19 novembre 2017

Evgenij Onegin apre la stagione del Verdi di Trieste

Čajkovskij non era certo uno sprovveduto e sapeva benissimo che nell’Evgenij Onegin succede poco o nulla, tuttavia egli capì che la profondità poetica del ritratto umano che vi è racchiuso, così semplice e universale per Tat’jana, così lambiccato per il protagonista, poteva supplire a qualsiasi carenza. Certo non è un’opera da grandi gesti o pose tragiche ma da mezzetinte e sfumature, da finezze e dettagli, nel libretto come nella musica, perché non ci sono effetti da esasperare ma emozioni soffocate, occasioni perse, ironie, silenzi, illusioni e allusioni. Non c’è nemmeno una grande morte catartica finale che stemperi la tensione ma l’ergastolo da scontare in un’esistenza patetica e infelice. Insomma Onegin non è il classico triangolo operistico “lui-lei-l’altro” e se finisce per sembrarlo vuol dire che qualcosa non va.



Giustissima la scelta di puntare sul capolavoro di Čajkovskij per l’inaugurazione di stagione del Verdi di Trieste, dove mancava dal 2009, meno quella di ripescare un allestimento dell’Opera di Stato di Sofia che sembra uscito dalla soffitta della nonna. E non è questione di tradizione o meno, di ossequio al libretto o libertà creativa, ma esclusivamente di qualità della realizzazione. Un Onegin ambientato a inizio XIX secolo è legittimo, un Onegin che non si cura minimamente delle ragioni psicologiche dei personaggi o che, peggio, le risolve affidandosi a pochi stereotipi triti e ritriti, no.

Le scene di Alexander Kostyuchenko raccontano una nobiltà ottocentesca indefinita e potrebbero andare bene per tre quarti di repertorio – niente di strano, quando debuttò al Bolshoi nel 1881 per il finale dell’opera venne riciclata una scenografia della Traviata – ma non brillano nemmeno per qualità di fattura. Una manciata di pannelli rotanti incornicia uno spazio che talora diventa un palazzo, talora un giardino stilizzato. Tutto qua. Qualche proiezione aggiunge deboli variazioni sul tema.

Su questo impianto nato vecchio Vera Petrova ci mette il carico: la sua è una non-regia povera di azione, dinamica e interazione tra i personaggi ed è un peccato perché il cast, oltre ad essere vocalmente convincente, è composto da artisti giovani, belli e sicuramente in grado di prestarsi a una recitazione più moderna e approfondita. Il primo atto è un tripudio di bamboleggiamenti, la rissa tra Onegin e Lenskij è talmente imbalsamata da sfiorare il gandhismo, il finale pare lasciato all’iniziativa dei cantanti, persino le uscite per gli applausi sono governate con imbarazzo. Il teatro, oggi, è un’altra cosa. Lo sviluppo della narrazione come flashback del protagonista è un espediente che non aggiunge nulla e non brilla nemmeno per originalità.



Fortunatamente le cose vanno molto meglio all’ascolto. Cătălin Ţoropoc ha il phisique du role del bel dandy affascinante e può fare affidamento su un vocione baritonale scuro e ampio ma ancora da sgrezzare nell’emissione e da rifinire nell’intonazione. Si gioverebbe tuttavia anch’esso di qualche indicazione di regia più dettagliata e coraggiosa che lo schiodi dal proscenio.

La Tat’jana di Valentina Mastrangelo è una piacevolissima sorpresa. La voce ha la luminosità e il candore della (quasi) debuttante e corre in sala limpida, senza incrinature e senza trucchi, soprattutto in un registro medio-acuto che suona facile e naturale. L’interprete deve ancora prendere la confidenza col palcoscenico necessaria per la grande interpretazione ma è convincente, sensibile e molto, molto preparata. C’è da scommettere che questa giovane artista, se saprà fare le scelte giuste, andrà lontano.

Il Lenskij di Tigran Ohanyan è leggerino ma ha bel timbro ed è vocalmente garbato. Anastasia Boldyreva è una splendida Olga per velluto della vocalità, bellezza della figura e personalità. Molto positive le prove di Giovanna Lanza (Larina) e Alexandrina Marinova Stoyanova-Andreeva (balia). È cavernoso ma carismatico il principe Gremin di Vladimir Sazdovski mentre Dmytro Kyforuk si disimpegna dignitosamente nei couplets di Triquet. Completano il quadro Hiroshi Okawa e Roberto Gentili, rispettivamente Capitano e Zaretskij.

Fabrizio Maria Carminati, alla guida di una buona Orchestra del Verdi, garantisce solidità, precisione e ottimo sostegno al palco ma anche un buon passo teatrale. Con il procedere delle repliche è lecito pensare che si limeranno certe piccole rigidità e che si ammorbidirà ulteriormente il suono che il direttore, giustamente, restituisce nella sua scrittura quasi cameristica.

Formidabile il Coro del Verdi preparato da Francesca Tosi.

Buon successo per tutti.


13 novembre 2017

La Quinta di Mahler secondo Myung-Whun Chung alla Fenice

L’Adagietto può spiegare per sommi capi dove risieda l’arte stregonesca di Myung-Whun Chung. Per undici minuti il suono scorre, si espande e si assottiglia, attraversa una miriade di sfumature senza mai spezzarsi. Tutto sembra svilupparsi in un’unica, infinita arcata, in un solo respiro.

È questo il suo Mahler: un prodigio di fluidità, di legato, di continuità e morbidezza. Dalla fanfara della tromba – l’ottimo Piergiuseppe Doldi – che apre la Marcia funebre fino a quella chiusa parossistica e furibonda tutto appare consequenziale, non c’è una frattura, non c’è un’idea che stoni o sembri vagamente forzata. Insomma, ancor prima che una grande lettura, quella di Chung è una lezione di concertazione in cui la cura quasi edonistica per la qualità del suono, per gli equilibri e per l’omogeneità dell’amalgama sono il punto di partenza su cui costruire il resto.


L’interpretazione diventa poi un affare di colori e articolazione, di dettagli. Chung non ostenta, non rimarca l’effetto né ipertrofizza – non ha quella propensione di certa tradizione mitteleuropea per un Mahler titanico e magniloquente - ma piuttosto ripulisce, scava, e infine, giunto all’osso, pennella. Ci sono così passaggi dalla delicatezza cameristica – la sezione centrale dello Scherzo ha una tinta lunare – ma anche risvolti demoniaci, minacciosi (certi strappi degli archi gravi fanno tremare i muri), senza mai rinunciare alla cantabilità e, soprattutto, senza alcuna traccia di meccanicità o di artificio.

Non che il discorso si riduca a un approccio esclusivamente lirico o ascetico alla Sinfonia, tutt’altro. Se c’è da scatenare l’orchestra Chung non si tira certo indietro e neppure quando si tratta si infiammare la musica, con i professori d’orchestra che in certi momenti vengono spremuti da un gesto che chiede intensità e passione, o che addensa il turgore del suono quasi scavandoci dentro con le mani. Il risultato è straordinario per ricchezza di colori, di dinamiche e di soluzioni espressive ma soprattutto per vitalità e plasticità dello sviluppo.

I violoncelli che ora borbottano, ora scalpitano nervosi, ora cantano, i violini centrano con la stessa apparente semplicità una calda pastosità, ove sollecitata, o una leggerezza straniante (nel delicatissimo inizio dell’Adagietto), gli ottoni scintillano ma sanno anche rendersi morbidi e delicati. Persino le percussioni trovano un carattere timbrico peculiare, con il timpano della brava Barbara Tomasin che pare quasi mormorare allorché riprende, in pianissimo, il tema della tromba nel primo movimento.

Insomma se il concerto esita in un successo i meriti vanno equamente condivisi con l’Orchestra del Teatro La Fenice che si presenta in forma smagliante e risponde, per precisione e soprattutto per qualità timbrica, al meglio delle proprie possibilità. Qualche minuscola sbavatura, più del collettivo che dei singoli, ci scappa ma è poca cosa, tanto più se si considera il fatto che Mahler non è pane quotidiano da queste parti, e sarebbe bello lo diventasse visto che il potenziale per suonarlo come si deve c’è tutto.

Si comporta assai bene anche Konstantin Becker, corno obbligato, che pur senza imporsi per estroversione garantisce solidità, precisione e anche bel suono (l’attacco del Rondo-Finale, ad esempio, è pregevolissimo).

Teatro strapieno e trionfo sacrosanto.

6 novembre 2017

Un'orchestra scozzese per la Scozzese

E se vi dicessi che la BBC Scottish Symphony Orchestra è una signora orchestra? L'ho ascoltata per la prima volta un paio di giorni fa al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, per l'inaugurazione della stagione musicale, e mi ha decisamente sorpreso. Sul podio il bravo Thomas Dausgaard, al suo fianco un alterno ma affascinante Nikolaj Znaider; Britten, Brahms e Mendelssohn in programma.



Oltremanica succedono cose cui non siamo abituati. Capita ad esempio che il principale operatore radiotelevisivo abbia a libro paga non una, non due, bensì cinque orchestre stabili, dalla celeberrima BBC Symphony Orchestra londinese in giù. Tra queste, all’estremo nord, c’è la BBC Scottish Symphony Orchestra, compagine poco nota dalle nostre parti ma non priva di sorprese, sia ad un approfondimento dei trascorsi, sia alla prova dal vivo. Basta spulciare nella cronologia per imbattersi in nomi di spicco, come i giovanissimi Colin e Andrew Davis, o Simon Rattle, che a Glasgow mossero i primi passi, o ancora Donald Runnicles, che ne è stato direttore principale dal 2009 fino all’arrivo di Thomas Dausgaard. Ed è proprio Dausgaard a portare la sua orchestra al Teatro Nuovo Giovanni da Udine per l’inaugurazione della stagione musicale, con un concerto che li ha visti condividere la scena con il violinista Nikolaj Znaider.

Danese, classe 1963, il direttore parrebbe un perfetto epigono della scuola nordica: concertazione capillare che non si perde un dettaglio e soprattutto non sgarra mai negli equilibri, suono intrinsecamente bello ma leggero e brillante, poca retorica e molta chiarezza. Sia nell’aspetto, sia nel gesto, mi ha ricordato il grande Herbert Blomstedt, cui lo accomuna anche la serenità gioiosa del vivere podio e musica, oltre che la consuetudine con molte orchestre scandinave e danesi.

Si presta bene, al di là dell’affinità nominale, la Scozzese di Felix Mendelssohn-Bartholdy a mettere in luce le peculiarità di orchestra e direttore. All’eccellente pulizia esecutiva si unisce infatti una luminosità del suono tipicamente british ma anche una pregevolissima vivacità narrativa, frutto di una cura minuziosa per le dinamiche e per l’articolazione.

Benché la tinta orchestrale sia più versata alla trasparenza che al calore, il suono si espande con un nitore che non scade mai nell’inconsistenza né, come capita spesso con le orchestre più “chiare” che pastose, nella secchezza. Tutt’altro, il suono è sì limpido ma bello levigato, sia nell’ottimo Mendelssohn, dipinto da Dausgaard con una spensieratezza bucolica e sorridente, a tratti con dolcezza, sia negli Interludi Marini del Grimes. I quali sono affrontati forse con poca teatralità ma con mirabile spessore sinfonico e un’attenzione meticolosa al suono (il colore delle viole è stupefacente, con la prima parte Scott Dickinson sugli scudi).

Rimane da dire di Nikolaj Znaider, celebre violinista e – meno noto – direttore d’orchestra, impegnato come solista nel Concerto op. 77 per violino e orchestra di Johannes Brahms. Tempo fa, ascoltando una straordinaria esecuzione del medesimo lavoro, ricordo di aver pensato che in quell’esecuzione splendida, rotonda e preziosa, da dieci e lode, sentissi la mancanza di qualche asperità, di una storpiatura che spezzasse l’impeccabile – ma in fondo prevedibile – perfezione. Znaider sta sull’altra sponda del fiume. La tecnica è sì quella del grande virtuoso, e la cadenza lo dimostra oltre ogni ragionevole dubbio, ma non è il tipo di solista che non si perde una nota neanche gli puntassero una pistola contro. Le sbavature ci sono, le note non perfettamente intonate pure, e c’è, a tratti, l’impressione di un navigare a vista, o quantomeno di affidarsi all’ispirazione del momento, che può lasciare perplessi. D’altro canto è innegabile che Znaider sia uomo di personalità e fantasia. Non c’è, nel suo Brahms, la ricerca meticolosa della bellezza, della fluidità, del grande legato, anzi, certi caratteri sgraziati e dissonanze sono persino sottolineati con veemenza. Eppure, nel suo approccio non sempre condivisibile, c’è coraggio, c’è istinto e c’è, senz’altro, un’urgenza comunicativa che scansa ogni traccia di affettazione. C’è poi, inutile dirlo, un controllo totale della tastiera e del ritmo nei passaggi più indemoniati che conquista il pubblico e gli vale un trionfo personale.

Dausgaard poi lo asseconda come meglio non si potrebbe: senza staccagli di dosso gli occhi, piega l’orchestra - ottima anche in Brahms - ad ogni capriccio del solista.

Trionfo generale a fine concerto, incoraggiato da due bis strappa-applausi.