Sul finale de La mort de Mélisande, Esa-Pekka Salonen riduce l’orchestra a una fiammella lontana e fioca, quasi assorbita dal buio della sala. L’impressione è che le corde degli archi siano sfiorate da una bava di vento o dal solo pensiero. Un suono sottile, inafferrabile, sospeso in una dilatazione dei tempi talmente estenuata da sembrare insostenibile.
ph. Maurizio Brenzoni |
Il matrimonio tra Esa-Pekka Salonen, cinquantanovenne compositore e direttore finlandese, e la Philharmonia Orchestra di Londra è questo: un’identità timbrica e stilistica inconfondibile, una reciproca identificazione che si rivela nella musica, nella qualità del colore orchestrale, dal caratteristico tepore, nella sua trasparenza prodigiosa, in una morbidezza luminosa ma sobria. In tal senso l’impronta del Maestro è evidente, basta fermarsi ad analizzare l’evoluzione dell’orchestra, del suo carattere, nel corso degli anni; e fortunatamente non mancano le opportunità per farlo.
La storia della formazione inglese è curiosa: nacque nel 1945 per volontà di Walter Legge, leggendario producer della Emi, il quale radunò alcuni tra i migliori musicisti europei e li mise sotto lo stesso tetto (con Herbert von Karajan padrone di casa), al fine di garantire uno standard qualitativo di altissimo livello per le sue incisioni. Quando, nei primi anni ‘60, il progetto divenne insostenibile per l’etichetta inglese, l’orchestra fu dismessa. I musicisti e l’allora direttore principale, Otto Klemperer, non si arresero e decisero di rifondarla, con il prefisso “New” che sarebbe poi decaduto. Di lì in avanti la Philharmonia è cresciuta sotto la guida di alcuni tra i più grandi direttori del secolo (vi si sono avvicendati anche gli italiani Riccardo Muti e Giuseppe Sinopoli), fino a giungere all’attuale “era Salonen”, ormai prossima al giro di boa dei dieci anni. Un connubio felice, come si diceva, sia per l’estensione del repertorio, sia appunto per la tipicità del suono, sia – in fondo lo si dà per scontato – per la qualità tecnica mostruosa dei professori d’orchestra.
Se ne è avuta una riprova in occasione del recente ritorno in Italia, al Teatro Filarmonico di Verona, per Il Settembre dell’Accademia 2017.
Sibelius e Beethoven in programma. Diverso l’approccio, com’è ovvio che sia (orchestra sontuosa per il finlandese, più scarna per il tedesco), ma medesimo percorso di avvicinamento alla partitura. Salonen parte dalla forma, analizza, spiega, e poi si spinge oltre, a pennellare e raccontare. Sia nella Mort de Mélisande da Pelléas et Mélisande Op. 46 che nella Sinfonia n.6 in re minore Op. 104 di Jean Sibelius, sia nella Sinfonia n.3 in mi bemolle maggiore, Op.55 di Ludwig van Beethoven, il punto di partenza è la struttura. Ogni elemento architettonico della musica è inquadrato e pensato all’interno di un disegno, come fossero tutte tessere di un puzzle necessarie dalla prima all’ultima per la restituzione dell’immagine nella sua interezza. Salonen però non si ferma all’accademia ma riesce a infondere a un processo di analisi tanto accorto una vitalità travolgente. Le cellule ritmiche e tematiche sono sviluppate ad una ad una, si inseguono, si guardano ed intrecciano, in una narrazione dinamica e sorprendente. Ed è così perché ogni dettaglio è curato minuziosamente ma contestualizzato, ogni strumento dialoga con il resto dell’orchestra e la ascolta. Poi, inutile dirlo, il controllo tecnico del podio è pressoché perfetto: la tenuta ritmica implacabile, gli equilibri della concertazione bilanciati al millimetro, gli attacchi e la struttura del suono non temono la minima sbavatura.
Se Sibelius pare fluttuare tra le brezze nordiche della Finlandia per flessibilità e ricchezza di sfumature – Salonen lo ama e si sente: riesce ad infondervi una passione e un’intensità emotiva uniche –, il suo Beethoven è leggero e levigato ma più essenziale nelle sonorità e nell’agogica (non c’è spazio per compiacimenti ritmici esasperati, rallentandi, ammiccamenti).
Tutto riesce estremamente fluido perché vivacizzato dalla cura maniacale per l’articolazione e per i colori, e perché i cambi di tempo sono gestiti con una naturalezza che scansa ogni rischio di frattura.
La Marcia funebre è in tal senso emblematica, segnata da una drammaticità asciutta che sgorga dal contrasto dialettico tra la timida luminosità dei legni e l’ostinata, spenta cupezza di archi e timpani. Lo è forse ancor di più, per virtuosismo, il Finale, pervaso da un’elettricità danzante che va accumulandosi senza intaccare la limpidezza del contrappunto.
Trionfale l’accoglienza a fine concerto, chiuso da un ipnotico Valse triste.
ph. Maurizio Brenzoni |
ph. Maurizio Brenzoni |
Nessun commento:
Posta un commento