falstaff ruvido e scorbutico sia sul piano interpretativo sia nella vocalità, un Falstaff che rinuncia ad ogni retaggio di nobiltà e che nulla ha di cavalleresco o signorile. Tuttavia questo protagonista rude e burbero dalla voce fibrosa ed opaca ma possente, funziona: per quanto discutibili siano i presupposti su cui si regge, Gavanelli dà vita a un protagonista vivace e assolutamente credibile vario nelle dinamiche e nell'accentazione a dispetto di uno strumento di scarsa duttilità, ritmicamente saldo e sicuro sulla scena.

Roberta Canzian ha eccellente musicalità tuttavia, in più d'un occasione, dà l'impressione che la parte di Alice le stia vocalmente larga. Convince il Ford di Domenico Balzani che, rispetto alle recite triestine, è parso più misurato e rifinito mantenendo invariate le notevoli qualità vocali di ampiezza e proiezione del suono.
Rossana Rinaldi ha il merito di rinunciare ai vezzi in cui scadono molte Quickly, mantenendo sempre una linea di canto pulita ed evitando di gonfiare i centri per trovare maggiore volume; purtroppo la voce, quasi sopranile, è troppo chiara e leggera per imporsi.

Luis Gomes viene a capo senza difficoltà della parte di Fenton; in particolar modo è parsa eccellente l'esecuzione dell'aria del terzo atto. Meno a fuoco invece Mina Yamazaki, Nannetta dal fraseggio generico e non sempre impeccabile nell'intonazione. Molto positiva la prova di Antonella Colaianni, Meg Page. Inappuntabili Alessandro D’Acrissa (eccellente Dottor Caius), Gianluca Sorrentino (Bardolfo) e Dario Giorgelè (Pistola).
Ottima la prova del coro del Teatro Verdi di Trieste.

A fine spettacolo applausi convinti per tutta la compagnia.

20 ottobre 2015

Stanislav Kochanovsky e l’Orchestra Giovanile Italiana al Verdi di Pordenone

Segnatevi il nome di Stanislav Kochanovsky perché ne sentiremo parlare. Classe 1981 e un curriculum già notevole, anche se non da primo della classe, ma soprattutto un talento fuori dal comune e tanta qualità. 
C’è senz’altro molta scuola russa nel suo modo di dirigere: sia nel fraseggiare, sia nei colori (quei violoncelli!), sia nel gesto – impossibile vederlo sul podio e non pensare a Vladimir Jurowski – pertanto pare indovinatissima la scelta di affidargli un programma che in quel mondo pesca a piene mani. E il maestro sa dar vita e poesia alla musica trovando il giusto compromesso tra il rigore ritmico e la cantabilità, soprattutto in un Prokof’ev barbaro e primordiale ma elettrizzante, nonostante la selezione di brani dalle Suite dal balletto Romeo e Giulietta sia assemblata con logica sfuggente. Più ordinario ma non privo di fascino e cura il suo Rachmaninov.



L’Orchestra Giovanile Italiana, a dispetto dell’età dei musicisti, si rivela compagine di notevole duttilità e, indirettamente, lascia pensare che Kochanovsky sia anche un eccellente preparatore musicale. Certo ci sono ancora alcuni limiti che si palesano soprattutto nella qualità dei forti, spesso grossi e poco brillanti, ma la bellezza dei pianissimi e soprattutto la varietà di colori cui i musicisti sanno piegarsi farebbero invidia a compagini di maggior esperienza e blasone. 
Giova senz’altro all’orchestra l’abilità tecnica del direttore, capace di riprendere in un istante la minima incertezza, levigare gli equilibri, suggerire e, all’occorrenza, tirare il freno laddove non si possa permettere certi scarti brucianti o un’eccessiva libertà nel modellare l’agogica (l’apertura delle Danze sinfoniche op. 45 di Sergej Rachmaninov è in tal senso emblematica).

Buon successo di pubblico, ultima replica questa sera (20 ottobre) al Teatro della Pergola di Firenze.

1 ottobre 2015

L’Elisir d’Amore di Donizetti trionfa alla Scala

Sono assai belle le scene firmate da Tullio Pericoli per l’Elisir d’Amore in scena al Teatro Alla Scala di Milano, spiace quindi che Grischa Asagaroff si impegni a fondo per mortificarle. Il lavoro del regista assembla sistematicamente tutto ciò che nell’Elisir, o nell’opera buffa in generale – ammesso e non concesso che tale sia il capolavoro donizettiano – sarebbe auspicabile bandire: mossette, ammiccamenti e sottolineature del grottesco, stereotipi e luoghi comuni. Il resto è lasciato all’iniziativa dei cantanti, con alterna fortuna e poca coerenza.



Ben più convincente e compatta risulta l’esecuzione musicale, a partire della direzione attentissima e brillante di Fabio Luisi il quale compensa i limiti di fantasia con una professionalità ed un’attenzione alla narrazione assolutamente impeccabili. 

Vittorio Grigolo poi è un Nemorino notevolissimo: vocalmente teme pochi confronti, la voce è bella e ben sostenuta, il volume importante; l’interprete è estroverso, si aiuta con qualche trucchetto di seconda mano ma restituisce un personaggio vivo e travolgente. Sul palco il tenore è incontenibile, salta, balla, si dimena, esaspera ogni smorfia e concetto, sempre ai limiti – e talvolta oltre i limiti – della forzatura.

Non è meno brava Eleonora Buratto, Adina pienamente risolta nel canto, morbido e rotondo, ma più timida sulla scena, il che non è necessariamente un limite.
Se la cava con classe Michele Pertusi, Dulcamara, pur palesando qua e là qualche segno di fatica; solido e convincente il Belcore (maltrattatissimo dal regista) di Mattia Olivieri. Molto positiva la prova di Bianca Tognocchi, Giannetta.

Scala gremita e applausi convinti per tutti. Ovazioni da stadio per Grigolo.

Paolo Locatelli
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5 settembre 2015

Herbert Blomstedt e la Gustav Mahler Jugendorchester a Pordenone

Chi c'era potrà confermarlo: è stata una gran bella apertura di stagione quella del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di PordenoneHerbert Blomstedt, glorioso maestro ormai alla soglia dei 90, e la Gustav Mahler Jugendorchester, una delle orchestre giovanili migliori al mondo.



C'è una cosa che colpisce immediatamente, bastano poche battute, nello strano sodalizio tra Herbert Blomstedt, ottantottenne direttore dalla carriera gloriosa, e la giovanile Gustav Mahler Jugendorchester: la capacità di ottenere di un'identità timbrica specifica, fortemente caratterizzata soprattutto nel calore e nella rotondità degli archi. Qualità che ben si adatta al tardo romanticismo della Sinfonia n. 8 in do minore di Anton Bruckner, opera in programma per il concerto d'inaugurazione della stagione 2015-16 del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone nonché tappa conclusiva della tournée estiva che ha portato orchestra e direttore su alcuni dei più prestigiosi palcoscenici europei.

È un Bruckner levigatissimo quello di Blomstend, calibrato in ogni dinamica ed equilibrio; non c'è passaggio che metta in difficoltà il Maestro cui basta un cenno per smorzare, suggerire, per chiedere un legato o ammorbidire un pianissimo. Tutto ciò riesce alla perfezione anche in virtù della capacità degli orchestrali di rispondere al più piccolo gesto del podio con una precisione che sarebbe sorprendente anche per professori d'orchestra adulti. Come accennato il suono orchestrale è splendido, archi e legni trovano una pastosità ed una pienezza fuori del comune, gli ottoni esibiscono tale precisione e brillantezza da far impallidire compagini ben più rodate ed esperte. Le sbavature sono minime, qualche lieve calo d'intonazione dei violini nell'attacco dell'Adagio e niente più. Herbert Blomstedt, sul podio, guida con paterna dolcezza i suoi orchestrali riuscendo ad ottenere, oltre alla pregevolissima compattezza di suono, una fluidità espositiva che dà organicità alla sinfonia, restituendo un'idea personale e consolidata sull'universo bruckneriano. 

A fine concerto accoglienza trionfale del pubblico in sala con ovazioni da stadio per Blomstedt, festeggiato anche dai musicisti della Gustav Mahler Jugendorchester.

4 luglio 2015

Don Giovanni a Villa Manin

Da diversi anni il Piccolo Festival Fvg propone un'offerta musicale valida e originale, scovando titoli assai interessanti nel repertorio operistico, cameristico, in ambito sinfonico e, di tanto in tanto, concedendosi qualche escursione in territori più noti e frequentati; è il caso del Don Giovanni di Mozart in cartellone per l'edizione 2015, titolo tra i più celebri del teatro musicale. La scelta è sicuramente audace e rischiosa, se non in termini di sbigliettamento, per la mole di confronti cui ogni interprete del capolavoro mozartiano si presta, soprattutto per una realtà, come quella del Festival, che non dispone di mezzi economici tali da competere alla pari con istituzioni più solide e prestigiose.


Diciamo subito che la scommessa del Piccolo Festival è vinta. Lo spettacolo di Davide Garattini funziona molto bene, si giova di una regia curata e vivace e delle belle scene di Davide Amadei, ben calate nella suggestiva cornice che ospita la rappresentazione, Villa Manin di Passariano (lo spettacolo è stato replicato anche a Trieste, al Castello di San Giusto domenica 5 luglio). L'impianto scenografico è semplice ma suggestivo: sul palco trovano posto una serie di letti che, oltre ad accogliere l'azione, ben rappresentano quelli che sono i temi portanti di questo spettacolo: amore e morte. L'impostazione registica esalta gli opposti, in un conflitto quasi manicheo; i caratteri e le emozioni sono stereotipati secondo la tradizione più radicata ma senza sconfinare nella caricatura. Don Giovanni è irrimediabilmente un cattivo e chi ha sventura di incontrarlo cade vittima delle sue trame senza possibilità di scampo. In quest'ottica il finale altro non è che la celebrazione della giusta punizione per un uomo privo di morale; l'idea non è freschissima ma è svolta con coerenza e consapevolezza.

I cantanti sono, pur con alti e bassi, all'altezza della situazione: buona la prova di Bruno Taddia, Don Giovanni violento e cinico secondo il disegno registico ma mai rude nell'emissione; la Serenata del secondo atto in particolare colpisce per morbidezza e nitore della linea. Laura Giordano è una Donna Anna molto convincente ma soprattutto una cantante da tenere d'occhio in quanto dotata di notevoli risorse tecniche e vocali. Diana Mian, Elvira, dopo una sortita incerta recupera nel secondo atto dove restituisce un'eccellente esecuzione dell'aria Mi tradì quell'alma ingrata. Il tenore Matteo Mezzaro alterna momenti prodigiosi - la prima parte dell'aria Il mio tesoro intanto è cantata davvero benissimo - ad incertezze ed imprecisioni di intonazione; Marco Camastra è un Leporello musicalissimo ma in difficoltà nel registro acuto. Molto positiva la prova di Antonio Di Matteo (Commendatore), sicuri e disinvolti Andrea Zaupa e Sharon Zhai rispettivamente Masetto e Zerlina.

L'unica vera pecca è l'Orchestra dell'Opera di Stato Slovena di Maribor, molto imprecisa nonostante la prudentissima concertazione di Tara Simoncic. Completa il quadro il Coro USCI FVG preparato da Nicola Pascoli.

Lo spettacolo si chiude sulla morte del protagonista, senza la morale finale, tra gli applausi del pubblico presente.

30 giugno 2015

Il Falstaff di Bauduin al Verdi di Trieste

Si dice che il Fastaff di Giuseppe Verdi sia opera da grandi direttori ancor prima che da grandi cantanti e, come in ogni luogo comune, un fondo di verità c’è. Non perché la partitura richieda doti di virtuoso fuori dal comune, benché la quadratura ritmica di certe pagine sia tutt’altro che scontata, quanto piuttosto per la complessità esegetica del disegno generale, la necessità di incastonare ogni dettaglio, e i dettagli nel Falstaff sono un’infinità, in una visione più ampia. Quando Verdi scrisse quest’opera aveva ottant’anni, una fama oceanica e niente da dimostrare a nessuno. Nella musica tutto ciò è lampante: ogni invenzione ritmica e cromatica serve esclusivamente il teatro, versi e musica sono pressoché inscindibili e l’azione ne scaturisce con una naturalezza più unica che rara. Si comprende quindi come il direttore debba saper valorizzare tale alchimia, resistendo alla tentazione di “suonarsi addosso”. 



José Miguel Pérez Sierra è un giovane maestro semisconosciuto che sta muovendo i primi passi nel teatro musicale; la sua prova nel Falstaff in scena al Teatro Verdi di Trieste lascia intravedere un musicista dotato di talento e, soprattutto, di intelligenza. L’intelligenza di chi sa capire il lavoro che sta affrontando e la contingenza in cui è chiamato a farlo: Pérez Sierra non mette alle corde l’orchestra con richieste implausibili, tutt’altro, sollecita una narrazione distesa, colma di buonsenso, ben calibrata nei volumi e nei colori. I musicisti rispondono offrendo una prova di buon livello e dimostrando, una volta in più, di appartenere ad una compagine di notevole qualità e duttilità. Altro merito da riconoscere al maestro è il rispetto per il dettato verdiano, ripulito da molti malvezzi tradizionali ed impreziosito da diverse idee originali.

La regia di Mariano Bauduin ha un pregio non indifferente: la vivacità. Lo spettacolo si rifà ad un modello di teatro antico in cui si ottiene molto da poco, le scene di Nicola Rubertelli (teli dipinti come fondali e pochi elementi sul palco) aiutano l’azione, rendendo lo svolgimento agile e brillante. Si potranno poi discutere talune scelte specifiche (Bardolfo che annuisce alle domande retoriche di Falstaff sull’onore è trovata tra le più fruste ed abusate) ma, nel complesso, lo spettacolo funziona.

Purtroppo l’esecuzione vocale si attesta su un livello decisamente meno soddisfacente; non convince il protagonista Alberto Mastromarino il quale, nonostante la discreta presenza scenica, pena non poco nel canto e nella tenuta ritmica della parte. Il resto del cast, fatta salva qualche eccezione (su tutti la Quickly della brava Giovanna Lanza), suscita più d’una riserva. Repliche fino al 5 luglio.

A Udine arriva la San Francisco Symphony Youth Orchestra

È un Mahler preso estremamente sul serio quello di Donato Cabrera: titanico, magniloquente, che si adagia in contemplazione quando le dinamiche si fanno leggere e i tempi sono distesi e s'infiamma nelle esplosioni orchestrali. Un Mahler celebrativo e pomposo che vola altissimo nelle intenzioni ma che, in fin dei conti, riesce a scavare poco a fondo nella poetica del compositore austriaco.


La lettura della Sinfonia n.5 in do diesis minore che il maestro americano porta al Teatro Nuovo Giovanni da Udine alla guida della San Francisco Symphony Youth Orchestra, orchestra giovanile non priva di qualità, si rivela un piacevole ascolto ma, con molta probabilità, non avrà incidenza alcuna sulla storia dell'interpretazione. È ormai molto difficile rinunciare, in Mahler, accanto alla grandiosità più esteriore dell'impianto, alle più sottili implicazioni, all'ironia, alle venature malinconiche, al coraggio di spingersi, in certi momenti, oltre i limiti del grottesco. D'altronde già Freud osservò quanto nella mente di Mahler, e quindi nella sua musica, tragedia e frivolo divertimento fossero inestricabilmente connessi. Cabrera si ferma all'esaltazione della macchina grandiosa costruita dal compositore, ricercando (e in gran parte dei casi ottenendo) un suono scintillante e luminoso e sublimando le pagine più liriche e distese con un sentimentalismo quasi ingenuo; l'Adagetto ad esempio, staccato con una lentezza tale da mettere in seria difficoltà i violoncelli, è assaporato con tale svenevolezza da risultare, in fin dei conti, stucchevole. Funzionano decisamente meglio la Parte I ed il Rondo-Finale cui, tutto sommato, giova la vibrante estroversione, molto “americana”, infusa dal podio.

L'orchestra, a dispetto dell'anagrafe dei musicisti, risponde molto bene, benissimo per quanto riguarda gli archi, mentre gli ottoni pasticciano in più di una occasione.

Non solo Mahler nel programma dell'orchestra statunitense: la prima parte di concerto, dopo una Pavane per orchestra in fa diesis minore op. 50 di Fauré non indimenticabile, vede protagonista il bravo Sergey Khachatryan impegnato nel Concerto in sol minore op.26 per violino e orchestra di Max Bruch. Il violinista è ottimo virtuoso dello strumento ed abile fraseggiatore, controlla prodigiosamente le dinamiche (tutte le sfumature dei piani e pianissimi sono assai suggestive) mentre è meno vario e fantasioso in fatto di colori. L'orchestra lo sostiene correttamente pur eccedendo in pesantezza nei momenti di maggiore concitazione.

A fine concerto accoglienza festosa del pubblico in sala, premiato da due bis.

10 giugno 2015

Chung dirige la Staatskapelle Dresden

Ci voleva un'ottima ragione per convincermi a rinunciare alla finale di Champions League, che poi non è andata neppure benissimo. Ebbene una ragione l'ho trovata: a Udine Myung whun-Chung dirigeva la Staatskapelle Dresden, non serve aggiungere altro. Non è stato difficile decidere dove andare e, a conti fatti, la scelta è stata vincente.

La Staatskapelle Dresden è la classica orchestra di cui si sente dire che potrebbe permettersi di suonare senza direttore mantenendo comunque altissimo il valore dell'esecuzione; tali sono la perfezione strumentale e la qualità del suono espresse, che probabilmente è vero. Se però un maestro sul podio c'è, ed ha la classe e lo spessore di Myung-Whun Chung, l'esito del concerto appare quasi scontato. Nonostante già in partenza le aspettative per la prova dell'orchestra di Dresda al Teatro Nuovo Giovanni da Udine fossero molto alte, quello che si è ascoltato ha superato le più rosee previsioni. Avranno sicuramente giovato l'affiatamento che lega il direttore coreano all'orchestra, di cui è Direttore Ospite Principale o il fatto che il concerto, dopo tre repliche alla Semperoper ed una al Musikverein, fosse rodato alla perfezione, fatto sta che è molto raro ascoltare, soprattutto in Italia, un'esibizione sinfonica di tale pregio esecutivo e compiutezza.

Myung-Whun Chung si conferma, ad ogni ascolto, musicista tra i più interessanti in circolazione. Il direttore pare aver raggiunto la maturità artistica di chi scava nella musica ricercandovi l'essenziale, scansando qualsiasi cedimento alla retorica. Lo dimostrano la fluidità e la mobilità ritmica che sa trarre dall'orchestra, la rinuncia ad ogni enfasi o sottolineatura, il gesto minimale e pulito: la musica che ne scaturisce pare illuminata da pennellate, sgorga con tale naturalezza da lasciare incantati.

Brillantissima l'esecuzione della Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 36 di Beethoven dove l'organico ridotto, se, com'è giusto che sia, alleggerisce il peso orchestrale, nulla sacrifica in pienezza e splendore del suono. Ogni inciso è timbricamente differenziato, i violini primi esibiscono un colore completamente diverso dai secondi, i legni sfoggiano una pastosità rara a sentirsi. L'introduzione felpata e misteriosa pare richiamare le atmosfere del Franco Cacciatore di Weber, poi, via via, la sinfonia prende vita, culminando in un Allegro molto tellurico negli accenti e nella vivacità dei tempi adottati, acceso da scarti dinamici brucianti.

Nella Sinfonia n. 4 in sol maggiore "La vita celestiale" di Gustav Mahler Chung sa trovare un equilibrio squisito tra la minuziosità dell'analisi armonica e contrappuntistica della partitura e la fluidità dello svolgimento. L'assoluta trasparenza della trama orchestrale non solo lascia scorgere ogni singola nota del più recondito inciso, ma ciò che più colpisce è la caleidoscopica ricchezza di tinte cui ogni strumento è sollecitato. A momenti si ha l'impressione che i musicisti sul palco si moltiplichino, tale è la gamma di colori che riescono ad esprimere. Non che il lavoro del maestro si limiti ad un esercizio di vivisezione della partitura, tutt'altro: l'interpretazione di Chung vive di sottilissime inflessioni ritmiche che, senza indugiare in rallentandi o accelerazioni eclatanti, infondono alla musica una vitalità pulsante. Non c'è un momento in cui la partitura risulti solfeggiata o rigidamente scandita, tutto scorre senza cedimenti o forzature, in un fluire continuo. La trasparenza della concertazione ha inoltre il merito di sottrarre la musica mahleriana all'enfasi elefantiaca di cui spesso cade vittima, portando la sinfonia ad una dimensione che forse è eccessivo definire intimistica ma che senz'altro è caratterizzata da una mirabile attenzione al dettaglio ed agli equilibri. Convincente il soprano Sophie Karthäuser nel Lied che conclude la sinfonia.

Trionfale l'accoglienza del pubblico a fine concerto.

28 maggio 2015

Francesca Dego e Daniele Rustioni in concerto

Il Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone festeggia i suoi primi dieci anni di attività e lo fa nel migliore dei modi, con un bel concerto di Francesca Dego accompagnata da Daniele Rustioni, compagno nella vita e, per l'occasione, nell'arte.



Il 28 maggio del 2005 toccò a Lorin Maazel inaugurare il neonato Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, oggi, per celebrare un anniversario simbolicamente assai significativo, è la volta di Francesca Dego e Daniele Rustioni, alla guida dell'Orchestra da Camera di Mantova: sono infatti loro i protagonisti del concerto conclusivo della stagione, evento nato innanzitutto per celebrare i dieci anni di attività del teatro.

Concerto dall'esito assolutamente sorprendente, a dispetto di ogni pregiudizio. Francesca Dego si rivela musicista dalle grandi qualità, capace di risolvere con irridente facilità ogni scoglio tecnico del Concerto in Re maggiore op. 35 per violino e orchestra di Pëtr Il’ič Čajkovskij, senza però inciampare nella freddezza e nella meccanicità che non è raro riscontrare nei giovani interpreti. Il suono del suo violino è caldo e rotondo, la pulizia e l'intonazione sono inappuntabili, la cantabilità ed il lirismo dei temi nell'Allegro moderato trovano la giusta esaltazione. Nonostante la tecnica strumentale sia di prim'ordine, la Dego resiste ad ogni tentazione di esteriorità, sia nell'asciuttezza del fraseggio, per nulla ammiccante o svenevole, sia nella naturalezza con cui risolve i passaggi di maggiore virtuosismo che non danno mai l'impressione di ricercare l'effetto plateale. Daniele Rustioni riesce a sostenere la solista con devozione, assecondando ogni inflessione ritmica e ogni dinamica suggerita dal violino; sarebbe tuttavia ingeneroso liquidare la prova dell'orchestra, che per altro suona in modo eccellente, come mero accompagnamento: il direttore riesce a creare un rapporto simbiotico tra gli strumentisti e la Dego, basterebbe citare la spontaneità e la delicatezza che caratterizzano il dialogo tra legni e solista nella canzonetta.

Convincente l'esecuzione della Sinfonia in do maggiore, lavoro che, com'è noto, fu licenziato da un giovanissimo Georges Bizet. Rustioni sceglie forse la via più facile, quella dell'esaltazione della musica in quanto tale, offrendo una lettura epidermica e bruciante che non si preoccupa di ricercare in partitura significati reconditi (e non è affatto detto che sia un torto, nel caso specifico) ma che rende giustizia alla scrittura travolgente ed immediata dell'opera. La sinfonia esce tesissima e brillante, ritmicamente molto elastica, elegante anche laddove il direttore tenda a calcare la mano sull'accentazione (in particolare nello scherzo: minuetto). La gestualità plateale ed istrionica del maestro non si risolve, fortunatamente, in forzature ma in sonorità vivaci e sempre controllate; impeccabile sotto il profilo tecnico l'esecuzione per quanto riguarda intonazione, pulizia degli attacchi ed omogeneità di suono. L'orchestra evidenzia notevole trasparenza ed assoluta precisione; sugli scudi i legni. Non sarebbe spiaciuta forse, nel complesso, una maggiore varietà di colori.

Ottima l'accoglienza del foltissimo pubblico, fin troppo incline all'applauso anche dove sarebbe il caso di contenere l'entusiasmo (come nelle pause tra movimenti di una stessa composizione).

Norma di Bellini secondo Kara Walker alla Fenice

In arte un’idea, per brillante che sia, da sola serve a poco se non c’è, accanto al pensiero, la capacità di dargli forma e concretezza. La Norma in scena al Teatro La Fenice esemplifica il concetto alla perfezione. D’altronde, per quanto spiaccia ravvisarlo, è molto probabile che finisca così quando regia, scene e costumi vengono affidati ad una brillante artista, nel caso specifico Kara Walker, pittrice e scultrice, completamente digiuna di teatro musicale. 

L’idea su cui nasce lo spettacolo sarebbe anche apprezzabile: contestualizzare la vicenda belliniana nell’Africa coloniale del XIX secolo, ricalcando le linee del romanzo Heart of Darkness. Ci aveva pensato anche Francis Ford Coppola quando, per raccontare il tragico Vietnam americano, rimasticò il lavoro di Conrad, giungendo, a onor del vero, a ben altri traguardi. Perché non dovrebbe funzionare allora con l’opera di Bellini? Al di là delle inevitabili forzature, che qualsiasi ribaltamento di contesto ingenera, lo spettacolo veneziano non funziona perché l’idea di partenza resta un abbozzo non svolto, un presupposto che non evolve. Se in un processo di ricontestualizzazione si limita lo sforzo registico al solo cambio di fondali e costumi, lasciando da parte ogni approfondimento sui caratteri e ripescando la solita frusta recitazione delle Norme-peplum, a che giova il ribaltamento di ambientazione? Purtroppo di Conrad, dell’Africa brutalizzata dagli invasori, in questo spettacolo non resta che qualche traccia, nei cenni delle note di regia e nei costumi; ed in fin dei conti, considerando le incongruenze con il libretto, probabilmente il gioco non vale la candela.



Fortunatamente l’esecuzione musicale si attesta su ben più soddisfacenti livelli. Carmela Remigio è una Norma più che convincente, capace di dar vita ad un personaggio profondamente umano in cui la madre prevale nettamente sulla sacerdotessa. Il canto patisce qualcosa nella linea delle lunghe arcate melodiche belliniane ma vince nei tantissimi recitativi, cesellati con dovizia, nel finale, nel toccante duetto con Adalgisa del secondo atto. Lo scavo della frase e la ricchezza di colori ed inflessioni sono la forza della sua interpretazione, sicuramente distante dai modelli (gloriosi e non) e da molti vizi della tradizione.

Ottima la scelta di affidare la parte di Polline a un cantante dalla formazione belcantistica come Gregory Kunde, sia perché il bagaglio tecnico, consolidato su questo repertorio, gli consente di divorarsi con irridente facilità ogni insidia, sia perché la maturità del personaggio si adatta all’anagrafe del tenore americano. Il registro acuto ritrova, nella scrittura belliniana, lo smalto e la brillantezza che non sempre riesce a mantenere nel repertorio più tardo, i centri sono corposi e sonori; la pregnanza stilistica è poi straordinaria.

Davvero eccellente sotto ogni aspetto l’Adalgisa di Veronica Simeoni, nell’intensità del fraseggio, nella limpidezza del canto: la voce è di timbro brunito, omogenea in ogni registro, musicalità ed intonazione sono impeccabili.

Dmitry Beloselskiy è un Oroveso vocalmente autorevole ma con qualche limite stilistico. Buone le prove di Anna Bordignon (Clotilde) ed Emanuele Giannino (Flavio).

Non è facile comprendere le ragioni delle isolate contestazioni rivolte, nel successo generale, al direttore Gaetano d’Espinosa. Il maestro cura attentamente sia la qualità del suono, sia il sostegno al canto, indovina momenti di grande bellezza strumentale (meravigliosi gli archi in apertura di secondo atto) ma soprattutto sa sostenere la narrazione senza cali di tensione. Orchestra in grande forma così come il coro.

Trionfo per tutti i protagonisti a fine recita.

Paolo Locatelli
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13 maggio 2015

Bignamini porta la sua Butterfly alla Fenice

Il teatro musicale impone delle regole formali vincolanti, in questo si differenzia da altre esperienze creative che lasciano all'artista una totale, o quasi, libertà di manovra. Nell'opera c'è innanzitutto un testo che va rispettato, sia nel libretto sia nella musica, ci sono necessità inderogabili del canto e, non ultimo, c'è uno strettissimo disegno di tempi e ritmi entro i quali l'azione prende luogo; la fantasia e le idee di un regista devono necessariamente scendere a compromessi con tutto ciò, anzi, dovrebbero uscire valorizzate dal confronto.


La Madama Butterfly in scena alla Fenice di Venezia, già recensita su queste pagine, esemplifica alla perfezione quanto insidioso possa essere questo compito: Alex Rigolà ha una lunga esperienza nel teatro di prosa mentre nell'opera è poco più che un debuttante; similmente Mariko Mori, artista e scultrice di fama internazionale che firma scene e costumi, affronta il melodramma come fosse un'installazione per la Biennale. Ne esce uno spettacolo laccatissimo ed elegante ma teatralmente zoppicante: la recitazione, oltre ad essere stereotipata al pari delle Butterfly più oleografiche, risulta prosaica e completamente avulsa dalla musica. Il contesto in cui viene calata la vicenda, una sorta di non-luogo asettico e impersonale dominato dal bianco, nulla aggiunge in termini di approfondimento alle centinaia di allestimenti tradizionali che i teatri propongono da oltre un secolo. Rimane, oltre alla gradevolezza estetica del tutto, qualche idea apprezzabile: il progressivo processo di perdita di cui è vittima Cio-Cio-San, con il distacco dalla società e dagli affetti è reso con efficacia così come convince il lavoro sul piccolo Dolore nel secondo atto, portato a cercare in Sharpless quella figura paterna che gli è mancata.

La ripresa di questo spettacolo, nato due anni fa, proponeva più d'una ragione di interesse in un cast composto da giovanissimi e promettenti cantanti, guidati da un direttore tra i più interessanti della sua generazione. Sappiamo quanto sia difficile credere ai quindici anni di Butterfly, dal momento che la scrittura della parte richiede una vocalità ampia e svettante, dote che raramente appartiene ad una cantante dall'aspetto adolescenziale; Svetlana Kasyan è una sorprendente eccezione alla regola, unendo alla freschezza della figura, mezzi vocali fuori dal comune. La Cio-Cio-San del soprano - assolutamente credibile innanzitutto nella fisicità, minuta e giovanile - è quanto di più infantile e capriccioso si possa immaginare; la Kasyan si tiene alla larga da introspezioni freudiane o rotture psicotiche, la sua Butterfly è una bambina, coinvolta in un meccanismo incontrollabile, che capisce troppo tardi di aver perso tutto. La vocalità è senz'altro impressionante per volume del registro acuto e bellezza del timbro, tuttavia risulta, ad oggi, ancora perfettibile sotto il profilo tecnico: il controllo del fiato è tutt'altro che impeccabile, sia nel legato, sia nell'emissione dei suoni che tendono spesso a perdere l'appoggio, soprattutto nei pianissimi; l'intonazione non è sempre a fuoco.

Per il Pinkerton di Vincenzo Costanzo, giovane tenore di belle speranze, le considerazioni sono di poco diverse: la voce è naturalmente dotatissima per volume e facilità di emissione ma difetta ancora di squillo e proiezione, l'interprete è naif ma appassionato ed impetuoso. Risulta assai credibile questo Pinkerton immaturo che, in preda alle passioni al pari della geisha, non riesce a ponderare le conseguenze delle proprie scelte.

Ottima la prova di Marcello Rosiello, Sharpless dalla voce ampia e timbrata, capace di risolvere con sensibilità e varietà d'accenti ed inflessioni l'insidioso canto di conversazione richiesto dalla parte.

Commovente, intensa e molto ben cantata la Suzuki di Manuela Custer.

Tra le moltissime parti minori si impone per precisione William Corrò (Yamadori) mentre il Goro di Nicola Pamio, vocalmente impeccabile, si concede alcune libertà musicali poco condivisibili. All'altezza della situazione tutti gli altri.

La direzione di Jader Bignamini è ricchissima di idee che, quando trovano realizzazione, aprono prospettive inedite sulla musica pucciniana: certi dettagli ritmici, enfatizzati senza alcuna pedanteria, o la secchezza espressionista degli impasti in taluni passaggi, evidenziano la modernità della partitura, che nella lettura di Bignamini pare quasi presagire alcune conquiste cui giungerà Stravinskij nei suoi balletti. Purtroppo i momenti più lirici e distesi risultano deboli sia nell'esecuzione musicale (non c'è mai il giusto sostegno al palcoscenico in termini di amalgama tra strumenti e voci), sia nella tenuta della narrazione: la lentezza esasperata del finale primo o di ampi tratti del secondo atto (compresa l'aria di Butterly Un bel dì vedremo), oltre a mettere alle corde i cantanti, annacqua la tenuta drammatica della vicenda.

L'impressione generale è che la compagnia necessiti ancora di qualche recita di rodaggio per rifinire i dettagli e trovare il giusto affiatamento. Alterna la prova del coro, sicuramente sfavorito dalla sciagurata idea registica di disporre i cantanti in platea durante il finale secondo, così da comprometterne irrimediabilmente l'esito.

Il pubblico, generoso ed entusiasta, ha salutato trionfalmente la protagonista e i principali interpreti della recita.


10 maggio 2015

La Bohème di Bignamini alla Fenice

In un’ottica programmatica ispirata ai teatri di repertorio d’oltralpe, la Fenice di Venezia ha ormai scelto di inserire alcuni spettacoli in cartellone con cadenza praticamente annuale, puntando, con lungimiranza e intelligenza, ad un pubblico turistico che finora si è sempre dimostrato molto ricettivo. L’idea è quella di investire, parallelamente alla stagione di produzione, su opere di richiamo declinate secondo diverse sfumature: si va dal Carsen dell’ormai storica Traviata ai più innocui allestimenti di Morassi, passando per il geniale Mozart di Michieletto fino appunto alla Bohème di Francesco Micheli, spettacolo per cui ci sentiamo di ribadire le impressioni ricavate nel corso delle scorse stagioni: 

“Lo spettacolo è fresco, giovanile, coinvolgente nella sua bozzettistica semplicità. Non una Bohème sconvolgente o che si proponga chissà quali orizzonti interpretativi ma, cosa forse ancor più difficile, originale senza sconvolgere drammaturgia ed ambientazione. Le scene firmate da Edoardo Sanchi propongono una Parigi da vendere ai turisti, immaginata piuttosto che veritiera, uno sfondo fumettistico che accompagna e racconta da vicino le sfortunate storie dei Bohémiens pucciniani. La vicenda è incastonata in una cornice di simboli che rimandano alla Ville Lumière, dalla Tour Eiffel alle Folies Bergère, il tutto a costellare i luoghi che prescrive il libretto e che si è abituati ad associare all’opera. Insomma c è tutto quello che ci si aspetterebbe di trovare in una Bohème, dalla soffitta alla neve del terzo atto, ma non solo. Anche il secondo quadro è magnificamente risolto senza scadere nei zeffirellismi in sedicesimo di facile effetto che si vedono un po’ dappertutto. La Parigi da cartolina, stereotipata, che viene proposta tende necessariamente a mitigare la pulsione naturalista dell’opera, spostandola su un livello favolistico o quantomeno romanzesco. La regia di Micheli, in perfetta sintonia con l’ambientazione, è scorrevole, spontanea ed immediata, coinvolgente e simpatica pur concedendosi alcuni siparietti di forzata comicità di cui non si sarebbe sentita la mancanza.” 



Giunto alla sua quarta ripresa in pochi anni, lo spettacolo di Micheli, dopo aver goduto della lettura sinfonica di Valchua e di quella più tradizionale di Callegari, prima di passare sotto la bacchetta alterna di Matheuz, trovava in Jader Bignamini un interprete notevole. Bignamini dimostrava di privilegiare il teatro al calligrafismo sinfonico, restituendo una Boheme asciutta ma intensa, in cui la violenza quasi toscaniniana di alcuni passaggi (i momenti di “convivialità” dei quattro amici in soffitta e il finale secondo) cedeva il passo ad abbandoni lirici nel racconto dell’intimità dei protagonisti. L’orchestra suonava con buona precisione, una certa genericità timbrica – in un’ottica che tendeva a posporre la cura dell’orchestrazione al senso narrativo della musica – giungendo a risultati di grande sinergia con il palcoscenico. 

In un cast omogeneo e convincente Carmen Giannattasio era una Mimì sicura nel canto e sulla scena. Il soprano, con l’evidente complicità del podio, costruiva la propria interpretazione lavorando sulla dinamica piuttosto che sul fraseggio; in particolar modo il finale d’opera, giocato tra pianissimi e sussurri, risultava particolarmente efficace. Il Rodolfo di Matteo Lippi, nonostante alcune aperture in acuto, convinceva per spontaneità e freschezza. 

Ottima la prova del baritono Julian Kim, cantante dallo strumento privilegiato per volume e colore cui si potrebbe chiedere soltanto un maggiore approfondimento del fraseggio. Francesca Dotto era una Musetta corretta, ben cantata e disinvolta sulla scena. 

Eccellente il Colline di Andrea Mastroni, basso di bellissima voce ed ottima tecnica, capace di cesellare l’aria del quarto quadro con una mezzavoce timbratissima e di grande morbezza. Armando Gabba confermava le buone impressioni fornite nelle scorse stagioni cantando senza sbavature la parte di Schaunard. All’altezza della situazione tutte le parti minori e il sempre impeccabile coro del teatro La Fenice. 

Paolo Locatelli
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