19 maggio 2012

È morto il grande baritono Dietrich Fischer-Dieskau

Se c’è un artista che ho amato ed ascoltato più di ogni altro, questi è Dietrich Fischer-Dieskau, grande baritono tedesco che oggi non c’è più. Dire che fosse grande è quanto mai banale, che fosse il più grande di tutti probabilmente insensato e contestabile, eppure in cuor mio lo penso. Fischer-Dieskau è stato dinamite nel mondo della musica, nel lied come nell’opera, avendo proposto – di fatto inventato – un nuovo modo di cantare, di vivere la musica, sottraendo il canto alla retorica della voce esibita per cercare una dimensione più intimistica, interiorizzando il canto con un gusto mutuato dall’esperienza cameristica. Un’arte fatta di scavo della frase musicale, di vivisezione dello spartito, di ricerca spasmodica del colore. Ad ascoltarlo pare che le parole, le singole sillabe venissero assaporate in un canto di eloquenza unica, commovente, talora forzata ma mai indifferente.



Il risultato fu una potenza espressiva nuova ed unica, quantomeno in ambito operistico. Il suo Verdi (Rigoletto, Posa, Jago, Falstaff su tutti ma anche Germont, Macbeth, Renato) resta esemplare per forza drammatica e perfezione musicale così come il suo Strauss di inarrivabile violenza espressionistica, a dispetto di una voce per caratura e colore forse impari alla scrittura. Il suo Mozart (Conte, Papageno e Don Giovanni) è sublime ma forse troppo artefatto e cerebrale, il suo Wagner  poesia allo stato puro. Nel lied e nella musica sacra non ha mai temuto confronti.

Il canto di Dietrich Fischer-Dieskau è fatto di colori, di alchimie, di note ora alitate ora sfogate, tutto nel massimo rispetto del dettato musicale con un livello di approfondimento ed una cura per la musica probabilmente unici. Solo una consapevolezza tecnica e musicale di prim’ordine avrebbero permesso tanto, tutto ad altissimo livello. Non è un caso che abbia cantato ed inciso con i più grandi direttori, da Karajan a Bernstein, da Furtwangler a Kleiber passando per Klemperer, Solti, Böhm, Fricsay e tutti gli altri. Dietrich Fischer-Dieskau è stato con ogni probabilità il cantante con il repertorio più vasto ed eclettico che la storia del canto possa annoverare.

Restano i dischi, decine e decine ancora, resta la sua lezione e i tanti epigoni ma lui non c’è più e il mondo della musica oggi è più povero.
Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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12 maggio 2012

La Bohème torna alla Fenice di Venezia

Recensione – Torna alla Fenice di Venezia La Bohème di Puccini nell’allestimento firmato da Francesco Micheli già proposto, con grande successo, durante la scorsa stagione. 



Lo spettacolo è fresco, giovanile, coinvolgente nella sua bozzettistica semplicità. Non una Bohème sconvolgente o che si proponga chissà quali orizzonti interpretativi ma, cosa forse ancor più difficile, originale senza sconvolgere drammaturgia ed ambientazione. Le scene firmate da Edoardo Sanchi propongono una Parigi da vendere ai turisti, immaginata piuttosto che veritiera, uno sfondo fumettistico che accompagna e racconta da vicino le sfortunate storie dei Bohémiens pucciniani. La vicenda è incastonata in una cornice di simboli che rimandano alla Ville Lumière, dalla Tour Eiffel alle Folies Bergère, il tutto a costellare i luoghi che prescrive il libretto e che si è abituati ad associare all’opera. Insomma c è tutto quello che ci si aspetterebbe di trovare in una Bohème, dalla soffitta alla neve del terzo atto, ma non solo. Ed è questa la giusta dimensione cui si deve puntare nel momento in cui si decide di mettere in cartellone un titolo tra i più celebri ed inflazionati dell’intero repertorio, l’originalità onde evitare l’ennesima riproposizione di un rito museale già saputo e risaputo prima ancora di andare in scena. Anche il secondo atto è magnificamente risolto senza scadere nei zeffirellismi in sedicesimo di facile effetto che si vedono un po’ dappertutto.

Quello che forse manca nel complesso è la tanto celebrata poetica delle piccole cose, sacrificata in favore di un approfondimento quasi cinematografico del sentimentalismo. La Parigi da cartolina, stereotipata, che viene proposta necessariamente tende a mitigare la pulsione naturalista dell’opera, spostandola su un livello favolistico o quantomeno romanzesco. La regia di Micheli, in perfetta sintonia con l’ambientazione, è scorrevole, spontanea ed immediata, coinvolgente e simpatica pur concedendosi alcuni siparietti di forzata comicità di cui non si sarebbe sentita la mancanza.

Trionfatrice della serata è stata il soprano statunitense Kristin Lewis che si è rivelata un’ottima Mimì. La cantante ha dimostrato di possedere, oltre a mezzi privilegiati per volume e colore, una solida tecnica di canto grazie alla quale ha saputo affrontare la parte con sicurezza, potendosi permettere smorzature ad alta quota di realizzazione impervia quanto suggestive. Soltanto i passaggi più concitati di canto di conversazione hanno messo in difficoltà il soprano, non sempre a proprio agio con la pronuncia e con la gestione ritmica della frase.
Non del tutto convincente viceversa il Rodolfo di Khachatur Badalyan che è parso affaticato non riuscendo a trovare la giusta proiezione della voce, troppo in gola e povera di squillo. Va detto che la perfettibile prova vocale è stata in buona parte compensata da una recitazione spigliata e ben calibrata.
Vigoroso ed energico nella vocalità come nel fisico il Marcello di Simone Piazzola, giovane baritono di grande talento che ha esibito una vocalità preziosa per volume e timbro, sicura su tutta la gamma, nonché un’invidiabile verve scenica. Deliziosa ed ottimamente cantata la bella Musetta del soprano Francesca Sassu come ottimo è stato il Colline di Gianluca Buratto, basso dotato di voce di grande volume e bel colore che ha raccolto applausi a scena aperta al termine dell’aria del quarto atto. Vocalmente e scenicamente inappuntabile lo Schaunard di Armando Gabba. Eccellenti tutti i comprimari.

La direzione, affidata al maestro Daniele Callegari, non si segnala per particolari pregi od innovazioni. Il maestro ha il merito di trarre un bel suono dall’orchestra del teatro veneziano e di evitare il sentimentalismo caramelloso in cui è facile inciampare, forse in misura fin troppo oltranzista così che sono mancati sia la poesia nei passi più lirici o malinconici sia la leggerezza, soprattutto nel primo atto. Più centrato è parso il terzo atto in cui la tinta cupa che il maestro Callegari ha saputo cavare dall’orchestra pareva sposarsi alla perfezione con il clima invernale e crepuscolare del momento. Non sempre impeccabile l’accompagnamento alle voci, spesso sovrastate dal volume orchestrale o perse per strada (ad onor del vero la gran parte delle volte per responsabilità dei cantanti).

Ottima la prova del coro, lungamente applaudito a fine secondo atto.

Al termine dello spettacolo applausi calorosi per tutti con qualche isolata contestazione al tenore e punte di entusiasmo per la Lewis.

Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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