22 marzo 2012

Un nuovo vecchio Rigoletto al Verdi di Trieste

Terzo titolo in cartellone per il Teatro Verdi di Trieste, Rigoletto rimette le cose a posto dopo un inizio di stagione non dei più felici. Lo spettacolo vedeva impegnata una compagnia di richiamo quantomeno nazionale ed effettivamente le attese – almeno sul versante musicale – non sono state disattese. Rigoletto, giova ricordarlo, è lavoro dalla forza teatrale impressionante, uno di quei casi in cui musica e parole si fondono alla perfezione nel creare una sintesi drammatica di rara potenza. La complessità dei personaggi, protagonista in testa ma senza dimenticare Gilda (troppo spesso ridotta ad una bamboleggiante ragazzetta) racchiusa nella scrittura sintetica e cangiante del libretto di Piave come della musica verdiana necessita di artisti consapevoli musicalmente quanto di interpreti sensibili.



Luca Salsi era atteso al debutto nel title role dopo aver già calcato il palcoscenico del Verdi nella scorsa stagione offrendo un’ottima prova ne “I Due Foscari”. Il baritono oltre a essere in possesso di uno strumento privilegiato per colore e volume ha dimostrato di avere i requisiti tecnici necessari per venire a capo di una parte impervia per scrittura e durata. Il canto è ben sostenuto dal fiato sia nelle mezzevoci, perfettamente timbrate, sia nei passi sfogati. Il cantante avrà poi tempo per maturare la parte e per scoprire le mille sfaccettature di uno dei personaggi più complessi del teatro musicale ma considerata la giovane età le premesse sembrano ottime.

Francesco Meli è a tutt’oggi quanto di meglio si possa ascoltare come Duca di Mantova. La voce è bellissima, sempre perfettamente controllata e piegata ad un canto vario e sfumato. L’interprete sceglie di collocarsi nella tradizione, rispolverando la lezione dei grandi tenori italiani degli anni passati e lo fa con cognizione di causa sposando l’impostazione tradizionale dello spettacolo.

Julia Novikova, nota al grande pubblico per essere già stata Gilda nel discusso Rigoletto in mondovisione con Domingo non convince pienamente. Va dato atto alla cantante di aver cercato di raccontare l’evoluzione del personaggio nell’arco dei tre atti e il suo passare dall’ingenua innocenza dell’amore immaginato all’amara consapevolezza che preludia al tragico epilogo, purtroppo la voce suona opaca, talora acidula e poco squillante, l’intonazione non sempre è irreprensibile. Molto buona la prova del basso Michail Ryssov, torvo ed inquietante Sparafucile come eccellente è stata la Maddalena di Francesca Franci. Tra i tanti comprimari, tutti all’altezza della situazione, ricordiamo l’imponente Monterone di Nicolò Ceriani.

Ottima la prova dell’orchestra guidata da Corrado Rovaris. Il maestro ha optato per una direzione di sostanza, evitando inutili voli pindarici ma riuscendo a cavare dall’orchestra una compattezza ed una precisione che da tempo non si sentivano. L’accompagnamento al canto è sempre elegante, mai prevaricante sulle voci. La scelta dei tempi tendenzialmente serrata oltre a facilitare ai solisti la gestione delle lunghe arcate verdiane ha il pregio di restituire al meglio la tensione drammatica della partitura.

Poco da dire sul resto. L’allestimento con le scene di Lorenzo Ghiglia è tradizionale al massimo con quei fondali dipinti che è sempre più difficile trovare nei teatri ma che tutto sommato ogni tanto non dispiace rivedere. Se ancien régime dev’essere, lo sia fino in fondo; in quest’ottica può essere accettata la polverosa regia da film muto di Michele Mirabella risolta in un alternanza di immobilismo e pose alla Norma Desmond così innaturali e forzate da sfiorare spesso il grottesco. Molto belli i costumi d’epoca a firma di Chiara Barichello.

Paolo Locatelli
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1 marzo 2012

Così Fan Tutte alla Fenice di Venezia

Che sia spietato cinismo o razionalismo portato alle estreme conseguenze poco importa. Nel Così Fan Tutte tutto è come dev’essere e tutto risponde a un disegno geometrico e razionale, finanche le ragioni del cuore. Le relazioni interpersonali si piegano a un disegno prestabilito ed ineludibile, quasi un assioma dei rapporti amorosi cui devono inchinarsi, loro malgrado, gli ingenui protagonisti. 
C’è la ragione spietata a svelare la natura delle cose e degli uomini e gli uomini che cercano di ingannare sé stessi e gli altri fingendo di non sapere quale sia la logica conseguenza verso cui tutto evolve. La ragione del pragmatico cinismo di Alfonso e Despina è un’arma potentissima da maneggiare con cautela, è una bomba che una volta innescata non lascia via di scampo distruggendo irrimediabilmente le vite affettive dei protagonisti. C’è tanto settecento insomma in questo Mozart-Da Ponte. C’è Kant, l’illuminismo, c’è la cieca fiducia nella forza dell’intelletto, il tutto filtrato attraverso quella cruda ironia tipicamente dapontiana, e poi c’è la menzogna o meglio la finzione quasi consolatoria, rassicurante.


Evidentemente il regista Damiano Michieletto, giunto alla tappa conclusiva della trilogia mozartiana, non crede alla possibilità di rimedio per gli amanti ingannati, il tradimento non può essere superato dall’accettazione delle verità rivelate di Alfonso. In questo senso potremmo definire la lettura di Michieletto pessimistica nel caso specifico della vicenda, non terminando con il perdono collettivo ma decisamente positiva inquadrando la vicenda in un’ottica più ampia. Rimane infatti la speranza che gli uomini, o l’umanità in senso lato, sappiano rinunciare alla facile via del cinismo, alla prona accettazione del “così fan tutte” perché in fondo convinti che ci sia un senso etico superiore all’istinto di natura. In tal senso la zuffa tutti-contro-tutti che chiude l’opera lascia in bocca un sapore dolce, una speranza nuova. 

Non serve poi ricordare quanto sia tecnicamente bravo Michieletto nel muovere gli artisti in scena come nel saper trovare corrispondenza perfetta tra ogni frase musicale e l’immagine teatrale evocata.

Il bellissimo impianto scenico curato da Paolo Fantin si serve della medesima piattaforma girevole utilizzata per Don Giovanni e Le Nozze di Figaro, nel caso specifico trasformata in un lussuoso hotel nei cui ambienti si dipanano le trame ordite dal direttore Alfonso ai danni dei clienti. Le sorelle ferraresi sono due frivole ragazze (due shopping addicted, si direbbe) che sembrano uscite da un telefilm americano, Guglielmo e Ferrando due surfisti tamarri, Don Alfonso un viveur con la debolezza per l’alcol e le donne. In un simile contesto di spiazzante superficialità si sviluppa lentamente l’amara consapevolezza dei protagonisti di quanto possa essere pericoloso giocare con i sentimenti.



Il cast si disimpegna con merito sia sul versante musicale che attoriale. Maria Bengtsson disegna un’eccellente Fiordiligi, bella ed ottimamente cantata, commovente nella grande aria del secondo atto in cui sfoggia impalpabili pianissimi e perfetta linea di canto. Josè Maria Lo Monaco porta in scena una Dorabella spigliata, sensuale, ben calibrata nella vocalità come nella recitazione. Markus Werba, dopo aver vestito i panni di Don Giovanni e del Conte, dimostra ulteriormente, se mai ce ne fosse bisogno, una particolare affinità par il canto mozartiano offrendo un Guglielmo giovanile ed esuberante. Marlin Miller, Ferrando, risulta meno convincente a causa di alcuni problemi di intonazione ed alcune tensioni in zona acuta che evidenziano un imperfetto controllo del fiato. 

Si possono spendere solo elogi spesi per lo spietato Alfonso di Andrea Concetti e per la Despina frizzante ed ironica di Caterina Di Tonno.

Stefano Montanari, subentrato ad Antonello Manacorda, offre un’eccellente interpretazione del lavoro mozartiano. Una direzione asciutta e nevrotica la sua, trepidante pur senza rinunciare al velluto nei momenti elegiaci, perfettamente inquadrata nel contesto. 

Buona la prova di coro e orchestra del teatro la Fenice.

Paolo Locatelli
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La Battaglia di Legnano al Teatro Verdi di Trieste

Viva Italia forte ed una/colla spada e col pensier!/Questo suol che a noi fu cuna/tomba sia dello stranier! La Battaglia di Legnano è un grido patriottico, un appello al popolo italiano affinché trovi il coraggio e la forza di ribellarsi al dominio asburgico. L’opera, datata 1849, nacque in un clima politico rovente, infiammato dai motti del '48 e Verdi, particolarmente sensibile alla questione nazionale, volle partecipare a suo modo celebrando il popolo italiano attraverso il racconto di un fatto storico, la battaglia di Legnano appunto, opportunamente romanzata dal librettista Cammarano.

Certo non si tratta del miglior Verdi, né d’altronde è facile trovare il grande genio del compositore bussetano tra le opere degli anni di galera, fatte salve le poche eccezioni ben note. L’opera non è musicalmente un granché né può giovarsi dell’esplosiva forza teatrale di altri lavori eppure riesce a trasmettere un fiero senso di rivalsa, un sano ottimismo patriottico di cui il popolo italiano avrebbe bisogno oggi più che mai. Poi certo è vero che in taluni momenti la celebrazione della retorica italica sfiora il grottesco a causa degli improbabili versi di Cammarano.



Il primo Verdi è forse inattuale: lo è la sua poetica, lo è in ragione della struttura a numeri chiusi tipica dell’opera italiana di prima metà ottocento, lo è perché la storia interpretativa di questo repertorio è di fatto ferma agli anni sessanta. No si esprime un giudizio sul valore artistico del compositore, semplicemente sarebbe necessario e auspicabile un approccio nuovo a queste opere, affinché possano essere rese al pubblico nella loro completa potenza teatrale così com’è avvenuto con Mozart, Wagner o con la musica barocca nei decenni scorsi.

L’allestimento di Ruggero Cappuccio con scene e costumi di Carlo Savi invece non cerca strade nuove (se non vogliamo illuderci che l’ambientazione in un contesto che esuli dalle indicazioni del libretto rappresenti una regia moderna). L’idea di spostare l’intera vicenda in un museo, quasi a voler catturare il momento in un’istantanea della storia italiana potrebbe essere una carta vincente, purtroppo, complice una regia sommaria e risaputa il gioco non riesce e l’effetto generale non coinvolge. La responsabilità va poi divisa con i cantanti, poco propensi alla cura della resa attoriale.

Dopo l’Anna Bolena inaugurale torna sul podio dell’orchestra del teatro triestino il maestro Boris Brott il quale affronta la musica di Verdi con spirito fin troppo pragmatico, scansando sistematicamente qualsiasi tentativo di colorare o impreziosire la musica e limitandosi al mero accompagnamento al canto.

Dimitra Theodossiou, Lida, è piena di buone intenzioni spesso disattese alla prova dei fatti. Sicuramente va apprezzata la generosità del soprano nel ricercare un canto morbido e rarefatto, soprattutto nelle prodezze ad alta quota che la scomodissima scrittura verdiana impone, purtroppo non sempre l’intonazione è impeccabile.

Andrew Richards nei non meno scomodi panni di Arrigo se la cava più che degnamente. Anche la parte del tenore è decisamente impervia, tutta giocata sul passaggio con frequenti escursioni in acuto che il cantante affronta con sicurezza. Il baritono Leonardo Lopez Linares, Rolando, si segnala più per la voce bella e sonora che per particolari guizzi interpretativi, risolvendo il personaggio (di per sé già poco sfaccettato) in un canto esteriore e stentoreo.

Autorevole il Federico Barbarossa di Enrico Giuseppe Iori, positive le parti di fianco.

Paolo Locatelli
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