14 dicembre 2017

Arenskij, Čajkovskij e il trio con pianoforte

«A la mémoire d'un grand artiste», scrive così Pëtr Il'ič Čajkovskij sulla partitura del suo Trio con pianoforte in la minore op. 50, terminato dopo un anno di turbamenti e sofferenze nell’inverno romano del 1882. Il “grand artiste” in questione è Nikolaj Grigor'evič Rubinštejn, fratello del più noto Anton, che al più giovane compositore era legato da un rapporto intenso ma accidentato e che proprio da lui si stava dirigendo quando la morte lo sorprese, a Parigi, nel marzo del 1881. Composizione eccentrica e peculiare nel catalogo di Čajkovskij, sia perché costituisce il suo primo e unico avvicinamento al trio con pianoforte – che, parole sue, detestava – sia per l’originalità della struttura: due parti, una prima malinconica ed elegiaca, una seconda articolata come tema con variazioni, su una melodia dalla chiara impronta popolare, l’ultima delle quali risulta prevalere per dimensioni e complessità della forma (di fatto una sonata), imponendosi quasi fosse una terza frazione a sé stante.


Di poco successivo, il Trio per violino, violoncello e pianoforte n.1 in re minore op. 32 di Anton Arenskij, russo anch’esso, non si discosta troppo nel carattere intensamente lirico (soprattutto nei movimenti dispari), ma risulta più tradizionale nella costruzione e nelle soluzioni armoniche.

Insomma il ritorno di Maurizio Baglini sul palco del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, di cui è direttore artistico ormai da diversi anni, si è celebrato all’insegna del tardo romanticismo russo. Repertorio che, alla prova dei fatti, pare calzare come un guanto al pianista, forse ancor più che agli altri due terzi dell’ensemble: la violoncellista Silvia Chiesa e il celebre Shlomo Mintz, violinista.

Baglini si impone sin dall’attacco del Trio di Arenskij per la bellezza del suono, che rimane immutata fino a termine del concerto. Il tocco sa essere leggerissimo o poderoso mantenendo la stessa brillantezza, ma ciò che più colpisce è la fluidità dell’esecuzione, che scorre senza fratture e senza rigidità, innervata dalla sottile flessibilità dell’agogica. Davvero una prova da incorniciare.

Silvia Chiesa fa sfoggio di un ottimo legato e di una pregevole rotondità di cavata, tuttavia, come capita spesso ai timbri più morbidi che brillanti, a pagare dazio è il volume, che a tratti soffre la maggiore esuberanza dei compagni di palcoscenico. Di contro si apprezza un’artista sensibile, che rifugge il sentimentalismo che in questo repertorio è un’ombra sempre in agguato, puntando sulla raffinatezza dell’articolazione e sulla dinamica.

Più controversa la prova di Shlomo Mintz il quale è sì musicista di grande sostanza, e lo si evince dalla pulizia della linea e dall’asciuttezza del fraseggio, ma che scansando ogni concessione all’edonismo finisce per trascurare la qualità del suono e, qua e là, incespica in qualche sbavatura d’intonazione. Insomma se da un lato conquistano la musicalità e il rigore di chi mira all’essenza della musica, dall’altro sorprende la pasta quasi metallica delle sonorità, a tratti persino graffianti (che paiono sposarsi assai meglio con la scrittura più tempestosa del bis, firmato Šostakovič).

Ciò che è fuori discussione è che Baglini, Chiesa e Mintz parlino la stessa lingua: c’è un comune sentire che giova alla coerenza interpretativa dei due lavori. Non c’è spazio per languori estatici, vibratoni svenevoli e ammiccamenti vari ma, viceversa, ciò che permea le due opere è un’urgenza incalzante e spoglia d’ogni retorica, che emerge sin dall’impronta drammatica e tagliente con cui viene affrontato l’Allegro moderato che apre il Trio di Arenskij. Non che ciò si traduca in un’omogenizzazione delle tinte e delle intenzioni lungo tutto l’arco del concerto; c’è la giusta malinconia ove richiesta (Elegia), il brio necessario nelle pagine più leggere, c’è un’apprezzabile diversificazione dei caratteri nelle Variazioni di Čajkovskij, eppure sempre senza calcare la mano.

Ottima l’accoglienza del pubblico a fine concerto.

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