Partendo dalla definizione di Leonard Bernstein secondo cui la musica cosiddetta “classica” andrebbe più correttamente chiamata “esatta”, poiché strettamente vincolata ad un testo che la definisce in modo stringente, si incontrerebbe qualche difficoltà ad incasellare in questo ambito la produzione ottomana e mediorientale, che tuttavia classica lo è nei fatti. Per evitare di inciampare nel pozzo della terminologia, è sufficiente attenersi al buon vecchio adagio secondo cui esistono solo due tipi di musica: quella buona e quella cattiva. La musica che Jordi Savall ha portato al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone non è solo buona, anzi ottima, ma è musica fondamentale, ancestrale, è un condensato di civiltà.
Si parla di una tradizione secolare che è sopravvissuta grazie alla trasmissione orale e pratica, spesso, o a specifici codici di scrittura. Certo per noi, che siamo abituati ad associare la musica “colta” non solo ad una stretta relazione con il testo scritto – che negli ultimi decenni con l’evolversi degli studi filologici si è ulteriormente rinsaldata – ma anche ad un’identità autorale ben definita e storicamente inquadrata, può essere complicato avvicinarsi con la medesima disposizione intellettuale a un’arte senza padre e senza Vangelo, che ha resistito al tempo solo perché qualcuno l’ha insegnata a qualcun altro. Non solo: sovente in questo genere di espressione musicale, a differenza del repertorio classico per come lo conosciamo, viene lasciata grande libertà di manovra all’interprete, sia perché parte dell’esecuzione è basata sull’improvvisazione, sia perché alcune melodie sono talmente antiche che non si sa per quale strumento siano state concepite, non si sa dove, ed è pertanto impossibile stabilire quale sia il modo “corretto” di affrontarle.
Ci si chiede come sia possibile che il prodotto di culture tanto lontane, un prodotto per di più effimero e volatile come il suono, sia sopravvissuto inalterato generazione dopo generazione. La risposta che si è dato Savall è semplice ma convincente: perché le persone ne avevano bisogno, per ritrovare la pace e la serenità e soprattutto per rinnovare quotidianamente il legame con le proprie radici. Ed è proprio così. Ritrovarsi immersi in queste antiche melodie, così lontane dal nostro linguaggio eppure tanto vicine, pare un viaggio alla sorgente del Logos, un ritorno alla culla dell’umanità. È difficile afferrarne le ragioni ma si percepisce che questa tradizione è parte di noi e che di noi racconta qualcosa. Tali litanie circolari e liquide, per l’assenza di una scala temperata, riescono a pennellare – è davvero il caso di dirlo – il suono con un ventaglio di sfumature e cromatismi sorprendente. Inoltre reggono su un ritmo costituito da tempi composti e complessi, quasi tribali, che mutano continuamente senza lasciarsi afferrare.
Non è un caso in fondo che l’interesse per la tradizione del vicino Oriente abbia travolto molti dei più importanti compositori europei del XX secolo e che ancora oggi trovi adepti un po’ in tutti i campi, dal neoimpressionismo alla musica leggera, sia esso interpretato in chiave misticheggiante o New Age, sia con il rigore dello studioso, come nel caso appunto di Savall.
Il quale Savall parte da un testo, Il Libro della Scienza della Musica, scritto da Dimitrie Cantemir agli inizi del Settecento. Cantemir fu un filosofo, letterato, storico, musicologo,compositore, linguista ed etnografo, insomma un umanista a tutto tondo, ma fu anche ottimo interprete del tanbur (una sorta di liuto orientale le cui origini si perdono nella notte dei tempi) che dedicò parte delle sue energie allo studio e alla codificazione della musica colta ottomana, quella che si poteva ascoltare nella corte di Istanbul nei decenni a cavallo tra diciassettesimo e diciottesimo secolo. Figlio di un nobile moldavo, com’era costume dell’epoca il giovane Dimitrie fu inviato alla corte ottomana in qualità di ostaggio – la Moldavia era soggetta al dominio ottomano e queste erano le usanze – dove poté ricevere un’istruzione completa, entrando a contatto con tutte le culture che si incrociavano nella capitale dell’impero. Il palazzo del sultano Ahmed III, cui Cantemir dedicò il trattato, era infatti un centro di straordinaria varietà e tolleranza, che raccoglieva e mescolava conoscenze e tradizioni islamiche, orientali ed europee. Anche la musica che vi si poteva ascoltare, considerata all’epoca per raffinatezza e complessità persino superiore alla contemporanea occidentale, affondava le proprie radici nel folclore ma anche nella stessa musica europea, grazie all’immigrazione in Turchia di vari gruppi etnici esuli.
Nel Libro della Scienza della Musica Cantemir raccolse 355 brani, di cui 9 composti di suo pugno, ideando un sistema di notazione musicale ad hoc. Il testo raccoglie fondamentalmente dei makam, cioè delle melodie arabe strettamente codificate (sia per la composizione che per l’esecuzione), che tuttavia nella “prassi esecutiva” devono essere precedute da dei taksim, cioè dei “preludi” basati sull’improvvisazione.
Così si spiega la scelta di accostare alla musica “di corte” ottomana quella proveniente dalle tradizioni popolari circostanti, quindi sefardite, armene e greche, tramandate spesso, come si diceva, oralmente, e poi raccolte talvolta in testi specifici, com’è il caso del Voskeporik in cui il musicologo armeno Nigoghos Tahmizian ha fissato parte della storia delle sue terre.
Come detto si tratta di un repertorio di grande complessità tecnica, che pure sembra un gioco da ragazzi nelle mani degli artisti dell’Hespèrion XXI “Istanbul”, un ensemble già noto al pubblico pordenonese, composto da strumentisti di provenienza e formazione delle più eterogenee.
Haïg Sarikouyoumdjian (armeno) al duduk, una sorta di oboe dal suono ovattato ma ampio, dipinge la musica come un incantatore di serpenti. Pedro Estevan è un mago delle percussioni, non solo per il senso del ritmo ma soprattutto per i colori che riesce a trarre dai suo strumenti.
Hakan Güngör suona prodigiosamente il kanun, che ricorda un'arpa orizzontale, mentre Yurdal Tokcan, turco anch’esso, è un virtuoso dell’oud, un liuto a manico corto senza senza tasti, cosa che consente di pennellare la musica anche in intervalli più ristretti del canonico semitono.
Nedyalko Nedyalkov, bulgaro, maneggia il kaval, un flauto cromatico dal timbro flebile e “ventoso”. Il polistrumentista greco Dimitri Psonis si divide tra il saz turco, un cordofono a manico lungo, e il santoor, uno strumento antichissimo, probabilmente di origini mesopotamiche, che produce un suono tramite le percussione, con delle leggerissime bacchette, di corde disposte orizzontalmente.
E infine c’è lui Jordi Savall, viola d’arco e lyra. Seduto all’estrema sinistra del palco, quasi in disparte senza alcuna posa divistica, non solo suona da padreterno ma capisce anche quando è il momento di spiegare alla platea le ragioni del concerto, riuscendo a portarlo immediatamente dalla sua parte. E in tal senso il pubblico pordenonese è una spugna: sia forse per la giovinezza del teatro, sia per la mentalità della città, nella sala del Verdi si giudica sempre e solo dopo avere ascoltato e si affronta ogni cosa senza preconcetti e con una curiosità verginale. Poco importa se qualche applauso rimane inceppato o parte anzitempo, questo è l’atteggiamento giusto.
Dopo due ore ininterrotte di (bellissima) musica è trionfo.
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