Che in Germania ci siano alcune delle orchestre più prestigiose al mondo non è un caso, né lo sarà in futuro. La tradizione va coltivata e tramandata, bisogna che ci siano dei figli pronti a farsi carico di quanto i padri hanno ereditato dai nonni e, siatene certi, ci sono. Alcuni di loro siedono ai leggii della Bundesjugendorchester, una formazione giovanile – lo dicono i documenti di identità, non l'udito – composta dalla meglio gioventù tedesca, quella che di qui a qualche anno costituirà i rincalzi delle varie Filarmonica di Berlino, Staatskapelle di Dresda, BRSO e via dicendo.
Un'istituzione che porta sulle spalle una simile eredità non poteva che aprire il 2020 omaggiando Beethoven, nell'anno del duecentocinquantesimo anniversario dalla nascita. Il progetto Beethoven 2020, che arriva eccezionalmente in doppia data al Giovanni da Udine – dove si è replicato lunedì 20 per le scuole: i giovani per i giovani – coniuga una delle sinfonie più celebri in assoluto, la Quinta, all'Ouverture del Fidelio, inframezzate da due brani contemporanei o quasi, ispirati allo stesso Ludwig. Il primo, Tenebrae di Klaus Huber, è diretta emanazione di quegli anni Sessanta in cui nasce, portandone il carattere avanguardista, non completamente svincolato dalla lezione dei grandi compositori precedenti. È un lavoro molto pensato, di quelli che in certe aree culturali avrebbero potuto bollare di formalismo. Il secondo lavoro, Rush per grande orchestra e live electronics, è una nuova commissione a firma di Sergej Maingardt. Seppur frammentario nella scrittura, colpisce soprattutto per la sua natura crossover tra il sinfonismo più tradizionale e la musica elettronica, giovandosi di un ventaglio di effettistica digitale che adultera e deforma la natura stessa dei suoni, oltre all’adozione di strumenti generalmente alieni al repertorio orchestrale, come fisarmonica e chitarra elettrica.
Come accade spesso, l'accoppiata giovane orchestra/vecchio maestro funziona a meraviglia, quasi le due componenti riuscissero a infondersi reciprocamente le virtù mancanti, l'esperienza da un lato, il furore della giovinezza dall'altro. Lothar Zagrosek è quel che si definirebbe, con accezione tutt'altro che negativa, un Kapellmeister. Solido, esperto, enciclopedico, affidabile. Laddove all'affidabilità si attribuiscono pregi e il solo limite di non discostarsi dall’alveo del già sentito. Zagrosek non fa dunque un Beethoven rivelatore, ma piacevolissimo e ben lavorato, insomma conosce i ferri del mestiere. Concerta con puntiglio, nel duplice Beethoven schiva i rischi di secchezza e pesantezza, pur trovandosi di fronte un’orchestra molto “tedesca” nel suono, bello corpulento da “panzer”. Ne cava un’ottima varietà dinamica, amalgama equilibrato che si mangia giusto le frequenze di mezzo nei momenti più infuocati, ed è ancor più virtuoso nel tenere insieme i pezzi nel territorio contemporaneo, che ha organico ben più nutrito e scrittura tecnicamente assai complessa. Qualche sbavatura di rodaggio scappa via solo nel Fidelio.
Successo caloroso.
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