1 dicembre 2017

Un Ballo in Maschera apre la stagione della Fenice

La tara che affligge il Ballo in Maschera in scena al Teatro La Fenice è una sorta di strabismo divergente: Aliverta guarda da una parte, Chung da quella opposta. Se il regista la butta in politica, o in sociologia, per il maestro coreano l’opera verdiana è fondamentalmente un affare intimo e privato. Il problema è che a entrambi manca un pezzo del puzzle e, soprattutto, che non riescono a incontrarsi a metà strada.


Myung-Whun Chung, che come da regola firma una splendida concertazione, estremizza l’interpretazione in senso “lirico”. Il suo Ballo, diretto in punta di fioretto, è un prodigio di raffinatezza e sfumature, persino di leggerezza e ironia, e funziona benissimo nel tratteggiare la vicenda amorosa soffocata dei protagonisti: il duetto del secondo atto è tutto mezzetinte e passioni trattenute, l’inizio del terzo, nella sua pudicizia cameristica, è in odore di dramma borghese. Quando invece si tratta impastare le atmosfere fosche dell’antro di Ulrica, o di spalancare gli abissi d’orrore nella scena dell’urna, ecco che manca qualcosa, sia pure soltanto un pizzico di spudorato effettismo, cosicché certe esplosioni improvvise paiono effetti senza causa, avulsi dalla linearità molto “zen” che li precede e segue. Manca il puzzo di Satàno, insomma.

Certo con Chung si vola sempre ad altissimo livello, l’Orchestra della Fenice è in ottima forma e dà il meglio di sé, gli equilibri sono soppesati al grammo, buca e palco sono un unico, oliatissimo meccanismo, l’accompagnamento alle arie è pura poesia et cetera, ma sul piano della coerenza della narrazione è lecito aspettarsi qualcosa di più da uno dei più autorevoli interpreti verdiani in circolazione.

Non si può poi escludere che una certa prudenza di fondo sia dettata dalla necessità di scendere a patti con un cast non privo di limiti. Limiti che si palesano principalmente nella protagonista femminile Kristin Lewis che, annunciata indisposta nel secondo intervallo (alla recita del 29 novembre), firma due atti al di sotto del livello di galleggiamento mentre pare riprendersi, almeno in parte, nell’ultima frazione.

Francesco Meli ha una splendida voce tenorile per pasta e volume, soprattutto nel medium, e sa manovrarla come Dio comanda (musicalità, bel legato, fraseggio elegante, dovizia di sfumature). A tratti si ha tuttavia l’impressione che la tentazione di “cantarsi addosso”, compiacendosi delle proprie virtù a discapito delle ragioni drammatiche del personaggio, prenda il sopravvento, ed è un peccato perché lo spazio per disegnare un Riccardo più asciutto e moderno ci sarebbe tutto.

Risulta corretto ma pallido il Renato di Vladimir Stoyanov, che pur sforzandosi di cesellare il canto con espressività e varietà d’accenti e dinamiche, soffre di qualche sbandamento nell’intonazione e di scarsa incisività. È viceversa inappuntabile l’Oscar di Serena Gamberoni: squillante, fresco, musicalmente a prova di bomba e padrone assoluto del palco. Una caratterizzazione da incorniciare.

A Silvia Beltrami la scrittura di Ulrica sembra stare ancora larga ma riesce in ogni caso a venirne a capo con mestiere mentre sono eccellenti tutte le parti minori, dai Samuel e Tom di Simon Lim e Mattia Denti al Silvano di William Corrò, passando per il giudice di Emanuele Giannino. Il Coro della Fenice preparato da Claudio Marino Moretti è come sempre superlativo.

Resta da dire dell’allestimento. Gianmaria Alivertache un paio d’anni fa qui aveva firmato una Mirandolina deliziosa – sposta l’azione in un’America di fine Ottocento più stereotipata che realistica, dominata dal conflitto etnico tra bianchi e neri.
L’idea potrebbe essere geniale o capziosa, poco importa, sta di fatto che non viene sviluppata in modo pienamente convincente. La questione razziale rimane sullo sfondo e poco aggiunge a un incedere drammaturgico e tecnico tendenzialmente monocorde. Alcune trovate sono indovinate, così come risulta ben realizzato qualche spezzone di spettacolo, ma nel complesso non si riesce a scansare la sensazione di un progetto arenato in quel guado che separa la tradizione più intransigente dall’innovazione, senza dire niente di rilevante né per l’una né per l’altra istanza. Lo si deve anche a una recitazione che non è particolarmente ricercata né dinamica, soprattutto per quanto riguarda i movimenti delle masse, e che fatica a calarsi nell’impianto scenografico; in tal senso è decisamente problematica la festa finale, confusionaria e rigida (e la responsabilità va condivisa con Barbara Pessina, coreografa), o la morte di Riccardo, che inizia con un improbabile sparo ad alta quota e termina con il tenore che si congeda in proscenio, senza preoccuparsi troppo di dare credibilità all’agonia che lo sta sfiancando.

Spesso si suol dire che le scene sono “funzionali” alla regia. Queste, firmate da Massimo Cecchetto, sono di gusto alterno ma se hanno un difetto è proprio la disfunzionalità: non è ammissibile che un cambio scena a sipario chiuso duri dieci minuti; la tensione si spezza e il pubblico inizia a pensare ad altro. Ad esempio a tutto ciò che poteva esserci e non c’era.

Paolo Locatelli
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