29 ottobre 2017

Deserto sulla scena

C’è tradizione e tradizione: quella che – parafrasando Mahler – custodisce il fuoco della memoria e, suo contraltare, la venerazione della cenere. Affinché la fiamma non si spenga, lasciando dinanzi al pubblico un mucchietto di tiepide e languenti braci, è necessario innovare e rinnovare i topoi del passato, ridisegnandoli in funzione di una sensibilità che muta continuamente. Filippo Tonon, firma pressoché unica del Trovatore in scena al Verdi di Padova, intenderebbe farlo ma, a conti fatti, ci riesce ben poco. Sia forse per la modestia dei mezzi a disposizione, oppure per la scarsa malleabilità di cantanti e coro, quello che ne risulta è un allestimento fuori tempo massimo, statico e convenzionale – per non dire stereotipato – nella recitazione e povero sotto il profilo scenotecnico. Senz’altro, guardando all’intero arco di sviluppo dello spettacolo, ci sono una manciata di momenti felici in cui scene, artisti e luci (a tratti davvero suggestive) si fondono nel dipingere un affresco corale di forte impatto: l’apertura di sipario sulla Scena prima della “Gitana” e il carcere finale. Per il resto l’azione procede stancamente, su un palco ora troppo vuoto, ora eccessivamente affollato, senza mai (o quasi) trovare la giusta misura e scorrevolezza. I pochi orpelli in scena non riescono da soli a “fare atmosfera”, anzi, paiono ancor più futili e avulsi dinanzi alla quinta nera che li circonda e sovrasta.

Anche i costumi di Cristina Aceti, benché di pregevole fattura, ricalcano il già visto senza porsi troppe domande (perché tutta quell’opulenza per le vesti della povera Azucena?).

Foto Giuliano Ghiraldini

Non ci va tanto per il sottile Alberto Veronesi, né quando si tratta di dosare le dinamiche, costantemente impostate sul mezzoforte, né per pennellare la tinta orchestrale. Però l’Orchestra di Padova e del Veneto risponde tutto sommato bene, compatta e precisa – fatti salvi un paio di piccoli sbandamenti – e i tempi, pur soffrendo di qualche dilatazione troppo estenuata per le possibilità dei cantanti, trovano anche momenti di brillantezza incisiva, pienamente giustificata dalle indicazioni verdiane (il duetto soprano-baritono nel quarto atto è Allegro vivo come da partitura, più teso e incalzante di quanto sia dato ascoltare comunemente). I limiti veri della concertazione di Veronesi si concretizzano piuttosto nel sostegno al canto, sia per quanto concerne le arie, che scorrono costantemente su rette parallele e inconciliabili per solisti e orchestra, ma anche nei momenti d'assieme, in cui più d'un esitazione negli attacchi manda fuori giri il palcoscenico. I tagliuzzi di tradizione e le cabalette deprivate delle riprese faranno storcere il naso ai puristi ma sono l’ultimo dei problemi.

Amartuvshin Enkhbat, giovane baritono mongolo impegnato nei panni del Conte, è un'autentica rivelazione. La voce è di prima qualità per smalto e brunitura del timbro, per brillantezza, per ampiezza, non di meno la sostiene una consapevolezza tecnica d’alta scuola che le dona omogeneità, rotondità d’emissione e fluidità di legato. L’interprete è meno straordinario ma non sprovveduto sicché accenta, colora e “dice” con proprietà e consapevolezza. Il teatro esplode dopo il suo Balen e non potrebbe essere altrimenti.

Ha mezzi di rilievo, per colore ed estensione, anche l’Azucena di Judit Kutasi, la quale canterebbe anche con gusto e sensibilità, cercando in più d’un occasione di modellare la dinamica verso il pianissimo, senza accontentarsi di esibire il vocione. Purtroppo l’indugiare eccessivo in pose tragiche e l'esasperazione costante della drammaticità di toni e accenti, anziché aggiungere spessore alla performance del mezzosoprano, finiscono per metterne in evidenza i limiti di maturità e temperamento.

Più problematiche le prove delle due voci acute. Maria Katzarava è una Leonora promettente ma ancora acerba, non tanto per vocalità - ampia e ben impostata ma incostante nell’emissione - quanto nell'approfondimento musicale e soprattutto nel dominio della parte, che scende a patti con troppi vuoti di memoria ed esitazioni.

Sottotono la prova del protagonista Walter Fraccaro, il quale può sì contare su un registro acuto squillante e solido - ancorché eccessivamente nasale - ma che pare scansare sistematicamente la tentazione di alleggerire il canto, di sfumare e rifinire. Ne esce una prova muscolare ed esteriore, non sempre irreprensibile nell’intonazione e nemmeno nella musicalità, spesso sacrificata agli aggiustamenti di fonazione e posizione.

Convince il solido Ferrando di Simon Lim, il quale domina senza patemi l'intera scrittura scivolando soltanto sulle semicrome del racconto.

L’Ines di Carlotta Bellotto non demeriterebbe ma paga l'impressionante scarto di volume che la separa dalla protagonista femminile, Orfeo Zanetti è un buon Ruiz. Non si copre di gloria Luca Favaron, messo, nel suo breve inciso. Puntuale e corretto il Vecchio Zingaro di Luca Bauce.

Si comporta bene nel canto, meno sulla scena, il Coro Lirico Veneto preparato da Stefano Lovato.

Pieno successo di pubblico a fine recita, già preannunciato dai numerosi applausi a scena aperta che hanno inframezzato la recita.


24 ottobre 2017

Dal sacro al profano: Taralli e Orff al Verdi di Pordenone

Per un curioso incastro di circostanze, capita che il concerto che ha chiuso la stagione sinfonica del Verdi di Trieste apra quella in abbonamento dell’omonimo teatro pordenonese, di fatto già inaugurata dal doppio appuntamento settembrino con la GMJO.

Foto Luca A. d'Agostino/Phocus Agency © 2017
Una prima in grande stile, di quelle che spettinano il pubblico con la cascata di decibel che solo un’orchestra imponente unita a un coro bello folto - uno e trino per l’occasione – può scatenare.

Insomma c’è da ben sperare per il prosieguo di una stagione che si annuncia all’insegna dell’eterogeneità e che esplorerà generi e stili differenti, spaziando dal Novecento americano di Ellington, Gershwin e Bernstein all’archeologia musicale di Savall, dal glorioso Krzysztof Penderecki al recital della giovane Regula Mühlemann, dal grande sinfonismo, con l’Orchestra della Rai che ormai è ospite fissa del teatro friulano, ad un progetto di approfondimento sul quintetto. E molto, molto altro.

Questo primo appuntamento, già recensito da Paolo Bullo in occasione della prima triestina, cui rimando anche per approfondire la genesi dei lavori in programma, si sviluppa come un ardito percorso di “discesa” dal sacro del Psalmus pro humana regeneratione di Marco Taralli – una nuova commissione su testi biblici e francescani – al profano dei Carmina Burana. Discesa che muta in escalation se si guarda all’accoglienza del pubblico, che va scaldandosi man mano, ma anche alla qualità delle prove di orchestra, quella del Verdi di Trieste, e coro, o sarebbe meglio dire cori. Quest’ultimo infatti è formato da un trittico composto dal Coro della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, dal Coro del Teatro Nazionale Sloveno di Maribor e dal Coro di voci bianche I Piccoli Cantori della Città di Trieste, preparati da un terzetto interamente al femminile: Francesca Tosi, Zsuzsa Budavari Novak e Cristina Semeraro.

Certo non è impresa facile mettere insieme tre complessi vocali e fonderli con il giusto amalgama: il miracolo non riesce come dovrebbe nella prima parte, ove soprattutto le voci sopranili faticano a calarsi nel tessuto corale, mentre si realizza al meglio nell’operona di Orff, che suona rotonda e compatta.

Si sviluppa parallelamente la prova di Alessandro Cadario, il quale parte guardingo nella Cantata di Taralli, in cui si percepisce una prudenza dettata dalla necessità di centrare la giusta quadratura musicale, ma prende progressivamente confidenza e si sbottona completamente nei Carmina Burana, che plasma con una maggiore libertà e una più spontanea estroversione. Qui c’è tutto quello che occorre: la delicatezza e la poesia dove richieste, la trivialità nei passaggi più popolari, il coraggio di scatenare la cavalleria quando c’è da suonare un bel fortissimo. E il risultato premia direttore ed artisti, poiché il pubblico dimostra di gradire questo Orff serrato e teatrale.

Tre sono i cori, tre i solisti. Ágnes Molnár, soprano, ha voce piccola piccola ma garbata che soffre tuttavia di qualche defaillance nel sostegno quando si sale agli estremi acuti – decisamente problematici in Dulcissime - o si naviga in acque basse, ove viene sommersa dall’orchestra.

Il controtenore Jake Arditti ha anch’esso poco volume e ancor meno squillo ma si prodiga per dare senso ed espressione a quanto va cantando, talvolta eccedendo nella mimica.

Discorso opposto per Domenico Balzani, il quale ha voce di bella pasta e apprezzabile ampiezza nel medium ma soffre in alto, soprattutto nei falsetti di Dies, nox et omnia.

Buona la prova dell’Orchestra del Verdi di Trieste: precisa, pulita, solida.

20 ottobre 2017

Don Giovanni e il tempo che passa

Vedendo il bicchiere mezzo pieno, ci si può rallegrare per il successo di pubblico che il Don Giovanni di Damiano Michieletto, e incidentalmente di Mozart, sta registrando alla Fenice, marciando al ritmo di un sold out dietro l’altro. D’altro canto c’è anche un rovescio della medaglia: questo non è più - o almeno non lo è per questo giro di riprese - lo spettacolo che fu. Certo l’idea di fondo è sempre la stessa, così come rimane immutato, anche se invecchiato e con qualche cigolio di troppo, il fenomenale impianto scenico di Paolo Fantin; però vi si avverte un’inerzia stanca e iniziano a latitare quella tensione e quel senso di coerenza dello sviluppo che parevano incrollabili ma che, probabilmente, tali non erano. Lo si deve in parte alle rivoluzioni nel cast – difficile sostituire il Leporello di Alex Esposito senza stravolgere il senso dello spettacolo – o forse a una ripresa della regia meno accurata del dovuto, con qualche sottolineatura di troppo e certi momenti buttati via. 



Insomma, entrando nel repertorio del teatro, anche Don Giovanni si sta adagiando verso la routine. Niente di male, beninteso, si parla pur sempre di un grande spettacolo, che ha raccolto premi e consensi pressoché unanimi e che regge ancora su un’idea drammaturgica valida e forte. A tal proposito ribadisco quanto scritto in precedenza:

Viva la libertà! La libertà morale, intesa come coraggio di svincolarsi dagli obblighi sociali e dalle “imposture della gente plebea”, irrealizzabile chimera di uomini schiavi del sistema ed inevitabilmente attratti da chi riesce a spezzare le proprie catene per inseguirla, a costo della vita. Questo è Don Giovanni secondo Damiano Michieletto, regista cui il Teatro La Fenice di Venezia ha affidato la trilogia dapontiana, inaugurata da questo stesso titolo, ormai diversi anni fa, con un fortunatissimo e pluripremiato allestimento (scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti e luci di Fabio Barettin).

L’impianto scenografico presenta gli interni di un palazzo tardosettecentesco, claustrofobico e vagamente decadente. Un efficace gioco scenico produce un continuo mutamento degli ambienti attraverso la rotazione delle pareti, restituendo l’impressione di un labirinto privo di vie di fuga. Don Giovanni è onnipresente, proiezione dei desideri femminili e delle aspirazioni (o dei complessi di inferiorità) maschili, signore del palazzo e delle vite altrui. La sessualità – in luogo della sensualità – è esasperata, la violenza esplicita ed abusata, massimamente nella figura del protagonista, guardato con orrore e disapprovazione dagli altri personaggi (quasi dei proto-borghesi) eppure continuamente inseguito. Un Don Giovanni rifiutato ma blandito, come fosse per loro, se non personificazione dell’inconscio, il lato oscuro di sé, il desiderio di assecondare i proprio istinti più biechi, animaleschi ed immorali. E tale è l’immedesimazione tra il libertino e i suoi interlocutori che nessuno di loro saprà sopravvivere alla morte del protagonista nel colpo di teatro finale.

Anche Stefano Montanari risulta meno convincente che in occasione della scorsa ripresa, perdendosi nella smania di voler dire troppe cose. La continua ricerca dell’effetto, la sottolineatura della sottolineatura, il procedere per strappi e distensioni, le esasperazioni delle dinamiche e delle modulazioni agogiche, oltre a dare un senso di frammentarietà, finiscono per rendere questa direzione – nemmeno troppo alla lunga – leziosa e barocca. Certo ci sono momenti felici, non mancano idee e intuizioni interessanti, però il quadro complessivo lascia il sentore di un horror vacui musicale che traballa sul confine della stucchevolezza.
L’orchestra è meno in forma del solito – almeno alla recita del 18 ottobre – mentre è sempre una garanzia la bravissima Roberta Ferrari al clavicembalo.

Alessandro Luongo è un Don Giovanni di bella voce e presenza, sa cantare – la Serenata lo dimostra alla perfezione – ma eccede nel cercare il grande gesto.  
Francesca Dotto è una Donna Anna molto espressiva e musicale, in netta crescita rispetto alle prove passate, Omar Montanari un buon Leporello.
Stanno ormai stretti i panni di Don Ottavio ad Antonio Poli, che fatica a manovrare il suo vocione nella scomoda tessitura della parte, soprattutto sulle note di passaggio. Carmela Remigio ripropone la sua collaudatissima e temperamentosa Elvira.
Sorprende positivamente la Zerlina di Giulia Semenzato, voce di bella pasta e giusta verve, mentre risulta più pallido il Masetto di William Corrò. Per il Commendatore di Attila Jun vale un vecchio adagio: la potenza è nulla senza controllo.

Bene come sempre il coro preparato da Claudio Marino Moretti.

Teatro esaurito e successo pieno per tutti.