24 febbraio 2022

Le Baruffe

La commedia è una cosa seria. Non è detto che caricandola di drammaticità e violenza a scapito delle vie di mezzo, delle malizie più o meno giocose, insomma della leggerezza, la si arricchisca o se ne incrementi il carico emotivo. Anzi, è spesso vero il contrario.

È questo l’errore capitale delle Baruffe (chiozzotte), la nuova opera al debutto al Teatro La Fenice che Damiano Michieletto e Giorgio Battistelli traggono da Goldoni.



Le baruffe è grossomodo una giostra di beghe da cortile tra famiglie di pescatori chioggiotti innescata dalla malaugurata trovata di Toffolo, detto Marmottina, che offre la zucca barucca a un paio di ragazze già “prese” per far ingelosire quella di cui è innamorato.

Il caso innesca una polveriera che tra gelosie, malintesi e un buon carico di pettegolezzi esplode travolgendo tutti. Il problema è che questa cavalleria rusticana al cubo regge su conflitti troppo sciocchi per essere davvero interessanti, troppo inumani - laddove per umanità si intende la complessa rete di intrecci relazionali ed emotivi, interni ed esterni, nonché l’ampiezza dello spettro affettivo - per essere commedia e troppo futili per avere un qualche valore tragico.

La spirale che va a inghiottire i chioggiotti, alimentata da invidie e risentimenti, ma anche da dispettucci infantili da gente piccola piccola, sfocia in un tutti contro tutti in cui ciascuno agisce, si direbbe, sull’onda di una furia animalesca e cieca, o meglio, in un meccanismo di riflessi che bypassano l’intelligenza. Il tutto in una laguna povera quanto intrisa di rabbia e bassi istinti che la musica di Battistelli carica di cupezza e tensione thriller, come accompagnasse le risse tra bande di una qualche periferia scalcagnata da b-movie americano, quelli un cui volano botte e proiettili senza che se ne capiscano bene le ragioni ma soprattutto senza si riesca a creare una reale empatia con quel che si sta guardando.

Tutti agiscono allo stesso modo, tutti cantano allo stesso modo, tutti pensano alla stessa maniera. Il vocabolario emotivo e musicale è il medesimo per ciascun personaggio ed è un vocabolario ristretto. Non c’è una sfasatura tra i caratteri, ma piuttosto una soglia di reattività condivisa. Ad ogni azione una reazione, anche emozionale, che è sempre la medesima. Le belle alchimie timbriche create da Battistelli, i giochi ritmici perfettamente concertati con l’azione in scena, la vivace vena compositiva riescono dunque come eccellenti esercizi di scrittura per teatro, ma di teatro vero e proprio ce n’è poco. C’è sì, invece, molto spettacolo, e di gran fattura.



Non si può rimproverare alcunché a Enrico Calesso, all’orchestra di casa e al coro diretto da Alfonso Caiani che danno l'impressione di essere padroni della materia. Che poi fosse davvero così lo sa solo chi ha potuto leggere la partitura, non certo noi seduti tra il pubblico di una prima assoluta.

È per altro difficile immaginare che in futuro l’opera possa giovarsi di un allestimento migliore di quello proposto, che è una sintesi perfetta delle abilità di Damiano Michieletto, che oltre al libretto fa la regia, e della sua banda di fuoriclasse.

La gestione dei movimenti e degli spazi è di alta scuola, il che vale per i cantanti-attori, per il coro ma anche per le scene di Paolo Fantin. Di base tutto si sviluppa intorno a quattro pannelli rettangolari diversamente componibili, che scivolano, ruotano, volteggiano, crollano, vanno sfaldandosi e si ricompongono come fossero tavolette di Lego in mano a un bambino. E all’occorrenza forniscono i listelli di cui i personaggi in scena si servono per suonarsele di santa ragione. Restando alla pura gestione dell’azione, non c’è nell’ora e mezza abbondante e filata di musica un attimo di stanca o di sciatteria, né un solo gesto che sia scoordinato o che si inceppi.

Sul piano tecnico, uno spettacolo di gran livello.


Quanto al cast, gli elogi vanno distribuiti ecumenicamente per la capacità di tutti di aderire a un progetto di cui ben si coglie la compattezza, buttando la voce, è il caso di dirlo, oltre l’ostacolo. Sì, perché la scrittura frastagliata e tutta sbalzi esige molto dalle gole, soprattutto da quelle femminili, almeno quanto la regia, che muove ogni elemento in un perfetto meccanismo a orologeria.

C'è Padron Toni, una specie di Peter Grimes del Polesine, che forse tra tutti è quello che ha più sale in zucca, ottimamente incarnato da Alessandro Luongo. Sua moglie in scena, Madonna Pasqua, è Valeria Girardello, una di quelle cantanti che oltre a una bella voce hanno anche un magnetismo innato. Peccato solo che la scrittura della parte batta un po’ troppo in basso per le sue corde.

Leonardo Cortellazzi è Toffolo, il personaggio più interessante, uno scemo del villaggio che non si capisce fino a che punto “ci sia o ci faccia” ma non privo di certa maligna ignoranza. Va molto bene sotto ogni punto di vista la Lucietta di Francesca Sorteni e il suo fidanzato-tira-e-molla Titta Nane, Enrico Casari.

Il Coadiuator di Federico Longhi, Isidoro, richiama per molti versi i buffi della tradizione italiana, tant’è che fa un po’ da deus ex machina della situazione e anche il suo messo (Emanuele Pedrini ) ha tratti comici, forse fin troppo caricaturali.

Silvia Frigato, Checca, ha una scrittura davvero impervia ma ne esce con gloria. Beppo è ben interpretato da Marcello Nardis, la fidanzata Orsetta da Francesca Lombardi MazzulliRocco Cavalluzzi è il balbuziente Padron Fortunato, Loriana Castellano la di lui moglie Madonna Libera mentre Pietro Di Bianco è il pescatore Padron Vicenzo.

Canocchia, Safa Korkmaz, è infine il venditore che va spacciando questa strana zucca arrostita che fa un po’ da elisir d’amore, un po’ da frutto proibito, un po’, o forse soprattutto, da scusa buona per dare sfogo a ogni frustrazione repressa.


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