24 ottobre 2017

Dal sacro al profano: Taralli e Orff al Verdi di Pordenone

Per un curioso incastro di circostanze, capita che il concerto che ha chiuso la stagione sinfonica del Verdi di Trieste apra quella in abbonamento dell’omonimo teatro pordenonese, di fatto già inaugurata dal doppio appuntamento settembrino con la GMJO.

Foto Luca A. d'Agostino/Phocus Agency © 2017
Una prima in grande stile, di quelle che spettinano il pubblico con la cascata di decibel che solo un’orchestra imponente unita a un coro bello folto - uno e trino per l’occasione – può scatenare.

Insomma c’è da ben sperare per il prosieguo di una stagione che si annuncia all’insegna dell’eterogeneità e che esplorerà generi e stili differenti, spaziando dal Novecento americano di Ellington, Gershwin e Bernstein all’archeologia musicale di Savall, dal glorioso Krzysztof Penderecki al recital della giovane Regula Mühlemann, dal grande sinfonismo, con l’Orchestra della Rai che ormai è ospite fissa del teatro friulano, ad un progetto di approfondimento sul quintetto. E molto, molto altro.

Questo primo appuntamento, già recensito da Paolo Bullo in occasione della prima triestina, cui rimando anche per approfondire la genesi dei lavori in programma, si sviluppa come un ardito percorso di “discesa” dal sacro del Psalmus pro humana regeneratione di Marco Taralli – una nuova commissione su testi biblici e francescani – al profano dei Carmina Burana. Discesa che muta in escalation se si guarda all’accoglienza del pubblico, che va scaldandosi man mano, ma anche alla qualità delle prove di orchestra, quella del Verdi di Trieste, e coro, o sarebbe meglio dire cori. Quest’ultimo infatti è formato da un trittico composto dal Coro della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, dal Coro del Teatro Nazionale Sloveno di Maribor e dal Coro di voci bianche I Piccoli Cantori della Città di Trieste, preparati da un terzetto interamente al femminile: Francesca Tosi, Zsuzsa Budavari Novak e Cristina Semeraro.

Certo non è impresa facile mettere insieme tre complessi vocali e fonderli con il giusto amalgama: il miracolo non riesce come dovrebbe nella prima parte, ove soprattutto le voci sopranili faticano a calarsi nel tessuto corale, mentre si realizza al meglio nell’operona di Orff, che suona rotonda e compatta.

Si sviluppa parallelamente la prova di Alessandro Cadario, il quale parte guardingo nella Cantata di Taralli, in cui si percepisce una prudenza dettata dalla necessità di centrare la giusta quadratura musicale, ma prende progressivamente confidenza e si sbottona completamente nei Carmina Burana, che plasma con una maggiore libertà e una più spontanea estroversione. Qui c’è tutto quello che occorre: la delicatezza e la poesia dove richieste, la trivialità nei passaggi più popolari, il coraggio di scatenare la cavalleria quando c’è da suonare un bel fortissimo. E il risultato premia direttore ed artisti, poiché il pubblico dimostra di gradire questo Orff serrato e teatrale.

Tre sono i cori, tre i solisti. Ágnes Molnár, soprano, ha voce piccola piccola ma garbata che soffre tuttavia di qualche defaillance nel sostegno quando si sale agli estremi acuti – decisamente problematici in Dulcissime - o si naviga in acque basse, ove viene sommersa dall’orchestra.

Il controtenore Jake Arditti ha anch’esso poco volume e ancor meno squillo ma si prodiga per dare senso ed espressione a quanto va cantando, talvolta eccedendo nella mimica.

Discorso opposto per Domenico Balzani, il quale ha voce di bella pasta e apprezzabile ampiezza nel medium ma soffre in alto, soprattutto nei falsetti di Dies, nox et omnia.

Buona la prova dell’Orchestra del Verdi di Trieste: precisa, pulita, solida.

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