8 dicembre 2022

Lahav Shani e la Rotterdam Philharmonic Orchestra

  Sembra che la Rotterdam Philharmonic Orchestra abbia ormai consolidato il suo modello vincente di business artistico-culturale. Un paradigma molto "olandese" in cui si punta sul talento, giovanissimo, per coltivarlo, farlo crescere e lanciarlo nello showbiz della classica. Scorrendo la cronologia delle ultime decadi, alla voce direttore principale si trovano una serie di scommesse vinte da lasciare di stucco. Conlon, Tate, quindi Gergiev e Nézet-Seguin. Tutti ingaggiati prima che entrassero nello star system e accompagnati, con reciproco vantaggio, nell'Olimpo dei grandi. Anche l'attuale reggente dell'orchestra è poco più che un ragazzo, un trentatreenne che pure si è già fatto un nome sia come concertista che direttore: l’israeliano Lahav Shani.


  Un maestro alle prime armi sì, ma che sembra non sia sfiorato dal timore di bruciare le tappe, o quantomeno di confrontarsi con il repertorio che scotta. Per chi avesse dubbi, basti ricordare che il suo debutto discografico per Deutsche Grammophon è avvenuto un paio d'anni fa con Settima e Quarto concerto per pianoforte di Beethoven, nella doppia veste di solista e direttore. Sorprende poco che per la tournée europea in corso abbia scelto uno di quei monumenti per cui i direttori saggi tendono ad aspettare la maturità: la Sinfonia n.9 in re minore di Anton Bruckner. Una pagina che potrebbe quasi fare serata da sé, ma che al Teatro Valli di Reggio Emilia è stata preceduta dal Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra in do minore op. 37 di Beethoven, con un solista del calibro di Yefim Bronfman.

  Shani di talento ne ha da vendere, non ci piove, ma ha anche molta strada da fare prima di poter reggere i confronti più impegnativi. Il suo Bruckner è interessante, sì, ma ancora acerbo, e si assesta grossomodo nel binario dell'ottima esecuzione con qualche scatto improvviso verso l'alto. Pesca alcune frasi, alcuni scarti di gradazione interessanti, infiamma qualche momento spingendo sull'acceleratore, e altresì concerta con eleganza, ma pecca di esperienza e visione, com'è inevitabile che sia. Sporca dunque qualche attacco scoperto, chiede ai suoi ottoni delle peripezie in pianissimo che vanno al di là delle loro possibilità e si lascia scappare qualche equilibrio interno (un limite che emerge soprattutto nella prima parte di concreto, in cui si deve rapportare con Yefim Bronfman, a cui non difetta certo il volume). Minuzie, il suo vero limite è quello che affligge nove direttori su dieci quando devono confrontarsi con Bruckner: manca la capacità di raccontarne le tribolazioni compositive, di sminuzzare e riassemblare il materiale costitutivo di quelle enormi cattedrali sonore scavando alla ricerca di ogni elemento strutturale anziché cementificarlo in un blocco inscalfibile. Gli esce dunque una Nona assai ben suonata ma poco avvincente, che va sviluppandosi piacevolmente senza riservare alcuna sorpresa.

  In Beethoven c'è Yefim Bronfman che, a dispetto dell’atteggiamento quasi compassato con cui siede al pianoforte, si conferma musicista di straordinaria meccanica e sensibilità. Non strafà, è pulito e cristallino, ritmicamente precisissimo, predilige un'esposizione chiara e razionale a un'esuberanza circense, eppure, in quella visione, riesce a sfruttare le infinite sfumature di grigio che lo strumento gli mette a disposizione. Quanto alla Rotterdam Philharmonic Orchestra, durante la serata mette in mostra eccellenti qualità di compattezza e un corpo sonoro scuro e ricco, ma anche di avere dei margini di virtuosismo che andrebbero oltre quanto sollecitato da Shani, che come molti direttori provenienti dal pianoforte tende a trattare la concertazione secondo una visione stagna in cui l'orchestra è considerata un gigantesco strumento anziché una pluralità di voci differenti.

  Grande successo personale per Bronfman dopo la prima parte, che si congeda dopo aver offerto un bis (Arabesque di Robert Schumann), e per orchestra direttore a fine Bruckner.


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