28 febbraio 2015

Laura Bortolotto in concerto con l'Orchestra Sinfonica Abruzzese

Laura Bortolotto è una giovane violinista pordenonese che, alla soglia dei vent'anni, sta bruciando le tappe con una carriera di respiro internazionale. Può darsi che l'approdo al palcoscenico del Teatro della propria città non aggiunga molto, in termini di prestigio, al curriculum di chi si è già esibito a Santa Cecilia, Salisburgo o Venezia, ma siamo certi rappresenti una gratificazione personale non da poco. Tanto più che l'accoglienza del pubblico di casa è stata entusiastica.

Accompagnava la violinista, nel suo primo concerto al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, l'Orchestra Sinfonica Abruzzese diretta da Marcello Bufalini, compagine di buon livello, capace di notevole duttilità dinamica.

Iniziamo dalla fine: corretta anche se leggermente anonima la seconda porzione di concerto, dedicata ad un repertorio novecentesco poco frequentato, la Pastorale d'été, H. 31 di Arthur Honegger e le Danze di Galanta di Zoltán Kodály. L'orchestra affrontava i brani con precisione, dinamiche suggestive (molto belli i pianissimi) e discreta compattezza. Il pregio timbrico non è quello delle compagini più blasonate ma l'equilibrio dell'amalgama ed il buonsenso del podio, capace di condurre l'esposizione con chiarezza e pulizia, restituivano un'esecuzione assolutamente convincente.

La prima parte di concerto viceversa, aperta da una Leonore 1 piuttosto meccanica, vedeva il trionfo della beniamina di casa che, oltre ad essere molto giovane, è anche parecchio brava. Il Concerto per violino e orchestra in re minore di Robert Schumann metteva in luce una musicista dalle solide abilità tecniche e, sorprendentemente per l'età, dalla grande sicurezza. La performance della Bortolotto è andata crescendo minuto dopo minuto: dopo un primo movimento leggermente inficiato da una certa rigidità di fraseggio, dall'adagio la violinista è stata capace di trovare un suono morbido e rotondo, al servizio di un'ottima musicalità e di indiscutibili doti nel legare la frase. L'interprete è sobria ed elegante, completamente estranea all'esibizionismo virtuosistico fine a se stesso di molti esecutori. Bufalini seguiva con discrezione, plasmando l'orchestra con leggerezza e sensibilità verso le esigenze della solista.

Il pubblico ha accolto con entusiasmo la performance della violinista, che ha ringraziato con la Passacaglia per violino solo di Biber, e l'orchestra, congedatasi con la Danza ungherese N.5 di Brahms.

22 febbraio 2015

Il Don Pasquale di Donizetti al Teatro La Fenice di Venezia

Se c’è una cosa che un regista d’opera dovrebbe essere capace di fare, questa è la costruzione dell’azione scenica sulla musica, sfruttandone accenti ed inflessioni, assecondandone la narrazione. Dire che tale abilità sia minoritaria tra chi si occupa di teatro musicale, almeno nel nostro paese, è un garbato eufemismo: è tristemente noto che non pochi intendano la regia quale sinonimo di scenografia, tuttalpiù come pedissequo svolgimento delle didascalie del libretto. Il Don Pasquale di Italo Nunziata, in scena al Teatro La Fenice, è una piacevolissima eccezione alla regola: uno spettacolo fresco e scorrevole, in cui il sorriso non cede mai il passo al riso, che lascia emergere le sottili malignità, le malinconie, le illusioni che della commedia donizettiana sono ingredienti fondamentali. Il tutto partendo dalla partitura: ogni gesto è pensato sulla musica, non relegata dunque a colonna sonora dell’azione ma, com’è giusto che sia, elemento narrativo primario. Scene e costumi di Pasquale Grossi sono curati, esteticamente gradevoli e funzionali al disegno; la vicenda è ambientata nella prima metà del XX secolo, Don Pasquale è un imprenditore che se la cava bene con gli affari e male con le donne, Ernesto e Norina paiono usciti da una commedia di Wilder. L’approccio al lavoro è profondo ma non serioso, il taglio drammaturgico rinuncia alla comicità più esteriore senza essere pedante.



Roberto Scandiuzzi ha poco in comune con i Pasquale di tradizione, nel bene e nel male: la voce è sontuosa per timbro ed ampiezza, il volume importante, tuttavia è difficile non avvertire una certa estraneità stilistica al canto donizettiano. La tendenza a legare le frasi anche laddove sarebbe richiesta una scansione ritmica bruciante (come nel sillabato) e ad omogeneizzare il suono in una rotondità senz’altro fondamentale in altro repertorio ma qui poco incisiva, privano la performance di quella varietà di colori ed accenti che ne consentirebbero il salto di qualità. Leggerina ma frizzante e stilisticamente a posto la Norina di Barbara Bargnesi, la quale è anche una notevole attrice, il che aiuta non poco l’economia dello spettacolo. 

Encomiabile Davide Luciano nei panni del Dottor Malatesta per padronanza tecnica e stilistica nonché per bellezza dello strumento; non è imprudente prevedere una brillante carriera per il giovane cantante se saprà continuare su questa strada. Delude invece Alessandro Scotto Di Luzio, in difficoltà nella scomoda tessitura di Ernesto; la voce ha timbro di prima qualità nel medium ma tende a perdere appoggio e conseguentemente intonazione già dal passaggio. Lodevole il notaro di Matteo Ferrara che pulisce la piccola parte delle stratificazioni di vezzi e macchiettismi a cui in pochi sanno rinunciare.

Omer Meir Wellber, che ormai alligna sul podio del teatro veneziano, concerta con buon passo teatrale, sostenendo il palco e curando bene l’accompagnamento al canto. Non c’è al momento, nel suo Donizetti, la profondità d’analisi che abbiamo apprezzato in Verdi, ma nemmeno gli scivoloni belliniani. Una direzione efficace, con ottimi momenti (secondo atto) e qualche pesantezza di troppo qua e là; l’orchestra ha visto serate migliori. 

Bene il coro preparato da Claudio Marino Moretti.

Paolo Locatelli
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10 febbraio 2015

Konzerthausorchester Berlin a Udine

La Konzerthausorchester di Berlino è  poco nota al pubblico italiano, surclassata per fama ed accesso al mercato discografico dalle compagini germaniche più antiche e blasonate. Sorprende non poco scoprire, all'ascolto dal vivo, che si tratta di un'orchestra, se non di primissimo livello, dalle mirabili qualità, priva di debolezze eclatanti e tecnicamente solida. Il concerto che l'orchestra berlinese ha tenuto al Giovanni da Udine, guidata da Michael Sanderling, si è rivelato l'ennesima conferma in merito alla bontà della stagione musicale del teatro. Aggiungeva fascino alla serata la presenza del bravo Martin Helmchen, giovane pianista dalle indiscutibili doti di virtuoso che spalleggiava la Konzerthausorchester in un programma interamente dedicato alla musica russa del XX secolo.



La Suite n. 1 da Cenerentola op. 107 di Sergej Prokof'ev è risultata il momento più debole della serata: non che si sia trattato di un'esecuzione mediocre, tutt'altro, l'orchestra ha suonato con precisione e buona varietà di dinamiche. Non altrettanto varia risultava la gamma di sfumature cromatiche e soprattutto agogiche, a causa d'un podio talvolta incline ad eccedere nel rigore metronomico (in particolar modo nel Walzer).

Martin Helmchen dava del Concerto n. 2 in sol minore op. 16 per pianoforte e orchestra di Sergej Prokof'ev una lettura estroversa ed epidermica, convincente per brillantezza e luminosità del suono ma poco incline all'approfondimento. Il pianista giocava le sue carte migliori nel rigore ritmico, tradotto in scansione bruciante, grazie ad un approccio vigoroso alla scrittura ma mai pesante, fluido e brillante. La povertà dei colori tuttavia faceva sì che alla lunga l'esaltazione per il virtuosismo tecnico lasciasse spazio a qualche perplessità circa la monotonia del disegno interpretativo. L'orchestra sosteneva il pianoforte con buona qualità di suono ma non senza sbavature ritmiche nell'accompagnamento.

La seconda porzione di concerto, dedicata alla Sinfonia n. 5 in re minore op. 47 di Dmitrij Šostakovič, si collocava su livelli superiori, probabilmente in virtù di una maggiore confidenza dell'orchestra con il lavoro in programma. Sanderling ne esaltava lo spirito per così dire reazionario, accentuandone il lato più tragico e serioso piuttosto che ricercarvi gli stilemi propriamente novecenteschi, in termini di impasti timbrici e sottolineature armoniche. Ne usciva una lettura coerente e compiuta, retta senza cedimenti nel suo sviluppo. Il largo del terzo movimento ad esempio, pur staccato con un tempo molto lento, era sostenuto alla perfezione ed impreziosito da dinamiche leggerissime. L'impostazione interpretativa comportava necessariamente la rinuncia a qualcosa in termini di grottesco, di esaltazione dei contrasti, a sfiorare soltanto le novità di scrittura che un approccio più analitico avrebbe messo altrimenti in luce.

Molto buona l'accoglienza del pubblico udinese che ha salutato gli artisti con applausi calorosi.

1 febbraio 2015

Arcadi Volodos al Giovanni da Udine

La ricchezza di colori, inflessioni e sfumature, la sottigliezza nella gestione ritmica e cromatica di ogni singolo inciso; se è vero che il grande artista si rivela nel dettaglio infinitamente piccolo, non possiamo che ritenere tale Arcadi Volodos. Né sarebbe tuttavia onesto ridurre ad un esercizio di calligrafia e vivisezione della partitura l'interpretazione musicale del pianista, che vive innanzitutto di compiutezza ed organicità rare. La tecnica è di prim'ordine, prodigiosa per controllo e funambolismo quanto per la qualità del suono (pulizia, legato, bellezza del colore in ogni escursione dinamica, equilibrio), ed è al servizio di un interprete se possibile ancor più sensibile del virtuoso.

Ormai non fa quasi più notizia dare conto di esecuzioni di primissimo livello al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, tale è il pregio dell'offerta musicale della stagione in corso come di quelle recentemente trascorse. Risulta quindi ancor più sorprendente ravvisare, nella prova di Arcadi Volodos, i tratti dell'assoluta eccezionalità. Pianista russo dalla formazione peculiare, virtuoso e tecnico dello strumento con pochi paragoni, eccentrico nelle scelte e nel percorso artistico, Arcadi Volodos da quasi vent'anni è ospite fisso delle principali istituzioni musicali del mondo ove ha suonato a fianco delle maggiori orchestre, con maestri tra i più apprezzati sulla scena internazionale.
Aggiungevano ulteriore sale al concerto udinese i brani in programma, capisaldi della produzione di Brahms e Schubert, autori in cui è facilissimo essere banali o approssimativi quando non completamente vuoti di contenuti.

La partenza, con la trascrizione pianistica del sestetto per archi (Tema e variazioni in re min.-magg. dall’Andante del Sestetto per archi op. 18b) di Johannes Brahms, dopo un breve assestamento, sorprendeva per la chiarezza espositiva della scrittura musicale, con ogni voce armonica distinguibile e perfettamente bilanciata con le altre.
I Sei Pezzi (Klavierstücke) per pianoforte, op.118 di Johannes Brahms erano perfettamente distinti per carattere ed umore, pur non mancando una consequenzialità nell'idea interpretativa che desse compattezza all'opera. Una lettura giocata pressoché esclusivamente sul colore e sulle sfumature ritmiche, senza inciampare in sottolineature plateali o effetti a buon mercato ma pensando ogni singola frase e il suo significato all'interno della composizione. L'interpretazione di Volodos pareva avvicinare Brahms al novecento, scovando in questo lavoro relativamente tardo (1892) le connessioni con l'espressionismo incipiente piuttosto che con il romanticismo: ne scaturiva una lettura dall'impronta quasi jazzistica, mobile e contrastata senza essere frammentaria, lucida e trasparente ma per nulla fredda.
L'esecuzione della Sonata n. 21 in si bemolle maggiore D. 960 di Franz Schubert è stata - senza timore di sembrare imprudente nel giudizio - eccezionale. Al di là dei meriti prettamente tecnici, su cui sarebbe pleonastico ritornare, colpiva la compiutezza interpretativa dell'esecuzione: il fraseggio, la cura per il colore e le dinamiche e, soprattutto, la coerenza delle scelte agogiche, mai compiaciute o esteriori ma sempre inserite in un disegno, davano alla sonata una spontaneità ed una naturalezza commoventi. I temi che caratterizzano i movimenti vivevano, ad ogni ripresa, di nuove nuances, i passaggi più insidiosi erano risolti con fluidità tale da lasciare sbalorditi.
Il concerto è culminato in un trionfo personale per Volodos, accolto da interminabili applausi che sono stati generosamente ricompensati con quattro bis (Bach, Schumann e de Falla).