Čajkovskij non era certo uno sprovveduto e sapeva benissimo che nell’Evgenij Onegin succede poco o nulla, tuttavia egli capì che la profondità poetica del ritratto umano che vi è racchiuso, così semplice e universale per Tat’jana, così lambiccato per il protagonista, poteva supplire a qualsiasi carenza. Certo non è un’opera da grandi gesti o pose tragiche ma da mezzetinte e sfumature, da finezze e dettagli, nel libretto come nella musica, perché non ci sono effetti da esasperare ma emozioni soffocate, occasioni perse, ironie, silenzi, illusioni e allusioni. Non c’è nemmeno una grande morte catartica finale che stemperi la tensione ma l’ergastolo da scontare in un’esistenza patetica e infelice. Insomma Onegin non è il classico triangolo operistico “lui-lei-l’altro” e se finisce per sembrarlo vuol dire che qualcosa non va.
Giustissima la scelta di puntare sul capolavoro di Čajkovskij per l’inaugurazione di stagione del Verdi di Trieste, dove mancava dal 2009, meno quella di ripescare un allestimento dell’Opera di Stato di Sofia che sembra uscito dalla soffitta della nonna. E non è questione di tradizione o meno, di ossequio al libretto o libertà creativa, ma esclusivamente di qualità della realizzazione. Un Onegin ambientato a inizio XIX secolo è legittimo, un Onegin che non si cura minimamente delle ragioni psicologiche dei personaggi o che, peggio, le risolve affidandosi a pochi stereotipi triti e ritriti, no.
Le scene di Alexander Kostyuchenko raccontano una nobiltà ottocentesca indefinita e potrebbero andare bene per tre quarti di repertorio – niente di strano, quando debuttò al Bolshoi nel 1881 per il finale dell’opera venne riciclata una scenografia della Traviata – ma non brillano nemmeno per qualità di fattura. Una manciata di pannelli rotanti incornicia uno spazio che talora diventa un palazzo, talora un giardino stilizzato. Tutto qua. Qualche proiezione aggiunge deboli variazioni sul tema.
Su questo impianto nato vecchio Vera Petrova ci mette il carico: la sua è una non-regia povera di azione, dinamica e interazione tra i personaggi ed è un peccato perché il cast, oltre ad essere vocalmente convincente, è composto da artisti giovani, belli e sicuramente in grado di prestarsi a una recitazione più moderna e approfondita. Il primo atto è un tripudio di bamboleggiamenti, la rissa tra Onegin e Lenskij è talmente imbalsamata da sfiorare il gandhismo, il finale pare lasciato all’iniziativa dei cantanti, persino le uscite per gli applausi sono governate con imbarazzo. Il teatro, oggi, è un’altra cosa. Lo sviluppo della narrazione come flashback del protagonista è un espediente che non aggiunge nulla e non brilla nemmeno per originalità.
Fortunatamente le cose vanno molto meglio all’ascolto. Cătălin Ţoropoc ha il phisique du role del bel dandy affascinante e può fare affidamento su un vocione baritonale scuro e ampio ma ancora da sgrezzare nell’emissione e da rifinire nell’intonazione. Si gioverebbe tuttavia anch’esso di qualche indicazione di regia più dettagliata e coraggiosa che lo schiodi dal proscenio.
La Tat’jana di Valentina Mastrangelo è una piacevolissima sorpresa. La voce ha la luminosità e il candore della (quasi) debuttante e corre in sala limpida, senza incrinature e senza trucchi, soprattutto in un registro medio-acuto che suona facile e naturale. L’interprete deve ancora prendere la confidenza col palcoscenico necessaria per la grande interpretazione ma è convincente, sensibile e molto, molto preparata. C’è da scommettere che questa giovane artista, se saprà fare le scelte giuste, andrà lontano.
Il Lenskij di Tigran Ohanyan è leggerino ma ha bel timbro ed è vocalmente garbato. Anastasia Boldyreva è una splendida Olga per velluto della vocalità, bellezza della figura e personalità. Molto positive le prove di Giovanna Lanza (Larina) e Alexandrina Marinova Stoyanova-Andreeva (balia). È cavernoso ma carismatico il principe Gremin di Vladimir Sazdovski mentre Dmytro Kyforuk si disimpegna dignitosamente nei couplets di Triquet. Completano il quadro Hiroshi Okawa e Roberto Gentili, rispettivamente Capitano e Zaretskij.
Fabrizio Maria Carminati, alla guida di una buona Orchestra del Verdi, garantisce solidità, precisione e ottimo sostegno al palco ma anche un buon passo teatrale. Con il procedere delle repliche è lecito pensare che si limeranno certe piccole rigidità e che si ammorbidirà ulteriormente il suono che il direttore, giustamente, restituisce nella sua scrittura quasi cameristica.
Formidabile il Coro del Verdi preparato da Francesca Tosi.
Buon successo per tutti.
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